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Processo amministrativo - Depositi - Ricorso - Indirizzo PEC errato - Sanatoria           Nel processo amministrativo, il deposito del ricorso in modalità digitale deve avvenire necessariamente all’indirizzo PEC specificamente abilitato a ricevere i ricorsi, come previsto dall’art. 9, commi 2 e 11, del d.P.C.S. 28 luglio 2021, sul Processo amministrativo telematico (PAT). (1)           Il deposito del ricorso eseguito mediante spedizione ad un diverso indirizzo PEC, ancorché del medesimo ufficio giudiziario, non è idoneo a determinare la pendenza del giudizio, impedendo la tempestiva presa in carico del ricorso da parte dell’ufficio giudiziario stesso. (2)   In tale ipotesi, non è consentito al giudice di ordinare la regolarizzazione. (3) Ove anche si volesse ritenere che il deposito telematico del ricorso ad un indirizzo PEC errato del medesimo ufficio giudiziario sia da qualificare come mera irregolarità sanabile, il deposito dovrebbe considerarsi effettuato il primo giorno utile di apertura al pubblico. (4) È irricevibile il ricorso elettorale in appello depositato oltre il termine perentorio di due giorni decorrenti dalla pubblicazione della sentenza di primo grado, fissato dall’art. 129 c.p.a. (5)
Processo amministrativo
Sanità pubblica - Assistenza sanitaria – Roma Capitale – Fondi deòl “dopo di noi” – Riservati ai disabili con più di diciotto anni – Legittimità.       E’ legittima, perchè in linea con la l. n. 112 del 2016 e con il d.m. del 23 novembre 2016 la delibera di Roma Capitale che fissa i criteri di priorità all’accesso ai programmi finanziati dalla legge sul “dopo di noi”, ai disabili con più di diciotto anni.    A i sensi dell’art. 4 della l. n. 112 del 2016 e degli artt. 5 e 6 del D.M. del 23 novembre 2016, le finalità del Fondo sono quelle di accompagnare la persona con disabilità grave, priva del sostegno familiare, nel percorso verso l’autonomia attraverso l’inserimento in programmi di accrescimento della consapevolezza, di abilitazione e di sviluppo delle competenze per la gestione della vita quotidiana e per il raggiungimento del maggior livello di autonomia possibile.  L’art. 4 del citato D.M. del 23 novembre 2016 individua i beneficiari del Fondo e, nel contempo, fissa i criteri di priorità all’accesso ai programmi finanziati dalla legge sul “dopo di noi”, mentre il successivo art. 5, comma 2, prevede l’assegnazione dei fondi calcolata sulla base della quota di popolazione regionale nella fascia d’età tra i 18 e i 64 anni.  Infine, anche la D.G.R. n. 454 del 25 luglio 2017 prevede espressamente la destinazione dei fondi per i percorsi programmati di accompagnamento per l’uscita dal nucleo familiare e la deistituzionalizzazione a «una fascia di persone adulte con disabilità».  A fronte della pacifica circostanza della limitatezza delle risorse del fondo e dell’altrettanto logica conseguenza di stabilire dei criteri per la loro assegnazione, discende che la scelta operata dall’amministrazione capitolina circa il limite dei 18 anni non solo è in linea con la l. n. 112 del 2016 e con il D.M. del 23 novembre 2016, ma non presenta nemmeno i connotati di irragionevolezza e illogicità né determinerebbe una disparità di trattamento rispetto ad altri soggetti che versano nelle medesime condizioni, attesa anche l’esistenza della normativa ad hoc per l’accoglienza dei minori.  Se è vero che la l. n. 112 del 2016 non esclude i minori dal novero delle persone con disabilità grave, è altresì vero che la funzione del Fondo, in modo del tutto ragionevole, è quella di privilegiare anzitutto i disabili adulti, in quanto la legge si propone il fine precipuo di favorire la deistituzionalizzazione dei soggetti già privi di sostegno familiare o l’acquisizione di autonomia e indipendenza per coloro che la perdono o sono in procinto di perderla.  L’uscita dal nucleo familiare, la deistituzionalizzazione, il raggiungimento della maggiore autonomia possibile, l’acquisto, la locazione o la ristrutturazione di una casa sono tutti obiettivi che hanno presupposto il fatto che il soggetto sia maggiorenne o prossimo alla maggiore età perché è proprio nei confronti di tali soggetti che la deistituzionalizzazione, nel modo in cui la legge l’ha intesa, può svolgere davvero un ruolo fondamentale, se privi appunto di sostegno familiare in quanto mancanti di entrambi i genitori o perché gli stessi non sono in grado di fornire l’adeguato sostegno genitoriale nonché in vista del venir meno del sostegno familiare.  Ciò non significa però, si badi, che il minore sia privo di sostegno o che, se in procinto della maggiore età, non debba essere ammesso al Fondo.  Non a caso, e infatti, la delibera regionale n. 554 del 5 agosto 2021, già sopra richiamata, chiarisce una volta per tutte che, se i beneficiari del “dopo di noi” sono di norma maggiorenni, per i minori i servizi territoriali dovranno valutare l’opportunità di indirizzare il bisogno ad un’offerta che tuteli l’età e la condizione di disabilità, come le strutture a ciclo residenziale per minori indicate nella L.R. n. 41 del 2003, che prestano servizi finalizzati ad interventi socio-assistenziali ed educativi integrativi o sostitutivi della famiglia sulla base di un piano personalizzato educativo-assistenziale, anche in considerazione delle disposizioni di cui al DCA 242/2018 per le prestazioni sociosanitarie in favore di minori con disabilità complessa neuropsichica e/o neuromotoria ad alta complessità assistenziale in struttura socioassistenziale. 
Sanità pubblica
Energia elettrica - Fotovoltaici – Autorizzazione unica – Conferenza di servizi – Ritardo - Conseguenza.                             Ai fini del rilascio dell’autorizzazione unica per la realizzazione dell’impianto fotovoltaico, il modulo procedimentale prescelto dal legislatore è quello della conferenza di servizi e la presentazione della documentazione incide sullo svolgimento del procedimento, nel senso di impedirne la trattazione in caso di incompletezza (1).     (1) Ha ricordato il C.g.a. che al fine di scrutinare una domanda di risarcimento del danno per inosservanza del termine di rilascio dell’autorizzazione per la realizzazione dell’impianto fotovoltaico vale richiamare l’orientamento dell’Adunanza plenaria 23 aprile 2021 n. 7 in merito al fatto che il danno da ritardo segue le sorti del danno da mancato riconoscimento (illegittimo) del bene della vita. Ha aggiunto che, anche a ritenere ristorabile la lesione del bene tempo indipendentemente dalla spettanza del bene della vita anelato, va apprezzata, al fine di valutare la sussistenza del nesso di causalità, l’omissione di ogni comportamento esigibile da parte del preteso danneggiato, quali la presentazione di un’istanza completa, l’esercizio del potere di avocazione e delle azioni impugnatorie o avverso il silenzio, oltre che la proposizione del ricorso per ottemperanza.  Ha altresì precisato che l’esame dell’ingiustizia del danno presuppone il bilanciamento fra le contrapposte sfere giuridiche, atteso che su entrambe le parti del rapporto di diritto pubblico gravano obblighi di buona fede e di collaborazione, che sono attualmente sanciti dall’art. 1 comma 2-bis legge n. 241 del 1990 ma erano già riconosciuti in precedenza dalla giurisprudenza (Ad. plen. 25 febbraio 2014 n. 9), sicché non può richiedersi che solo una di esse, la parte pubblica, sopporti le conseguenze pregiudizievoli che sono derivate dall’asserita violazione degli obblighi di collaborazione, se il privato si è sottratto anch’esso al canone collaborativo.
Energia elettrica
Urbanistica – Strumenti urbanistici – Tipicità e nominatività degli strumenti urbanistici – Conseguenza.       Il principio di tipicità e nominatività degli strumenti urbanistici – che discende dal più generale principio di legalità e tipicità degli atti amministrativi e che non risponde soltanto ad esigenze formali, ma anche di garanzia del perseguimento di un ordinato assetto del territorio – determina l’impossibilità per l’Amministrazione di dotarsi di piani urbanistici (sia a carattere indicativo sia coercitivo) che per nome, causa e contenuto si discostino dal numerus clausus previsto dalla legge (1). ​​​​​​ (1) Cons. St., sez. IV, 26 agosto 2016, n. 3700; id. 13 luglio 2010, n. 4545; id. 7 novembre 2001, n. 5721; id.  28 luglio 1982, n. 525.  ​​​​​​​Ha ricordato la Sezione che la gestione dell’assetto del territorio è invero una funzione che si estrinseca in una molteplice tipologia di manifestazioni di potestà pubbliche, in cui ciascuna deve essere caratterizzata per legge (a garanzia dei destinatari) da una propria causa, da propri effetti e da una corrispondente competenza, sicché nell’ordinamento non sussiste in capo ad alcun centro amministrativo un generale ed indifferenziato potere di pianificazione del territorio, libero quanto a mezzi e a forme, capace di incidere sui diritti dei consociati. 
