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Lo Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige fu approvato dall'Assemblea costituente il 31 gennaio 1948 e promulgato con Legge Costituzionale 26 febbraio 1948, n. 5. 16.
Le avvisaglie della crisi.
A meno di dieci anni dalla sua entrata in vigore il primo statuto mostrava la sua inadeguatezza come strumento per l'attuazione dell'autonomia e la tenuta dei rapporti tra Roma, Trento e Bolzano.
I motivi di insoddisfazione da parte dei sudtirolesi non mancavano, la parificazione delle due lingue restava un enunciato, l'impiego pubblico era appannaggio degli italiani, l'edilizia popolare rispondeva più alle esigenze della popolazione di lingua italiana.
Il governo italiano non procedeva con il rilascio delle norme di attuazione e senza deleghe sulle competenze l'autonomia provinciale restava sul piano della promessa.
L'uscita di scena di Degasperi e Gruber (1953), autorevoli garanti della lettera e dello spirito dell'accordo, corrispose all'apertura di una nuova fase politica anche nei rapporti con l'Austria.
Lo stesso Degasperi, alla fine del suo mandato alla presidenza del Consiglio, aveva spronato gli esponenti della Democrazia cristiana (DC) regionale a realizzare al meglio quanto previsto dall'Accordo di Parigi e dallo statuto.
Presto l'Austria avrebbe ottenuto il Trattato di Stato (1955) e, sollecitata dai sudtirolesi, si sarebbe presentata in politica estera come potenza tutrice della minoranza di lingua tedesca.
In Italia i governi centristi del dopo Degasperi si dimostravano nel frattempo più preoccupati di rafforzare il centralismo che disposti a dare corso al decentramento dei poteri previsto dalla carta costituzionale.
Di fronte agli scarsi passi avanti nell'applicazione delle norme dello statuto da parte del governo italiano, crebbe all'interno della SVP il fronte di chi dubitava che il dialogo tra Roma e Bolzano potesse dare buoni frutti.
La richiesta di plebiscito per Trieste, lanciata dal presidente del Consiglio Giuseppe Pella nel settembre 1953, fu l'occasione per la SVP di sollevare il problema del diritto di autodeterminazione negato alla minoranza sudtirolese nell'immediato secondo dopoguerra.
Ne seguì l'avvio di una campagna di sensibilizzazione e mobilitazione sulla questione altoatesina.
L'obiettivo era duplice, da una parte risvegliare l'attenzione internazionale sull'Alto Adige e, dall'altra, esercitare pressioni affinché Vienna sposasse per intero la causa dei sudtirolesi, riaprendo l'intera vertenza altoatesina.
Circa un mese dopo ed esattamente il 28 ottobre anniversario della marcia su Roma, data scelta non a caso, il canonico Michael Gamper, indiscussa autorità morale e guida non solo spirituale della minoranza di lingua tedesca, denunciò la Todesmarsch (marcia della morte) dei sudtirolesi, a causa di una presunta massiccia e continua immigrazione di italiani in Alto Adige.
La denuncia, peraltro basata su calcoli demografici errati, ebbe una larga eco.
A Innsbruck vi furono manifestazioni e prese di posizione politiche del governo tirolese, che richiamò il dovere nazionale di prestare aiuto ai fratelli sudtirolesi per il riconoscimento dei loro diritti.
La presentazione nel febbraio 1954 di un memoriale della SVP al governo italiano sulla mancata applicazione dell'Accordo Degasperi-Gruber fu l'atto politico che aprì la fase di contestazione.
Le osservazioni della presidenza del Consiglio al documento si aprivano con il dubbio di fondo che i rappresentanti della minoranza di lingua tedesca mirassero ad altro scopo:
Erano presupposti tutt'altro che favorevoli all'avvio di un necessario e urgente confronto di merito sulle questioni sollevate dal memoriale.
La macchina si è messa in moto, la metafora usata dall'ambasciatore austriaco Johann Schwarzenberg a colloquio con il suo omologo italiano Vittorio Zoppi, dopo la manifestazione che si era svolta a Innsbruck il 24 novembre 1953 per fermare la Todesmarsch dei sudtirolesi e le concomitanti dichiarazioni del neo eletto presidente della Dieta del Tirolo Alois Grauß (ÖVP) sul “dovere nazionale” di prestare aiuto ai fratelli sudtirolesi, annunciava la rapida evoluzione della crisi nei rapporti tra Roma, Bolzano e Vienna con al centro la questione altoatesina.
Il cortocircuito della politica italiana sull'atteggiamento da tenersi nei confronti delle richieste della minoranza di lingua tedesca fu tra i precipitati di questa crisi.
Le rappresentanze diplomatiche in Austria, che avevano il polso di quanto stava accadendo oltre il Brennero, sostenevano la necessità di piccole aperture.
Al contrario, la presidenza del Consiglio insisteva non solo nel non concedere nulla ma non intendeva nemmeno avviare consultazioni con Vienna in merito all'attuazione dell'Accordo di Parigi, considerata una questione interna da risolversi tra Roma e Bolzano.
La linea di chiusura scelta dal governo italiano sortì l'effetto atteso di indebolire la leadership della SVP.
Ma a essere colpiti furono gli esponenti della corrente borghese-liberale moderata (Erich Amonn e Josef Raffeiner) e nel partito si aprirono ampi spazi di manovra per chi intendeva rimettere al centro la Volkstumspolitik (politica etnica) nonché avviare un'azione più ferma con Roma.
A quel punto, politicamente, alle chiusure del governo non avrebbe corrisposto l'indebolimento bensì l'irrigidimento della SVP.
Ciò che di fatto avvenne nel 1957 quando la dirigenza del partito fu assunta da un gruppo di giovani, tra questi il futuro Obmann Silvius Magnago, che propugnavano una politica dei fatti contrapposta a quella delle parole.
A livello locale cominciarono a registrarsi tensioni tra forze dell'ordine e popolazione tedesca, la destra tricolore riconquistò le piazze facendosi interprete dei timori degli italiani e saltarono in aria i primi tralicci.
Tutti segnali di un inasprimento del clima in atto.
Con l'adunata di Castel Firmiano, da cui Magnago lanciò il Los von Trient! (Via da Trento!), il gruppo di lingua tedesca diede una dimostrazione pacifica di compattezza nel rigettare un'autonomia considerata solo di facciata.
Il passo successivo fu l'uscita della SVP dalla giunta regionale nel 1959, atto finale della crisi del primo statuto.
L'attenzione dei sudtirolesi era ormai rivolta oltre il confine per cogliere, tra gli esempi di minoranze oppresse, movimenti indipendentisti e modelli di soluzione internazionale, ragioni per riaprire la questione altoatesina.
Conquistata la piena sovranità con il Trattato di Stato, l'entrata in gioco a pieno titolo dell'Austria, terzo polo di una partita che fino ad allora si era sostanzialmente La disputa sull'Alto Adige davanti all'ONU:
Su iniziativa austriaca, nel 1960 l'ONU discusse sull'Alto Adige, che ebbe così il proprio battesimo internazionale.
La soluzione della controversia, secondo la risoluzione approvata dall'Assemblea Generale, andava cercata nella prosecuzione delle trattative bilaterali tra l'Italia e l'Austria.
Un invito al dialogo e una conferma del diritto di Vienna di occuparsi della questione altoatesina.
L'imbuto della violenza.
Alla fine degli anni cinquanta la crisi del primo statuto era ormai conclamata e sui piani politico e diplomatico non vi erano soluzioni alla portata.
Il governo italiano escludeva la possibilità di concedere maggiori spazi di autonomia al gruppo di lingua tedesca, il quale a sua volta insisteva sul proprio diritto all'autogoverno in provincia di Bolzano.
La questione altoatesina scivolava progressivamente verso un problema di ordine pubblico.
Fonti fiduciarie e rapporti delle forze dell'ordine segnalavano il crescente attivismo dei circoli irredentisti e una recrudescenza degli attentati dinamitardi.
Frange radicali organizzate, che spingevano verso l'autodeterminazione e il distacco dall'Italia, avevano trovato spazio per inserirsi nella più generale protesta della minoranza sudtirolese contro il governo italiano.
Nell'adunata di Castel Firmiano militanti del neo costituito Befreiungsausschuss Südtirol comitato di liberazione del Sudtirolo, BAS), organizzazione clandestina che fu responsabile della stagione delle bombe in Alto Adige, distribuirono un volantino che incitava i sudtirolesi a prepararsi alla battaglia per la propria esistenza, per un Sudtirolo libero.
Il loro motto non era il Los von Trient!, bensì il Los von Rom! (via da Roma!) con un confuso e velleitario riferimento alla lotta di liberazione dei popoli che in quegli anni combattevano contro il colonialismo.
Le bombe a firma BAS cominciarono a scoppiare nel 1957 e colpirono inizialmente obiettivi simbolici monumenti e lapidi, compresa la tomba di Ettore Tolomei).
Si registrò un progressivo salto di qualità nella pianificazione dell'uso di mezzi violenti, ormai concepiti come arma politica.