Urbanistica
Contratti della Pubblica amministrazione - Comitato tecnico esecutivo - D.L. n. 76 del 2020 – Presidente - Avvocati del libero Foro – Possibilità.              E’ illegittima l’esclusione degli avvocati del libero Foro dalla possibilità di diventare Presidenti del comitato tecnico esecutivo in materia di appalti, previso dal d.l. n. 76 del 2020 (1).    (1) La Sezione ha preliminarmente osservato che la  categoria professionale non rientra tra i giuristi di cui al punto 2.4.2., lett. a), del d.m. n. 12/2022, posto che tale disposizione – dovendo escludersi l’avvenuta assunzione di significativi incarichi di responsabile unico del procedimento, di direttore dei lavori, di presidente di commissione di collaudo tecnico-amministrativo, connotata da contenuti prettamente tecnico – ingegneristici – individua, tra i requisiti che devono essere posseduti per la nomina a Presidente, lo svolgimento di incarichi che risultano incompatibili con l’esercizio dell’attività forense ovvero, con riferimento alle funzioni di “presidente di commissione per l’accordo bonario nell’ambito di appalti sopra soglia europea e proporzionati all’incarico da assumere”, un incarico che, alla luce della disciplina vigente, non può più essere assunto in quanto la commissione per l’accordo bonario, disciplinata dall’abrogato art. 240 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, è stata sostituita dalla figura dell’esperto incaricato della formulazione della proposta motivata di accordo bonario per i lavori ai sensi dell’art. 205 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50  Ha aggiunto che tra le qualifiche professionali dei giuristi prese in considerazione dal sintetizzato punto 2.4.3., lett. c), dell’impugnato Decreto ministeriale, è contemplata e giustapposta a quella del menzionato personale operante in regime di diritto pubblico e connotato da uno spiccato legame di funzionalizzazione con il c.d. Stato-apparato, altresì quella, dalla prima del tutto disomogenea e orba del cennato vincolo funzionale con lo Stato-apparato, di “dirigente di stazioni appaltanti con personalità giuridica di diritto privato soggette all’applicazione del codice dei contratti pubblici”, ossia quella di un soggetto il cui rapporto di lavoro, ancorché di livello apicale, esula dall’applicazione di un regime pubblicistico e dal tratteggiato vincolo di funzionalizzazione con l’Amministrazione Statale, non palesando pertanto alcuna assimilazione o equipollenza alla categoria del ridetto personale magistratuale o dell’avvocatura di Stato ovvero della categoria prefettizia contrassegnato dal rilevato legame con lo Stato-apparato, discendendone pertanto una irragionevole ed illogica equiparazione a tale personale pubblicistico.  Tali dirigenti prestano la propria attività lavorativa in favore di soggetti con personalità giuridica di diritto privato – tra i quali, ad esempio, sono annoverabili alcuni enti aggiudicatori e soggetti aggiudicatori, nonché gli altri soggetti aggiudicatori di cui all’art. 2, comma 1, lett. e), f) e g), del d.lgs. n. 18 aprile 2016, n. 50 – che agiscono iure privatorum e la cui attività può essere, per alcuni aspetti di carattere non organizzativo, funzionalizzata al perseguimento di interessi pubblici nei limiti fissati dal legislatore con le c.d. norme di equiparazione (tra le quali rientra l’art. 2 del d.lgs. n. 50/2016 che li assoggetta all’applicazione della disciplina del codice dei contratti pubblici).  Pertanto, la scelta di escludere gli avvocati del libero Foro dal novero dei giuristi che possono ottenere l’incarico di presidente del Collegio consultivo tecnico, a seguito di approfondita riflessione non risulta, prima facie, espressione di un corretto e ragionevole esercizio della discrezionalità riconosciuta al Ministero resistente dall’art. 6, comma 8-bis, del d.l. n. 76/2020 in relazione all’individuazione dei requisiti professionali del presidente dell’anzidetto Collegio, presentando, per converso, aspetti di discriminatorietà e illogicità per via da un lato, della ingiustificata equiparazione alle categorie di personale in regime di diritto pubblico legato allo Stato-apparato dal ridetto legame di funzionalizzazione con il correlato statuto giuridico e il conseguente rispetto di inderogabili obblighi di rango costituzionale; dall’altro poiché la categoria dei dirigenti di stazioni appaltanti con personalità giuridica di diritto privato soggette all’applicazione del codice dei contratti pubblici, non risulta suscettibile di essere ricondotta nell’alveo degli stessi pubblici dipendenti.  E’ irragionevole e ingiustificata l’equiparazione in melius dei dirigenti di stazioni appaltanti con personalità giuridica di diritto privato al predetto personale di diritto pubblico ai fini della nomina a Presidente del Collegio consultivo tecnico, che traspare contestualmente una altrettanto ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento tra la predetta categoria di dirigenti e gli avvocati del libero Foro, affiorante quindi in peius nei confronti degli avvocati; discriminazione e disparità di trattamento che si appalesano ancor più marcate ove si consideri il rilievo ordinamentale dell’attività forense nel prisma dell’art. 24 Cost. 
Contratti della Pubblica amministrazione
Covid-19 – Comitato di esperti – Nominato per proporre misure necessarie per fronteggiare l’emergenza Covid-19 e per la ripresa graduale nei diversi settori – Composizione – Mancata rappresentatività Associazioni dei consumatori – Non va sospeso.       Va respinta l’istanza, presentata dal Codacons, di sospensione monocratica del decreto con il quale il Presidente del Consiglio dei Ministri ha nominato un Comitato di esperti in materia economica e sociale con il compito di elaborare e proporre al medesimo misure necessarie per fronteggiare l’emergenza epidemiologica COVID-19, nonché per la ripresa graduale nei diversi settori, nella parte in cui, tra i membri con esso nominati, non risultano inclusi soggetti esperti esponenti del mondo dei consumatori e degli utenti, nonché dei settori produttivi, delle telecomunicazioni, dell’industria, della tutela della salute, del commercio, dell’agricoltura, dei trasporti, della cultura, dello sport, dei consumatori, ambiente; non è, infatti, irragionevole e, quindi, illegittima, anche alla luce della natura di atto di alta amministrazione che riveste l’impugnato provvedimento, la scelta dei membri del Comitato, effettuata valorizzandone l’esperienza professionale e non la capacità rappresentativa dei molteplici interessi, diffusi o di categoria, coinvolti dall’emergenza sanitaria (1). (1) Ha aggiunto il decreto che eventuali contributi conoscitivi e propositivi, provenienti da organi rappresentativi degli interessi dei cittadini, ben potranno essere trasmessi al Comitato di esperti, per arricchirne l’attività consultiva ad esso demandata.
Covid-19
Covid-19 – Concorso – Prove scritte – Richiesta di differimento per positività al Covid-19 – Rigetto – Non va sospeso.     Non deve essere sospeso il rigetto della richiesta di rinvio della prova pratica (ed eventualmente orale) di un pubblico concorso, avanzata da un concorrente in ragione della sua positività al Covid-19 (1). ​​​​​​​ (1) Ha chiarito il Tar che la situazione straordinaria pandemica ancora in atto con riferimento alle procedure concorsuali ha trovato una compiuta disciplina, innanzitutto, con il d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. in legge 24 aprile 2020, n. 27, che, all'art. 87 comma 5, ha previsto una prima ipotesi di sospensione delle prove preselettive e scritte dei concorsi pubblici della durata di sessanta giorni, esclusi i casi in cui la valutazione dei candidati sia effettuata esclusivamente su basi curriculari ovvero in modalità telematica, e la disposizione è stata poi confermata dal d.P.C.M. 26 aprile 2020.   Diversamente con il d.l. 19 maggio 2020, n. 34 al Capo XII, è stata introdotta una disciplina in tema di “Accelerazioni dei concorsi”, a riprova della voluntas legis di consentire, anche in costanza di emergenza, lo svolgimento delle prove concorsuali ricorrendone le condizioni per il periodo dal 19 maggio 2020 (data di entrata in vigore del Decreto) sino al 31 dicembre 2020. A ciò aggiungasi che, sebbene nelle more sia intervenuta un’ulteriore sospensione delle prove preselettive e scritte delle procedure concorsuali con d.P.C.M. 3 novembre 2020, essa tuttavia non trova applicazione con riferimento ai concorsi per il personale del servizio sanitario nazionale, nell’ottica evidentemente di imporre un’accelerazione nelle procedure di assunzione di personale nel settore sanitario particolarmente esposto al rischio contagio e necessitante di integrazione e supporto all’attualità; che, da quanto sopra, emerge che, allo scopo di preservare il regolare svolgimento delle procedure concorsuali pubbliche dagli effetti della situazione emergenziale in atto, è stata introdotta una disciplina di settore che discrimina i casi in cui si rende opportuna la sospensione delle prove che richiedono la presenza contestuale dei candidati, da quelli in cui essa non opera per esigenze di natura prioritaria in quanto correlate alla necessità di assicurare una celere copertura dei posti disponibili; che in tale ultima ipotesi nulla è stato previsto a livello normativo con riferimento ad eventuali impedimenti derivanti dalle restrizioni Covid per cui, ferma restando la salvaguardia delle garanzie fatte proprie dall’amministrazione, nel settore sanitario relativo al concorso in esame appare comunque prioritaria l’esigenza di celerità e di pronta conclusione della selezione che resterebbe inibita per effetto di eventuali deroghe in funzione dello svolgimento delle prove suppletive richieste. 
Covid-19
Urbanistica - Servitù di uso pubblico - Suolo privato condominiale – Autorizzazione dell’uso in via esclusiva in favore di altro soggetto privato – Mancanza del consenso dei proprietari del suolo – Conseguenza.       Al fine di individuare il contenuto di una servitù pubblica su suolo privato, non può darsi rilevanza prevalente alle prescrizioni contenute nello strumento urbanistico in relazione alle aree aventi destinazione omogenea rispetto alle finalità pubbliche cui la servitù è preordinata, atteso che nella specie non si tratta di definire il regime urbanistico del suolo, ma piuttosto di individuare i limiti posti al diritto di proprietà per il perseguimento dell’interesse pubblico in ragione del quale la servitù è stata imposta. In tale prospettiva, assume rilievo decisivo la volontà delle parti quale risultante dal titolo costitutivo della servitù, che al tempo stesso costituisce la fonte e segna il limite del sacrificio ammissibile del diritto dominicale. Pertanto, non è consentito al Comune, in favore del quale sia stata costituita una servitù di uso pubblico su suolo privato condominiale, di autorizzarne l’uso in via esclusiva in favore di altro soggetto privato prescindendo dal necessario consenso dei proprietari del suolo  (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che diritti di uso pubblico si configurano quali diritti reali che spettano allo Stato, alle Province e ai Comuni, come esplicitato dal medesimo art. 825 c.c., “per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli cui servono i beni [demaniali] medesimi”, ossia si configurano quale peso imposto su di un bene privato nel pubblico interesse, a favore della collettività, presupponendo in tal senso una publica utilitas, ossia l’oggettiva idoneità del bene privato a soddisfare un’esigenza comune ad una collettività indeterminata di cittadini: esigenza, questa, che va intesa in senso ampio, e cioè non come pura e semplice necessità, ma anche come mera comodità. Detto altrimenti, nelle servitù di uso pubblico, al peso gravante sul fondo servente corrisponde dal lato attivo il conseguimento di fini di pubblico interesse da parte di una comunità di persone considerate uti cives, sicché la loro connotazione peculiare è data dalla generalità di un uso indiscriminato da parte dei singoli e dalla oggettiva idoneità del bene privato al soddisfacimento di tale interesse collettivo (cfr. in tal senso, ad es., Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2011, n. 333). Tali posizioni giuridiche devono dunque essere riguardate quali diritti reali sui generis, incidenti sul contenuto della proprietà privata ma non estintivi della stessa, assoggettati al regime previsto per i beni del demanio pubblico, e - quindi - inalienabili e imprescrittibili.   In dipendenza di ciò, pertanto, se l’assoggettamento di un’area privata a servitù di uso pubblico non comporta per il proprietario – come più volte ripetuto innanzi - la perdita del diritto di proprietà del bene, del quale infatti egli può sempre chiedere la tutela in sede giudiziale, l’ente pubblico - per converso - non essendo titolare del diritto dominicale, bensì di un mero diritto reale parziario su di un bene privato, può, su questo, esercitare unicamente le facoltà dirette a garantire e ad assicurare l’uso pubblico da parte di tutti i cittadini, essendo conseguentemente legittimato a tutelare il diritto parziario medesimo sia in via amministrativa, sia in via giurisdizionale, avvalendosi, in quest’ultima ipotesi, in forza dell’anzidetto rinvio operato dall’art. 825 c.c. nei riguardi dell’art. 823 dello stesso codice, di fronte al giudice ordinario, dei mezzi ordinari a difesa del diritto di servitù e del possesso ivi normati dalla medesima disciplina di diritto comune. Va comunque opportunamente precisato che, oltre all’ente pubblico, a difesa del diritto di uso pubblico può anche agire in giudizio, uti singulus e avvalendosi dei mezzi ordinari di tutela, ciascun cittadino appartenente alla collettività cui l’uso pubblico pertiene (cfr. al riguardo, ex plurimis e tra le più recenti, Cass. civ., sez. II, 13 giugno 2019, n. 15931). La prassi contempla la costituzione dei diritti di uso pubblico per usucapione da parte di una collettività indifferenziata di soggetti e imputata nel proprio effetto acquisitivo all’amministrazione pubblica a ciò competente (come ad esempio accade per l’ipotesi dell’usucapione dell’uso pubblico su di una strada privata), per dicatio ad patriam (consistente a sua volta nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità e dunque senza precarietà o spirito di tolleranza, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri di tale collettività uti cives, indipendentemente dai motivi per i quali tale comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima: cfr. al riguardo, ex plurimis, Cass. civ., sez. I, 11 marzo 2016, n. 4851; sez. II, 12 agosto 2002, n. 12167, 4 giugno 2001, n. 7481, 10 dicembre 1994, n. 10574; Cons. Stato, sez. V, 24 maggio 2007, n. 2618) nonché – come per l’appunto avvenuto nel caso di specie – per convenzione stipulata tra l’ente pubblico e i privati. La categoria di diritti demaniali di uso pubblico più importante e di maggiore applicazione pratica è senza dubbio quella dell’uso pubblico di passaggio, che, a sua volta, si distingue in due sottoclassi: quella del predetto passaggio sulle vie vicinali di uso pubblico - e cioè sulle strade private soggette a pubblico transito - e quella del passaggio su spiazzi, vicoli, corti di proprietà privata esistenti nelle città e negli agglomerati urbani.
Urbanistica
Edilizia - Distanze – D.M. n. 1444 del 1968 - livelli essenziali delle prestazioni – Deroghe delle Regioni – Art. 2-bis, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 – Questione di legittimità costituzionale.          Sono rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale relative: a) all’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, come introdotto dal d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, per violazione degli artt. 3 e 117, terzo comma, Cost.; b) all’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, come introdotto dal d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, per violazione dell’art. 117, terzo comma, lettere m) ed s), Cost.; c) all’art. 103, comma 1-bis, l. reg. Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, come introdotto dalla l. reg. 14 marzo 2008, n. 4, e successivamente modificato dalla l. reg. 26 novembre 2019, n. 18, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere m) ed s), e terzo comma, Cost. (1).    (1) La questione di legittimità costituzionale sollevata dall’appellante riposa sul presupposto per cui l’ art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 autorizzerebbe le Regioni ad emanare una legislazione derogatoria rispetto al d.m. n. 1444 del 1968 in materia di dotazione delle aree a standard fino a poter arrivare ad annullarne la previsione, in violazione dell’art.117, secondo comma, lett. m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.    La Sezione ha esaminato la possibilità di una lettura costituzionalmente orientata della norma statale, tale da far venir meno il dovere di rimessione della questione alla Corte costituzionale. Una prima possibile interpretazione poggia sul rilievo che le regole cogenti del d.m. n. 1444 del 1968 si riespanderebbero in caso di mancato esercizio da parte delle Regioni della facoltà di deroga riconosciuta dall’articolo 2-bis; una seconda interpretazione prospetta la possibilità di interpretare la norma nel senso di far salvi in ogni caso i limiti inderogabili stabiliti dal d.m. Tuttavia, di queste due letture la prima non è idonea a far venir meno la possibile illegittimità costituzionale della disposizione: il fatto che la “cedevolezza” delle previsioni del d.m. sia solo potenziale, dipendendo dal concreto esercizio da parte delle Regioni della facoltà di deroga, non fa venir meno il vulnus a quella che dovrebbe essere, in thesi, la loro inderogabilità da parte del legislatore regionale. Quanto alla seconda ipotesi, questa si risolve – in sostanza - nel far dire alla norma regionale qualcosa che la stessa espressamente non afferma, sulla base di un’argomentazione ermeneutica “additiva” che non trova aggancio nel dato testuale. Peraltro, malgrado un dubbio interpretativo possa forse essere ingenerato dal successivo comma 1-bis dell’articolo in esame, introdotto dal più recente d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 giugno 2019, n. 55, secondo cui le disposizioni del comma 1 “sono finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio”, il tenore testuale del comma 1 rimane inequivoco nel ricollegare il potere di deroga al d.m. n. 1444/1968 alla possibilità riconosciuta alle Regioni e alle Province autonome di “dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”. Pertanto, nonostante il quanto mai infelice e poco perspicuo dato testuale, non sembra dubitabile che la finalità della previsione sia quella di autorizzare una deroga a tutti i parametri e criteri contenuti nel d.m. n. 1444/1968, e non solo a taluni di essi (ciò che peraltro è confermato dai plurimi interventi legislativi, come quello qui all’attenzione, con cui le Regioni si sono avvalse di tale facoltà).    La Sezione ha ipotizzato che la norma statale di principio sia da rivenirsi nel già citato articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dalla legge n. 765 del 1967, il quale – come è noto - costituisce la fonte di derivazione del d.m. n. 1444 del 1968, imponendo agli strumenti urbanistici generali il rispetto di parametri e limiti definiti espressamente “inderogabili”.  Ha ancora chiarito la Sezione che posto che nella materia del governo del territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della legislazione statale, che il nono comma dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 esprima l’esigenza che le dotazioni di spazi pubblici, infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di  definizione omogenei su tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse legislazioni regionali. Tale però sembra essere il risultato dell’applicazione dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380/2001, come inserito dal decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, il quale, autorizzando le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano a “prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444”, produce l’effetto di “neutralizzare” il carattere cogente delle anzi dette disposizioni dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e delle disposizioni regolamentari che ne discendono. 9.4. Tuttavia, anche a voler ritenere che con la novella del 2013 al T.U. dell’edilizia il legislatore statale abbia inteso perseguire una deliberata ratio di abrogazione implicita dei commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, tale operazione appare di dubbia compatibilità con il quadro costituzionale sopra delineato, in quanto si risolve in una sostanziale abdicazione dalla fissazione di parametri e criteri generali, cui pure il legislatore statale sarebbe chiamato in materia di competenza concorrente, in modo da consentire a ciascuna Regione di dettare regole autonome e disomogenee in materia di dimensionamento delle aree a destinazione residenziale, degli spazi pubblici, delle infrastrutture, del verde pubblico etc. Ciò peraltro comporta effetti discriminatori, rilevanti sotto il profilo della violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui, obliterando l’esigenza di fissazione di criteri omogenei e uniformi a suo tempo espressa dai commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, finisce per incidere sul regime proprietario dei suoli, che – come puntualmente dedotto dal Fallimento nel presente giudizio - risulta potenzialmente assoggettato a regole differenti nelle diverse Regioni pur in relazione ad aree avente identica  destinazione urbanistica e ad interventi edilizi rientranti nella medesima tipologia. Sul possibile contrasto con l’articolo 117, comma secondo, lettere m) ed s), della Costituzione. 