L'occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell'insurrezione tirolese capeggiata da Andreas Hofer (1809-1959) venne ad assumere in Austria, così come in Alto Adige, un grande significato politico-ideologico.
Era un'importante manifestazione ufficiale che si prestava anche ai gruppi più radicali per soffiare sul fuoco della secessione.
I motivi di preoccupazione per lo stato di tensione etnica e politica che si sarebbe potuto generare, erano aggravati dal fatto che tali celebrazioni sarebbero durate per un anno intero e avrebbero avuto al centro proprio la Südtirolfrage (questione sudtirolese).
In un crescendo di attentati, s'intensificarono anche i contatti tra i militanti sudtirolesi e nordtirolesi del BAS e il primo giugno 1961 in una riunione segreta a Zernez, in Svizzera, fu pianificata la cosiddetta notte dei fuochi.
Le bombe che scoppiarono e che inaugurarono una lunga stagione di terrore in Alto Adige non causarono solo danni materiali, ma anche vittime.
L'effetto che produssero, a dispetto di ciò che si attendevano i dinamitardi, non fu quello di portare a soluzione il problema bensì di inasprirlo.
La Chiesa locale e la SVP condannarono da subito gli attentati e anche nella maggioranza della popolazione sudtirolese prevalse la convinzione che la violenza fosse la reazione sbagliata.
La risposta dello Stato non si fece attendere e il territorio altoatesino venne militarizzato.
I riflettori dei media italiani si accesero per la prima volta su un mondo tanto distante da essere considerato straniero e ora anche ostile.
L'immagine dell'Alto Adige si appiattì sugli attentati e sulle conseguenze, poco o nulla emerse sulle cause così come sui retroscena della repressione.
Prevalse la convinzione che la violenza fosse la reazione sbagliata. 19.
La risposta dello Stato italiano alla notte dei fuochi non si fermò solo sul piano della reazione e della repressione dei fatti di reato.
In un clima non certo favorevole, anche per l'impressione che la violenza terroristica pagasse ai fini di costringere a una svolta, la proposta avanzata dal governo di un diretto confronto interno sui problemi dell'Alto Adige risultò determinante per la ripresa del dialogo tra le parti.
Era l'ora della responsabilità per tutti gli attori in causa, a partire dall'unanime condanna degli attentati.
Per la prima volta dopo l'annessione si ponevano le basi di una verifica politica aperta tra governo e minoranza di lingua tedesca.
Con la Commissione dei Diciannove, costituita su iniziativa del ministro dell'Interno Mario Scelba, il problema dell'Alto Adige tornava nell'alveo delle questioni politiche interne, nei nodi dei rapporti tra Roma e Bolzano che per primi dovevano essere sciolti.
La Commissione era un organo consultivo investito di un compito delicatissimo:
rendere possibile una soluzione concordata.
Berloffa, suo ispiratore, ne richiamò l'assoluta rilevanza in una lettera a Scelba il giorno prima dell'insediamento della Commissione: Sta impegnando le teste più responsabili dell'Alto Adige:
guai se dovesse fallire.
La SVP, guidata da Silvius Magnago, manifestò con convinzione la volontà di contribuire alla necessaria ripresa e la disponibilità a riavviare il confronto.
Nel novembre 1961, a pochi mesi dall'inizio dei lavori della Commissione dei Diciannove, si tenne a Bolzano il VI Convegno Amici e Collaboratori del Mulino sul tema Una politica per l'Alto Adige.
La manifesta propensione autonomista, l'orientamento critico nei confronti del centralismo statale e lo spirito federalista che animava gli organizzatori del convegno permisero un franco confronto tra le parti anche in loco.
DC altoatesina (Lidia Menapace e Giuseppe Farias) e l'autorevolezza degli altri relatori, tra questi Altiero Spinelli e Umberto Segre, non solo qualificò i lavori del convegno ma confermò il valore di un orientamento e di un metodo, quello del dialogo, che furono propri della Commissione dei Diciannove e dello spirito con cui il centrosinistra approcciò la questione altoatesina negli anni a seguire.
Un contributo pacificatore importante venne anche dalla Chiesa locale che, attraverso il magistero del vescovo Joseph Gargitter, fu di costante richiamo ai valori dell'ascolto, della solidarietà, del rispetto dello Stato e delle minoranze.
Nel 1964 la decisione di modificare i confini delle diocesi di Trento e Bressanone, facendoli coincidere con quelli delle due province, oltre alle motivazioni pastorali che l'avevano suggerita, parve indicare la direzione del nuovo assetto dell'autonomia.