Edilizia
Processo amministrativo – Accesso ai documenti – Fascicolo telematico - Istanza del terzo    L’istanza del terzo di accesso al fascicolo telematico non è un processo, né un incidente del processo, e pertanto il provvedimento che decide su tale istanza non è soggetto ad appello, né agli altri rimedi impugnatori previsti dal codice del processo amministrativo.  Non esiste un diritto soggetto del terzo ad accedere a un fascicolo processuale inter alios, ma tale assenza non reca al terzo alcun vulnus all’eventuale  richiedente in quanto: a) eventuali documenti amministrativi contenuti nel fascicolo processuale sono accessibili secondo le regole e i limiti del diritto di accesso a documenti amministrativi presso l’Amministrazione depositaria; b) gli atti processuali privati non sono suscettibili di accesso perché nessuna norma lo prevede, e il soggetto interessato può acquisirli dal privato che li ha formati solo con il suo consenso, secondo le regole del diritto civile. ​​​​​​​
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione – Impugnazione - Art. 5, comma 6, d.l. n. 76 del 2020 - Inapplicabilità.   La norma processuale recata dall’art. 5, comma 6, d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (cd. decreto semplificazioni), convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, non si applica al caso di una controversia sull’aggiudicazione di una gara (1). (1) Ha chiarito il decreto che l’art. 5, comma 6, d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (cd. decreto semplificazioni), convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, non si applica al caso di una controversia sull’aggiudicazione di una gara; esso contiene una disposizione processuale extravagante, secondo cui “In sede giudiziale, sia in fase cautelare che di merito, il giudice tiene conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale o locale alla sollecita realizzazione dell'opera, e, ai fini dell'accoglimento della domanda cautelare, il giudice valuta anche la irreparabilità del pregiudizio per l'operatore economico, il cui interesse va comunque comparato con quello del soggetto pubblico alla celere realizzazione dell'opera. In ogni caso, l'interesse economico dell'appaltatore o la sua eventuale sottoposizione a procedura concorsuale o di crisi non può essere ritenuto prevalente rispetto all'interesse alla realizzazione dell'opera pubblica” il cui ambito applicativo deve essere riferito all’ambito sostanziale del medesimo comma 6 (“Salva l'esistenza di uno dei casi di sospensione di cui al comma 1, le parti non possono invocare l'inadempimento della controparte o di altri soggetti per sospendere l'esecuzione dei lavori di realizzazione dell'opera ovvero le prestazioni connesse alla tempestiva realizzazione dell'opera”) ovvero all’ambito sostanziale del comma 1 dell’art. 5, ossia i casi in cui o vi sia tra le parti una controversia sull’inadempimento contrattuale ai sensi dell’art. 5, comma 6, primo periodo, o una controversia su un provvedimento amministrativo di sospensione dei lavori disposto dal RUP ai sensi dell’art. 5, commi 1 e 2; essendo altresì da stabilire se in siffatte due evenienze la giurisdizione sulla controversia spetti al giudice ordinario ovvero al giudice amministrativo; in ogni caso la citata previsione processuale extravagante dell’art. 5, comma 6, d.l. n. 76 del 2020 non incide sulle regole processuali contenute negli art. 120 e ss. c.p.a. in ordine alle sentenze di merito del giudice amministrativo sull’aggiudicazione degli appalti e sulla sorte del contratto. ​​​​​​​
Processo amministrativo
Covid-19 – Campania – Esercizi commerciali – Orari e occupazione suolo pubblico – Sospensione monocratica    Deve essere accolta l’istanza di sospensione cautelare monocratica dell’ordinanza del Sindaco di Napoli che ha stabilito l’orario degli esercizi di somministrazione in senso ampliativo rispetto alla analoga regolamentazione operata con atti regionali, nella persistenza della situazione di emergenza Covid-19, e, per altro verso, la deroga (temporanea) al vigente regolamento comunale relativo alle concessioni per l’occupazione temporanea di suolo pubblico, motivata espressamente con riferimento alla prospettata esigenza di rilancio delle attività economiche nella fase successiva al “lockdown”; ciò considerata l’estrema urgenza e ritenuta prevalente, sul piano cautelare del doveroso bilanciamento degli interessi involto, la necessità di incrementare le occupazioni di suolo pubblico al fine di favorire il più possibile, in ragione della persistente emergenza “covid-19”, la somministrazione di beni e servizi all’esterno dei locali, e tanto immediatamente, considerato che tale esigenza, pur dovendosi apprezzare sotto il profilo generale, per le sue implicazioni socio-economiche, neppure sembra potersi agevolmente sussumere tra le emergenze sanitarie o di igiene pubblica o di tutela della pubblica incolumità ovvero di sicurezza urbana, che costituiscono l’ambito di esercizio delle competenze sindacali ex artt. 50 e 54 TUEL, ma sarebbe piuttosto il fondamento per l’esercizio degli ordinari poteri regolamentari, nel rispetto dei principi ad essi applicabili; e tanto tenuto conto, peraltro, del fatto che i titolari di esercizi di somministrazione restano, allo stato, comunque tenuti al rispetto delle normative, di legge e regolamentari vigenti, incluse le disposizioni regolanti la fase di progressivo rientro dall’emergenza covid-19, di matrice statale e regionale, prima che comunale, e, tra le queste, la regola del “distanziamento sociale”  (1).    (1) Il decreto ha preliminarmente ricordato che l’emanazione di misura cautelare monocratica, prima della trattazione della domanda cautelare da parte del collegio, è ancorata normativamente, a termini dell’art. 56, comma 1, c.p.a., all’emergenza, ritualmente allegata e comprovata, del presupposto dell’estrema gravità e urgenza connessa alla prospettata produzione, in danno del richiedente, di un pregiudizio grave e irreparabile connesso e conseguente ai provvedimenti impugnati, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio in cui, tenuto conto dei termini processuali a difesa, sarà possibile la trattazione, in sede collegiale, dell’istanza cautelare. Tali presupposti sussistono con riferimento alla fissazione degli orari (ordinanza sindacale n. 248 del 29 maggio 2020), che regola, con decorrenza dal 1° giugno 2020, le attività di somministrazione e vendita di alimenti e/o bevande e gli orari di apertura dei relativi esercizi di somministrazione, in senso difforme ed ampliativo rispetto a quanto al riguardo previsto dall’ordinanza del Presidente della Regione Campania, n. 53 dello stesso 29 maggio 2020, consentendo altresì l’eventuale svolgimento di attività ludiche. Quanto all’ordinanza sindacale n 249 del 4 giugno 2020 (titolata “Misure straordinarie per la sicurezza e per la ripresa delle attività commerciali”), la stessa - dichiaratamente finalizzata alla completa “attuazione delle misure di utilizzo del suolo pubblico programmate dall’Amministrazione”, da ultimo con la delibera giuntale n. 168/2020, pure impugnata, sottoposta al Consiglio comunale e da questo non (ancora) esaminata, misure prospettate come “fortemente attese dal tessuto produttivo”- consente, in deroga dall’art. 15 del vigente Regolamento Dehors, e comunque non oltre il 31 ottobre 2020, il rilascio della concessione di suolo pubblico (ampliamento o nuova occupazione), in favore dei titolari degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, con modalità semplificate, e, in particolare, con esonero dal pagamento del relativo canone, in assenza di qualsiasi altro parere e previa la sola “valutazione” effettuata dall’Amministrazione sulla ”compatibilità dell’uso del suolo per la finalità di somministrazione con la sicurezza della circolazione, a tutela dei fruitori delle strade”. L’ordinanza sindacale impugnata, per quanto precede, costituirebbe, a tutt’oggi, l’unico presupposto provvedimentale per il rilascio di un numero imprecisato e imprecisabile di titoli ampliativi denominati “permessi utilizzo temporaneo spazi emergenza Covid”, che costituiscono a tutti gli effetti “assegnazioni in uso” aggiuntive di spazi pubblici e, nella sostanza, concessioni, sia pur temporanee, di spazi pubblici in deroga al vigente pertinente regolamento comunale (regolamento c.d. “Dehors”). Tali effetti sembrerebbero prodotti in carenza di alcuna verifica effettiva, nelle molte e diversificate aree interessate, degli ineludibili profili di tutela di sicurezza pubblica, anche connessi al traffico veicolare, e dei beni storico-artistici (che pure richiederebbe l’obbligata evocazione dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo pertinente, quest’ultima del tutto obnubilata), e dunque senza alcuna garanzia, allo stato, di controllo dei detti profili, ingenerando il dubbio circa l’esposizione a pericolo di tali beni protetti; al riguardo, e a titolo esemplificativo, giova segnalare che i “permessi di utilizzo” in questione sarebbero consentiti, nell’ipotesi di impossibilità di ampliamento dell’occupazione già rilasciata o di nuova occupazione, per incapienza dello spazio antistante e prospiciente l’attività, anche “nelle strade adibite al transito dei veicoli con velocità ammessa non superiore a 30 Km orari, in carreggiata e/o nelle aree dedicate alla sosta dei veicoli”; ovvero sul fronte opposto all’esercizio in cui ha sede l’attività, “previo attraversamento di strade adibite al transito dei veicoli con velocità ammessa non superiore a 30 Km orari”, ovvero, in via del tutto generica, “entro una distanza massima maggiore di 15 mt dal fronte dell’immobile in cui ha sede l’attività anche in aree non prospicienti il tratto di facciata interessato dall’esercizio commerciale”, condizionatamente al solo “esito favorevole dell’accertamento tecnico in merito alla compatibilità della richiesta con l’area individuata, effettuato da un gruppo di lavoro interdirezionale”, di cui non sono meglio precisati, tra l’altro, né la competenza né i criteri di valutazione della detta “compatibilità delle richieste con l’area individuata”.
Covid-19
Università degli studi - Ricercatori - Contratti a tempo determinato - Durata triennale e prorogabili per due anni - Senza limiti quantitativi, solo a tempo determinato e senza successiva stabilizzazione - Artt. 24, comma 3, lett. a) e 22, comma 9, l. n. 240 del 2010 – Compatibilità con la clausola 5) dell’accordo quadro di cui alla direttiva n. 1999/70/CE – Rimessione alla Corte di Giustizia Ue   Sono rimesse alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le questioni: 1) se la clausola 5) dell’accordo quadro di cui alla direttiva n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, d’ora in avanti «direttiva»), intitolata «Misure di prevenzione degli abusi», letta in combinazione coi considerando 6) e 7) e con la clausola 4) di tal Accordo («Principio di non discriminazione»), nonché alla luce dei principi di equivalenza, d’effettività e dell’effetto utile del diritto eurounitario, osta a una normativa nazionale, nella specie l’art. 24, comma 3, lett. a) e l’art. 22, comma 9, l. n. 240 del 2010, che consenta alle Università l’utilizzo, senza limiti quantitativi, di contratti da ricercatore a tempo determinato con durata triennale e prorogabili per due anni, senza subordinarne la stipulazione e la proroga ad alcuna ragione oggettiva connessa ad esigenze temporanee o eccezionali dell’Ateneo che li dispone e che prevede, quale unico limite al ricorso di molteplici rapporti a tempo determinato con la stessa persona, solo la durata non superiore a dodici anni, anche non continuativi; 2) se la citata clausola 5) dell’Accordo quadro, letta in combinazione con i considerando 6) e 7) della direttiva e con la citata clausola 4) di detto Accordo, nonché alla luce dell’effetto utile del diritto eurounitario, osta ad una normativa nazionale (nella specie, gli artt. 24 e 29, comma 1, l. n. 240 del 2010), laddove concede alle Università di reclutare esclusivamente ricercatori a tempo determinato, senza subordinare la relativa decisione alla sussistenza di esigenze temporanee o eccezionali senza porvi alcun limite, mercé la successione potenzialmente indefinita di contratti a tempo determinato, le ordinarie esigenze di didattica e di ricerca di tali Atenei; 3) se la clausola 4) del medesimo Accordo quadro osta ad una normativa nazionale, quale l’art. 20, comma 1, d.lgs. n. 75 del 2017 (come interpretato dalla citata circolare ministeriale n. 3 del 2017), che, nel mentre riconosce la possibilità di stabilizzare i ricercatori a tempo determinato degli Enti pubblici di ricerca —ma solo se abbiano maturato almeno tre anni di servizio entro il 31 dicembre 2017—, non la consente a favore dei ricercatori universitari a tempo determinato solo perché l’art. 22, comma 16, d.lgs. n. 75 del 2017 ne ha ricondotto il rapporto di lavoro, pur fondato per legge su un contratto di lavoro subordinato, al “regime di diritto pubblico”, nonostante l’art. 22, comma 9, l. n. 240 del 2010 sottoponga i ricercatori degli Enti di ricerca e delle Università alla stessa regola di durata massima che possono avere i rapporti a tempo determinato intrattenuti, sotto forma di contratti di cui al successivo art. 24 o di assegni di ricerca di cui allo stesso art. 22, con le Università e con gli Enti di ricerca; 4) se i principi di equivalenza e di effettività e quello dell’effetto utile del diritto UE, con riguardo al citato Accordo quadro, nonché il principio di non discriminazione contenuto nella clausola 4) di esso ostano ad una normativa nazionale (l’art. 24, comma 3, lett. a, l. n. 240 del 2010 e l’art. 29, commi 2, lett. d e 4, d.lgs. 81 del 2015) che, pur in presenza d’una disciplina applicabile a tutti i lavoratori pubblici e privati da ultimo racchiusa nel medesimo decreto n. 81 e che fissa (a partire dal 2018) il limite massimo di durata d’un rapporto a tempo determinato in 24 mesi (comprensivi di proroghe e rinnovi) e subordina l’utilizzo di rapporti a tempo determinato alle dipendenze della Pubblica amministrazione all’esistenza di «esigenze temporanee ed eccezionali», consente alle Università di reclutare ricercatori grazie ad un contratto a tempo determinato triennale, prorogabile per due anni in caso di positiva valutazione delle attività di ricerca e di didattica svolte nel triennio stessa, senza subordinare né la stipulazione del primo contratto né la proroga alla sussistenza di tali esigenze temporanee o eccezionali dell’Ateneo, permettendogli pure, alla fine del quinquennio, di stipulare con la stessa o con altre persone ancora un altro contratto a tempo determinato di pari tipologia, al fine di soddisfare le medesime esigenze didattiche e di ricerca connesse al precedente contratto; 5) se la clausola 5) del citato Accordo Quadro osta, anche alla luce dei principi di effettività e di equivalenza e della predetta clausola 4), a che una normativa nazionale (l’art. 29, commi 2, lett. d e 4, d.lgs. 81 del 2015e l’art. 36, commi 2 e 5, d.lgs. n. 165 del 2001) precluda ai ricercatori universitari assunti con contratto a tempo determinato di durata triennale e prorogabile per altri due (ai sensi del citato art. 24, comma 3, lett. a, l. n. 240 del 2010), la successiva instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, non sussistendo altre misure all’interno dell’ordinamento italiano idonee a prevenire ed a sanzionare gli abusi nell’uso d’una successione di rapporti a termine da parte delle Università (1).   (1) Analoga questione è stata rimessa dalla Sez. con ord. 10 gennaio 2020, n. 246. Ha affermato la Sezione che c’è un serio dubbio che il superamento del precariato anche nell’ambito del lavoro nelle Pubbliche amministrazioni e il mantenimento tout court delle due qualifiche dei ricercatori a tempo determinato confliggano tra loro e, per l’effetto, producano risultati in violazione della clausola 5), punto 1) dell’Accordo quadro. Tanto perché, almeno a prima lettura, i richiesti criteri “oggettivi e trasparenti” non si ritrovano nell’art. 24, comma 1, l. n. 240 del 2010, che si limita a porre la condizione che il contratto a termine sia compatibile con le risorse disponibili per la programmazione. Se ci si sofferma al mero dato testuale, appare una sorta d’inversione logica della previsione che vorrebbe prima l’emersione dell’esigenza oggettiva (purché non strutturale e permanente) dell’Università a stipulare un contratto a tempo determinato per esigenze di ricerca e poi, una volta emersa siffatta esigenza, il (necessario) reperimento delle risorse necessarie alla copertura finanziaria. Su tal punto, è ben noto l’avviso della Corte per cui eventuali esigenze di bilancio, che tendano a negare la tutela conservativa del posto di lavoro, possano costituire sì il fondamento delle scelte di politica sociale di uno Stato membro e possano influenzare la natura ovvero la portata delle misure che esso intende adottare. Ma esse non costituiscono di per sé un obiettivo perseguito da tale politica e, pertanto, non sono in grado di giustificare l’assenza di qualsiasi misura di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi della citata clausola 5), punto 1) (cfr., oltre alla giurisprudenza Mascolo e a., pure CGUE, ord.za del 21 settembre 2016, C- 614/15 – Popescu, punto 63). Parimenti, neppure la soggezione del possibile rinnovo biennale ad una semplice «positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte» consente di ritenere soddisfatta la necessità che l’Università stabilisca e segua «criteri oggettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, se esso sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine». Anche in questo caso, inoltre, il rinnovo soffre del contrasto con i suddetti principi comunitari della stipulazione del primo contratto a tempo determinato, che ne costituisce l’indefettibile antecedente logico necessario. Pertanto, anche la previsione dell’art. 24, co. 3 della legge n. 240 comporta un rischio concreto di ricorso abusivo a tale tipo di contratti, non risultando così compatibile con lo scopo e l’effetto utile dell’Accordo quadro
Università degli studi