I lavori della Commissione dei Diciannove si protrassero dal settembre 1961 all'aprile 1964 e furono accompagnati da una recrudescenza degli attentati terroristici.
Le questioni sul tavolo erano molte e complesse, tante le materie da trattare, dalla scuola all'uso della lingua, dalla riserva di posti negli impieghi statali riservati agli appartenenti al gruppo linguistico tedesco all'edilizia popolare, dalla revisione delle opzioni al potenziamento dell'autonomia provinciale.
Non mancavano aspetti legati all'economia, al commercio e al credito.
I risultati della Commissione, raccolti nella relazione che fu consegnata al governo italiano, erano incoraggianti.
Erano migliorati nel frattempo anche i rapporti tra Bolzano e Trento e i rispettivi partiti di maggioranza.
Il compromesso raggiunto rafforzava le autonomie provinciali e avrebbe pertanto rafforzato anche il Trentino.
Nel dicembre 1963 Aldo Moro, nuovo presidente del Consiglio, fece cenno diretto nel suo discorso programmatico ai lavori della Commissione dei Diciannove, quale base per giungere a una soluzione della vertenza altoatesina.
Era nato il primo governo di centro sinistra organico, che ebbe positive ricadute sull'Alto Adige.
Il metodo del confronto e della ricerca di intese tra governo e rappresentanti delle popolazioni locali aveva aperto una strada maestra sia per costruire la nuova casa dell'autonomia sulla base di una rinnovata fiducia tra le parti, sia per favorire buoni rapporti tra Italia e Austria.
I risultati della Commissione avevano consentito il raggiungimento di un accordo tra i rispettivi ministri degli Esteri, i socialdemocratici Giuseppe Saragat e Bruno Kreisky, per il superamento della controversia.
Ciò che fu definito il Pacchetto Saragat-Kreisky non ebbe però seguito, la SVP giudicò insoddisfacente l'intesa e insufficienti i risultati raggiunti in merito all'attribuzione di alcune competenze alla Provincia di Bolzano.
Le trattative bilaterali entrarono in una situazione di sostanziale stallo per circa un anno e mezzo, mentre riprese il confronto diretto tra Roma e Bolzano.
Azioni terroristiche sempre più cruente e con un carico maggiore di vittime, i cui effetti si riverberarono anche sul deciso peggioramento delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, furono ulteriori ostacoli lungo il cammino né lineare né breve della risoluzione del problema altoatesino.
In queste difficili fasi della vertenza fu determinante il ruolo attivo assunto da Aldo.
I personali e riservati incontri seppero creare un reciproco clima di rispetto e fiducia, necessario per procedere verso la soluzione della vertenza con la soddisfazione di tutte le parti. 21Con l'accoglimento del Pacchetto, dapprima da parte dell'assemblea SVP, il 23 novembre 1969, e quindi dai parlamenti italiano e austriaco nel 1971, si gettano le basi politiche del secondo.
Alla Provincia di Bolzano vengono assegnate una serie di competenze legislative e funzioni amministrative, in parte primarie e in parte secondarie.
Dopo l'insoddisfacente statuto del 1948, il nuovo documento punta a mettere fine a decenni di conflitto e a tutelare le minoranze etniche della Provincia autonoma. 43.
Tappe e orientamenti dell'autonomia altoatesina dal 1972.
L'autonomia è un processo negoziale aperto.
dopo quattordici ore di dibattito, Silvius Magnago riesce a ottenere la maggioranza per l'approvazione del Pacchetto, 22 novembre 1969 45 Un grande sforzo iniziato in sordina.
La nuova era dell'autonomia inizia in sordina.
Ed è per puro caso che il 20 gennaio 1972, giorno in cui entra in vigore il nuovo statuto, sia in calendario una riunione del Consiglio provinciale.
Lo storico momento, infatti, viene ricordato solo nelle parole introduttive del presidente dell'aula consiliare, Silvio Nicolodi:
Ci dobbiamo e sono sicuro ci vogliamo impegnare a operare affinché la fiducia in noi riposta non sia delusa.
Niente squilli di tromba o espressioni di esultanza, insomma.
L'ammonimento lanciato da Nicolodi non deludere la fiducia riposta in noi può essere interpretato in due modi.
Nel 1969, con l'accoglimento del Pacchetto, la SVP fatica non poco a concedere fiducia allo Stato italiano.
Il quale, da parte sua e malgrado la propria concezione centralistica, concede all'Alto Adige ampi diritti di autogoverno e riconosce le minoranze del territorio.