Processo amministrativo – Rito appalti – Rito superaccelerato – Presupposti – Individuazione.   Processo amministrativo – Rito appalti – Atti impugnabili – Requisiti di partecipazione - Capacità tecnica dell’impresa - Relativa clausola del disciplinare – Quando è immediatamente impugnabile.          In materia di rito c.d. superaccelerato relativo all’impugnazione dei provvedimenti di ammissione e di esclusione dalle gare di appalto, la sentenza della Corte di Giustizia 14 febbraio 2019, in causa C-54/18 ha individuato il punto di equilibrio fra esigenze di celerità del giudizio e tutela effettiva del diritto di difesa nella condizione che l’operatore economico sia stato messo in grado di conoscere agevolmente tutti gli elementi necessari per verificare la correttezza dell’operato della stazione appaltante: conseguentemente, la decorrenza del termine decadenziale di ricorso deve essere vincolata ad una sufficiente conoscenza (o, quanto meno, ad una agevole conoscibilità) degli elementi necessari a formulare una efficace difesa (1).          La qualificazione, in un disciplinare di gara, di un requisito (nella fattispecie: il fatturato del triennio precedente) come relativo alla dimostrazione della capacità tecnica dell’impresa, comporta l’onere di impugnazione della relativa clausola del disciplinare in capo al concorrente che ritenga tale requisito – contrariamente alla sua qualificazione formale - come relativo alla capacità economica, al fine di farne discendere il relativo regime, quando sia proprio la qualificazione ritenuta nella lex specialis ad aver prodotto le conseguenze applicative di cui si duole il ricorrente, non superabile diversamente sul piano interpretativo dal momento che l’interpretazione è diretta conseguenza della qualificazione, non riducibile a mera espressione formale, priva di significato precettivo (2).   (1) La Sezione che ricordato di essersi già pronunciata, con sentenza 17 giugno 2019, n. 4025, sulla ricevibilità delle censure dirette contro l’ammissione dell’aggiudicatario, in una fattispecie fortemente analoga a quella dedotta nel giudizio, caratterizzata dalla incompleta conoscibilità dei documenti posti a base del provvedimento. La citata decisione ha ancorato la decorrenza del termine per la proposizione del ricorso “alla data di pubblicazione sul profilo del committente dei provvedimenti relativi a questa fase ai sensi dell’art. 29 del codice dei contratti pubblici (cfr. Sezione III n. 1312 del 25 febbraio 2019) sempreché idonei a veicolare le informazioni necessarie ad esplicitare i motivi su cui riposano”. Il criterio ermeneutico su cui poggia tale decisione, che il Collegio condivide e dalla quale non ravvisa ragione per discostarsi, sviluppa in modo coerente il principio di diritto espresso dalla Corte di Giustizia, attribuendogli l’unico significato plausibile: l’onere di immediata impugnazione del provvedimento recante le ammissioni e le esclusioni dei concorrenti non lede il diritto di difesa dell’operatore economico, ma questi deve essere messo in grado di conoscere agevolmente tutti gli elementi necessari per verificare la correttezza dell’operato della stazione appaltante. Il giudice di primo grado ha fatto corretta applicazione di tale principio, il quale comporta che l’onere di immediata impugnazione delle ammissioni dei concorrenti sia compatibile con le ragioni di tutela giurisdizionale delle imprese, espresse dal diritto comunitario, solo in quanto la decorrenza del termine decadenziale di ricorso, sia vincolata da una sufficiente conoscenza (o, quanto meno, ad una agevole conoscibilità) degli elementi necessari a formulare una efficace difesa. In tal senso, il codice prevede precise regole finalizzate a mettere i concorrenti in grado di conoscere i documenti di gara, compresi quelli allegati alle offerte, indispensabili per attivare tempestivamente il rimedio giurisdizionale. In particolare, l’art. 29 stabilisce gli obblighi di pubblicazione e comunicazione gravanti sulla stazione appaltante, puntualmente correlati al funzionamento del rito speciale di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.. In mancanza di una prova rigorosa circa l’effettiva conoscenza di tali elementi documentali, il termine per la proposizione del ricorso non inizia a decorrere, a nulla rilevando la circostanza che l’interessato, ricevuta la notizia dell’intervenuta pubblicazione del provvedimento recante le ammissioni, avrebbe potuto esercitare il diritto di accesso ai documenti della procedura. La compressione dei tempi per l’esercizio del diritto di difesa, prevista dal particolare rito, giustifica in questo caso uno spostamento in capo alla stazione appaltante dell’onere di rendere conoscibili non solo gli effetti dispositivi degli atti di gara, ma anche gli elementi fattuali e giuridici presupposti (necessari per valutare consapevolmente l’esistenza di eventuali profili di illegittimità, ed articolare efficacemente le relative censure): di talché la dequotazione dell’accesso non è irragionevole, ma funzionale a garantire il complesso assetto su cui si fonda la compatibilità del rito con le garanzie rimediali imposte dal diritto dell’U.E.. Il punto di equilibrio fra esigenze di celerità e tutela comunque del diritto di difesa è stato infatti individuato dalla Corte di Giustizia nella necessità che l’effettività di tale diritto venga garantita almeno da una adeguata e tempestiva conoscenza di tali elementi: di talché la dequotazione dell’accesso non è irragionevole, ma funzionale a garantire il complesso assetto su cui si fonda la compatibilità del rito con le garanzie rimediali imposte dal diritto dell’U.E. Nel caso in esame l’applicazione al caso di specie di tali princìpi conduce, come detto, alla conferma della censurata statuizione della sentenza di primo grado. Sul punto v. anche Corte cost. n. 271 del 13 dicembre 2019.   (2) Ha ricordato la Sezione che tra gli interpreti sono state prospettate tesi contrapposte in ordine al corretto inquadramento dei requisiti di partecipazione concernenti il fatturato pregresso dell’operatore economico, proprio con riguardo ai suoi possibili riflessi sulla disciplina dell’avvalimento. Da un lato, si è sostenuto che il fatturato serve a dimostrare essenzialmente l’adeguata dimensione economica dell’impresa esecutrice: pertanto, in caso di avvalimento, sarebbe sufficiente dimostrare che l’ausiliaria si sia impegnata a mettere a disposizione dell’appaltatore la propria acquisita capacità finanziaria, in particolare ni casi in cui occorra garantire la stazione appaltante dei possibili rischi collegati ai profili economici dell’appalto. Secondo questo punto di vista, l’ausiliaria non si obbliga a fornire mezzi materiali all’esecutore, ma solo a mettere a disposizione la propria affidabilità economica: il contratto di avvalimento ha per oggetto questo elemento, puntualmente determinato. Dal lato opposto, si è evidenziato che il fatturato non ha solo una valenza economica, ma delinea la dimensione tecnica dell’impresa e la sua reale presenza sul mercato. In tale ottica, in caso di avvalimento, l’ausiliaria deve obbligarsi a conferire all’appaltatore adeguate risorse del proprio apparato produttivo, precisamente indicate nel contratto di avvalimento. Ora, non vi è dubbio che la lex specialis di gara abbia inteso optare per questa seconda linea ermeneutica, definendo l’inquadramento del requisito del fatturato pregresso quale requisito di capacità tecnica. È forse opinabile l’esattezza e la ragionevolezza di tale qualificazione, ma è indiscutibile la sua portata precettiva e vincolante nella procedura in contestazione, poiché essa incide sulla attitudine del contratto di avvalimento a soddisfare il prescritto requisito di partecipazione.
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Legittimazione attiva – Associazione di categoria – Condizione.   Sanità pubblica – Regione Lombardia – Medici di medicina generale - Nuovo modello che prevede la presa in carico dei pazienti cronici e fragili - Art. 9, l. reg. Lombardia n. 33 del 2009  - Adesione obbligata di medici e pazienti – Esclusione.         Le associazioni di categoria sono legittimate a stare in giudizio solo quando venga invocata la lesione di un interesse omogeneo comune all'intera categoria e non anche quando si verta su questioni concernenti singoli iscritti ovvero su questioni capaci di dividere la categoria in posizioni contrastanti l'interesse collettivo dell'associazione, infatti, deve identificarsi con l'interesse di tutti gli appartenenti alla categoria unitariamente considerata e non con gli interessi di singoli associati o di gruppi di assodati, non potendo l’associazione agire laddove vi sia disomogeneità delle posizioni al suo interno (1).         Nel sistema costruito dall’art. 9, l. reg. Lombardia n. 33 del 2009  il medico di medicina generale non è costretto ad aderire al nuovo modello che prevede la presa in carico dei pazienti cronici e fragili e tende al superamento dell’approccio specialistico tradizionale né i pazienti sono obbligati in tal senso, con la conseguenza che non è ravvisabile alcuna violazione del principio di libera scelta del medico (2).   (1) Ha chiarito il Tar che se si riconoscesse all'associazione di categoria la legittimazione ad agire anche in questi ultimi casi, si avrebbe una vera e propria sostituzione processuale in violazione dell'art. 81 c.p.c., secondo cui nessuno può far valere in giudizio in nome proprio un diritto altrui se non nei casi espressamente previsti dalla legge. L'interesse collettivo di cui sono portatrici le associazioni di categoria si deve identificare con l'utilità giuridica ritraibile, attraverso l'intervento associativo, da parte di tutti e di ciascun consocio, di talché, quando una questione investa anche un numero significativo o elevato di questi ultimi ma per vicende singole di ognuno di essi, non può l'associazione assumere direttamente (ed in via sostitutiva) la legittimazione ad agire anche in questi casi (Cons. Stato, sez. III 23 dicembre 2014 n. 6370; sez. V 23 settembre 2010 n. 7074; sez. VI 10 marzo 2011 n. 1540; sez. III, 7 marzo 2012 n. 1301). In altri termini le associazioni di categoria sono legittimate ad impugnare unicamente i provvedimenti che ledono le prerogative delle categorie di cui le singole associazioni sono enti esponenziali, laddove facciano valere interessi omogenei degli iscritti, e quindi con l'unico limite dell'assenza di un conflitto di interessi fra singoli iscritti o fra gruppi di iscritti. L'ipotesi di conflitto di interessi, infatti, secondo la costante giurisprudenza amministrativa, priva di legittimazione gli enti collettivi (Cons. Stato, Ad. plen., 2 novembre 2015, n. 9).   (2) Ha chiarito il Tar che l’art. 9, l. reg. Lombardia n. 33 del 2009 ha previsto un nuovo sistema di presa in carico dei pazienti cronici e fragili, tendente al “superamento dell’approccio specialistico tradizionale, per focalizzarsi sulla persona, sulla valutazione globale e multi disciplinare dei suoi bisogni al fine di promuovere la dignità della persona e la qualità della vita e quindi la salute nelle sue diverse dimensioni” al fine dichiarato di "ripensare l'articolazione della rete dei servizi a partire dal bisogno della persona ed individuare modelli di cura e presa in carico fondati sull'appropriatezza rispetto alla domanda". In tale prospettiva l’erogazione dei servizi “deve essere orientata non solo ad erogare prestazioni in modo appropriato ed efficiente, ma anche a garantire il coordinamento della presa in carico e del percorso di cura attraverso connessioni e interdipendenze organizzative tra i diversi livelli di erogazione”. Il nuovo sistema di presa in carica punta ad “offrire all’individuo e al sistema una gestione efficace delle malattie croniche che richiedono continuità nell’azione di prevenzione e cura, superando il possibile vuoto assistenziale…Tale discontinuità comporta costi, non solo economici, per il malato e la sua famiglia ed evidenzia la necessità di gestire meglio la cronicità in un’ottica di semplificazione per il paziente e la sua famiglia, implementando nel sistema misure che facilitano l’accesso e la continuità delle cure e alleggeriscono parallelamente le procedure amministrative”   Ha aggiunto che il medico di medicina generale continua ad avere la responsabilità della competenza clinica in relazione al proprio paziente. Il gestore, costituito da una struttura pubblica o privata, è il titolare della presa in carico del paziente e garantisce il coordinamento e l’integrazione tra i differenti livelli di cura e i vari attori. Il gestore può essere una struttura sanitaria, socio-sanitaria accreditata e a contratto o il medico di medicina generale organizzato in forme associative. Deve assicurare l’intera filiera delle prestazioni, anche specialistiche e di ricovero, che sono state programmate in apposito Piano individuale di cure (PAI) che spetta di norma al medico di medicina generale. Più nel dettaglio al gestore competono attività quali la prenotazione delle prestazioni, il coordinamento dei partner di rete, il monitoraggio dell’aderenza del paziente al percorso programmato, l’erogazione delle prestazioni previste dal PAI. Si tratta, evidentemente, di attività che non competono al medico di medicina generale, che neppure avrebbe mezzi e organizzazione per assolvere a tali compiti. Le due figure, gestore e medico di medicina generale, agiscono quindi in ambiti di competenza differenti che nel sistema si integrano e si coordinano per tendere ad una maggiore efficienza. La figura del medico di medicina generale non viene affatto erosa nelle proprie competenze né lesa nella propria professionalità, essendo invece attore centrale di un complesso modello organizzativo in cui l’integrazione dei diversi livelli di erogazione delle prestazioni è volta a garantire l’obiettivo della prevenzione e della continuità di cura del paziente cronico e/o fragile. Sotto altro ma concorrente profilo non sussiste alcuna violazione dell’art. 48, l. n.  833 del 1978 che stabilisce l’uniformità del trattamento economico e normativo del personale sanitario a rapporto convenzionale, garantita sull'intero territorio nazionale da convenzioni, aventi durata triennale, né dell’art. 8, d.lgs. n. 502 del 1992 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) che prevede che il rapporto tra il Servizio sanitario nazionale (SSN) ed i medici di medicina generale sia disciplinato da convenzioni di durata triennale «conformi agli accordi collettivi nazionali stipulati, ai sensi dell'art. 4, comma 9, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 [...]».
Processo amministrativo
Professioni e mestieri – Guardia giurata - Guardia giurata zoofila – Esercizio poteri di vigilanza ex art. 6, l. n. 189 del 2004 – Senza essere in possesso della qualifica di guardia venatoria volontaria - Revoca della qualifica di guardia giurata zoofila – Legittimità – Ratio.                   È legittima la revoca della qualifica di guardia giurata zoofila, disposta dal Prefetto nei confronti di una guardia che ha esercitato poteri di vigilanza ex art. 6, comma 2, l. 20 luglio 2004, n. 189 in ambito protezionistico, su animali diversi da quelli di affezione - rientrando in tale categoria esclusivamente gli animali domestici o di compagnia con esclusione della fauna selvatica -, senza essere in possesso della qualifica di guardia venatoria volontaria e ciò in quanto – a tenore degli artt. 9 e 10 del TULPS – l’abuso del titolo è sufficiente per dubitare della permanenza del requisito dell’affidabilità, presupposto necessario per il conferimento di una qualifica autorizzativa di una attività di polizia (1).    (1) Ha ricordato il parere che sulla portata dell’art. 6, l. n. 189 del 2004 si sono formati in giurisprudenza due diversi orientamenti.  Secondo un primo orientamento (Cass. pen., sez. VI, 18 maggio 2011, n. 28727) i poteri delle guardie particolari giurate zoofile non sarebbero limitati al controllo sugli animali da affezione, ma anzi sarebbe esteso anche ad essi.   Un secondo orientamento ha affermato che a tali guardie particolari giurate zoofile va riconosciuto il potere di vigilanza sul rispetto delle disposizioni della legge n. 189 del 2004, nonché le correlate funzioni di agente di polizia giudiziaria esclusivamente con riferimento alla tutela degli “animali da affezione”, cioè gli animali domestici (Cass. pen., sez. III, 9 aprile 2008, n. 23631).    Ha fatto il punto dei due diversi orientamenti Cass. pen., sez. VI, 16 maggio 2019, n. 21508, intervenuta in un  procedimento che vedeva una guardia particolare giurata zoofila condannata in secondo grado in relazione al reato di cui agli artt. 81 e 347 c.p. “per aver usurpato una funzione pubblica effettuando controlli venatori nei confronti di cacciatori, pur non avendo il titolo essendo egli in possesso di un decreto di guardia particolare giurata zoofila che gli permetteva il solo controllo di cani da affezione, cioè di cani e gatti.” La stessa sentenza ha posto in evidenza che  ”in ordine ai poteri riconosciuti dalla l. n. 189 del 2004, art .6 alle guardie particolari giurate delle associazioni protezionistiche e zoofile riconosciute, nominate con decreto prefettizio, vi è un contrasto di vedute nella giurisprudenza di questa Corte, essendo stato, da un lato sostenuto che, in tema di caccia, a quelle guardie particolari giurate non spetta la qualifica di agenti di polizia giudiziaria per il solo fatto che è alle medesime affidata, a norma dell’art. 6, la vigilanza sull’applicazione della citata legge e delle altre norme poste a tutela degli “animali da affezione”, in quanto in tale categoria rientrano esclusivamente gli animali domestici o di compagnia con esclusione della fauna selvatica, non potendo essere attribuito al dato normativo un significato rimesso a criteri di valutazione meramente soggettiva (Cass. pen., sez. III, 9 aprile 2008, n. 23631); e, da altro lato, affermato che le competenze di polizia giudiziaria spettanti, quali agenti di polizia giudiziaria, alle guardie particolari giurate delle associazioni protezionistiche e zoofile riconosciute, ai sensi del citato art. 6, si estendono alla protezione di animali anche diversi da quelli di affezione (Cass. pen., sez. III, 18 maggio 2011, n. 28727).   La Sezioni prima ha ritenuto preferibile, tra tali due indirizzi, il primo più restrittivo perché maggiormente rispettoso della lettera della legge. L’art. 6, comma 2, l. n. 189 del 2004, testualmente prevede che “La vigilanza sul rispetto della presente legge e delle altre norme relative alla protezione degli animali è affidata anche, con riguardo agli animali di affezione, nei limiti dei compiti attribuiti dai rispettivi decreti prefettizi di nomina, ai sensi degli artt. 55 e 57 c.p.p., alle guardie particolari giurate delle associazioni protezionistiche e zoofile riconosciute”. Ora, è di tutta evidenza che l’avverbio “anche” è stato utilizzato dal legislatore con riferimento “alle guardie particolari giurate delle associazioni protezionistiche e zoofile riconosciute”, nel senso che anche a tali figure sono estesi quei poteri di vigilanza altrimenti riconosciuti agli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, e non con riferimento alla frase “con riguardo agli animali di affezione”. Ne consegue che appare più corretto il principio enunciato nella prima delle due considerate sentenze, con la conseguenza che a tali guardie particolari giurate va riconosciuto il potere di vigilanza sul rispetto delle disposizioni della l. n. 189 del 2004, nonché le correlate funzioni di agente di polizia giudiziaria esclusivamente con riferimento alla tutela degli “animali da affezione”, cioè gli animali domestici.  
Professioni e mestieri
Informativa antimafia – Rapporti tra privati – Esclusione.   L’impresa colpita da interdittiva antimafia può stipulare contratti con i privati, essendo i limiti introdotti dell’art. 89, comma 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 applicabili solo quando il privato entra in rapporto con l’Amministrazione (1).   (1) In punto di fatto nella specie l’informativa era stata resa a seguito di una richiesta di informazioni proveniente da Confindustria Venezia, nell’ambito di un Protocollo di legalità, per la conclusione di contratti di rilevanza privatistica La Sezione ha premesso che il comma 1 dell’art. 83, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 ha individuato i soggetti che devono acquisire la documentazione antimafia di cui all'art. 84 prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti relativi a lavori, servizi e forniture pubblici, ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti indicati nel precedente art. 67. Si tratta delle Pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti, gli enti e le aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e le società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico nonchè i concessionari di lavori o di servizi pubblici. A tali soggetti si aggiungono, in virtù del successivo comma 2, i contraenti generali previsti dal Codice dei contratti pubblici. Si tratta dunque di soggetti pubblici. Nel caso all’esame del Collegio, invece, la richiesta alla Prefettura di comunicazione antimafia è stata avanzata da Confindustria Venezia, quindi da un soggetto di indubbia natura privata. Quanto all’utilizzabilità dell’informativa nei rapporti tra privati la Sezione ha chiarito che l’art. 89, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 ha previsto il potere del Perfetto che interviene quando il privato entra in rapporto con l’Amministrazione. Ed è la legge a conferire un siffatto potere di verifica al Prefetto. Diverso è invece il caso di rapporti tra privati, in relazione ai quali la normativa antimafia nulla prevede. Tale vuoto normativo non può certo essere colmato, nella specie, dal Protocollo della legalità e dal suo Atto aggiuntivo, entrambi stipulati tra il Ministero dell’interno e Confindustria. Si tratta, infatti, di un atto stipulato tra due soggetti, che finirebbe per estendere ad un soggetto terzo, estraneo a tale rapporto, effetti inibitori (o, secondo l'Adunanza plenaria, addirittura "incapacitanti"), che la legge ha espressamente voluto applicare ai soli casi in cui il privato in odore di mafia contragga con una parte pubblica. Prova di tale voluntas legis è proprio nella modifica del comma 1 dell’art. 87, d.lgs. n. 159 del 2011 che, prima della novella introdotta dall’art. 4, d.lgs. 15 novembre 2012, n. 218, prevedeva espressamente la possibilità che a chiedere la comunicazione antimafia fosse un soggetto privato. Ciò chiarito, la Sezione ha però rappresentato che il d.lgs. n. 218 del 2012 sembra aver aperto una breccia nella trama intessuta dal Codice delle leggi antimafia, il cui complesso di norme mira ad isolare le imprese vicine agli ambienti della criminalità organizzata, togliendo loro la linfa data dai guadagni, con l’esclusione dal settore economico pubblico, in particolare nella contrattualistica, e dai finanziamenti pubblici. Occorre dunque interrogarsi – e nulla più che un interrogativo “aperto” può provenire da questo Giudice – se per rafforzare il disegno del Legislatore, con una sapiente disciplina antimafia che sta portando in modo tangibile i suoi risultati - non possano, le Istituzioni a ciò preposte, valutare il ritorno alla originaria formulazione del Codice Antimafia, nel senso che l’informazione antimafia possa essere richiesta anche da un soggetto privato ed anche per rapporti esclusivamente tra privati. Soltanto un tale intervento potrebbe, in vicende come quella oggi in esame, permettere l’applicabilità generalizzata della documentazione antimafia, che non a caso questo Consiglio ritiene pietra angolare del sistema normativo antimafia (Cons. St., sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105), in presenza di una serie di elementi sintomatici dai quali evincere l’influenza, anche indiretta (art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011), delle organizzazioni mafiose sull’attività di impresa, nella duplice veste della c.d. contiguità soggiacente o della c.d. contiguità compiacente. In tal modo si riuscirebbe – chiudendo gli spazi che oggi esistono – da un lato ad emarginare completamente tali soggetti rendendoli vulnerabili nel loro effettivo punto di forza e, dall’altro, lasciare il mercato economico agli operatori che svolgono l’attività affidandosi esclusivamente al proprio lavoro nel rispetto delle regole. L’interrogativo che la Sezione ha posto si fonda sulla considerazione che le condotte infiltrative mafiose nel tessuto economico non solo sono un pericolo per la sicurezza pubblica e per l’economia legale, ma anzitutto e soprattutto un attentato al valore personalistico (art. 2 Cost.) e, cioè, quel “fondamentale principio che pone al vertice dell’ordinamento la dignità e il valore della persona” (v., per tutte, Corte cost. 7 dicembre 2017, n. 258), anche in ambito economico, e rinnegato in radice dalla mafia, che ne fa invece un valore negoziabile nel “patto di affari” stipulato con l’impresa, nel nome di un comune o convergente interesse economico, a danno dello Stato. E, su questo terreno, non vi è dubbio che il devastante impatto della infiltrazione mafiosa si manifesta nei rapporti tra privati come in quelli tra privati e P.A.. Sempre, infatti, chi contratta e collabora con la mafia, per convenienza o connivenza, non è soggetto, ma solo oggetto di contrattazione (Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758). Se un vero e più profondo fondamento, allora, si vuole generalmente rinvenire nella legislazione antimafia e, particolarmente, nell’istituto dell’informazione antimafia, esso davvero riposa, come accennato, nella dignità della persona, principio supremo del nostro ordinamento, il quale – e non a caso – opera come limite alla stessa attività di impresa, ai sensi dell’art. 41, comma 2, Cost., laddove la disposizione costituzionale prevede che l’iniziativa economica privata, libera, “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o – secondo un clima assiologico di tipo ascendente – in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. L’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e, dall’altro, la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale, secondo la logica della prevenzione, potrebbe allora essere valutata dal Legislatore allo scopo di restituire compiutezza piena ad un aspetto del Codice su cui certo non può intervenire il Giudice in via interpretativa.
Informativa antimafia
Energia elettrica – Fonti rinnovabili – Lombardia - Programma energetico ambientale regionale – Individuazione di divieti e limiti in zone agricole – Legittimità.           E’ legittimo il Programma energetico ambientale regionale (PEAR) della Lombardia e gli atti di indirizzo attuativo che, con scelta discrezionale di tipo programmatorio e pianificatorio sindacabile in questa sede solo per macroscopici vizi di sproporzione e illogicità, ha ragionevolmente graduato e differenziato, tra aree agricole di pregio e altre aree agricole, divieti e limiti, relativi alle Fonti di energia rinnovabile (FER), in modo da raggiungere un punto di equilibrio tra le esigenze di sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili e le (non minusvalenti, né recessive) esigenze di salvaguardia della produzione agricola e del valore ecosistemico più generale insito nelle aeree agricole (ex art. 44 Cost.) (1).    (1) Ha chiarito il parere che il Programma energico ambientale regionale (PEAR) ha individuato le aree e i siti non idonei all’installazione di specifiche tipologie di impianti a fonti energetiche rinnovabili e, per quanto attiene agli impianti fotovoltaici a terra, stabilisce che nelle aree agricole strategiche possono essere costruiti impianti di potenza non superiore ai 200 kW, mentre nelle aree agricole possono essere installati impianti fotovoltaici di tipologia F3.13 da installarsi al suolo con potenza di picco risultante dall’estensione in pianta pari al massimo al 5 per cento della SAU, in proprietà dell’impresa agricola iscritta alla specifica sezione del registro delle imprese e l’impianto non può comunque avere potenza di picco maggiore di 1 MW. Il PEAR della Regione Lombardia ha inoltre classificato il territorio agricolo lombardo in due categorie: 1) aree agricole interessate da produzioni di particolare qualità e tipicità, 2) restanti aree agricole diverse da quelle della categoria precedente. Orbene, nelle “restanti aree agricole diverse da quelle della categoria precedente” (ossia diverse da quelle interessate da produzioni di particolare qualità e tipicità) non possono evidentemente farsi rientrare nell’ambito delle prime, come una loro sottocategoria (così da lasciar fuori da questa disciplina tutte le altre aree agricole residuali, che sarebbero, secondo la tesi di parte ricorrente, liberamente occupabili, senza alcun limite, con impianti fotovoltaici di ogni genere e tipologia).  ​​​​​​​Del tutto correttamente e legittimamente la Regione Lombardia, in attuazione delle previsioni di cui al d.m. 10 settembre 2010 (recante le Linee guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili), ha stabilito, nelle Linee guida regionali per i procedimenti amministrativi di autorizzazione agli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili approvate con la delibera n. 3298 del 2012, nel punto V, distinti criteri di tutela per le aree agricole di pregio (“aree agricole interessate da produzioni di particolare qualità e tipicità”) e per le “restanti aree agricole diverse da quelle della categoria precedente”. Per le prime le Linee guida considerano il “suolo agricolo quale spazio per la produzione di alimenti, la salvaguardia delle produzioni agroalimentari locali di qualità, anche sulla base dello sviluppo dell’ambiente rurale di cui all’art. 7, l. n. 57 del 2001, nonché della tutela dei distretti agroalimentari di qualità di cui all’art. 13, d.lgs. n. 228 del 2001”, mentre per le seconde considerano il “suolo agricolo quale spazio dedicato alla produzione di alimenti, alla tutela della biodiversità, all’equilibrio del territorio e dell’ambiente, alla produzione di utilità pubbliche quali la qualità dell’aria e dell’acqua, la difesa idrogeologica, la qualità della vita di tutta la popolazione e quale elemento costitutivo del sistema rurale, nello spirito di quanto previsto dall’art. 4 quater, l.reg. n. 31 del 2008”. Ma è evidente che le aree della seconda categoria residuale, ossia le restanti “aree agricole diverse da quelle della categoria precedente”, lungi dall’essere ignorate e lasciate prive di qualsiasi rilevanza ai fini di possibili condizioni e limiti all’installazione di impianti FER, sono anch’esse prese in considerazione e sottoposte a criteri di salvaguardia. 
Energia elettrica
Edilizia – Abusi – Condanna ex art. 28, l. n. 689 del 1981 – Natura – Conseguenza in termini di prescrizione        Sia che si ritenga che la previsione di cui all'art. 167, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 vada ascritta al novero delle “sanzioni amministrative” disciplinate dalla l. 24 novembre 1981, n. 689 sia che si privilegi la tesi per cui l’obbligazione prevista ex art. 167 citato abbia natura risarcitoria-ripristinatoria od indennitaria le conseguenze, in punto di prescrizione del diritto dell’Amministrazione a pretendere la somma dovuta dal responsabile non mutano; nel primo caso, la disciplina si rinverrebbe sub art. 28, l. n. 689 del 1981, conm conseguente applicabilità della prescrizione quinquennale; nel secondo caso, una volta che la competente amministrazione abbia deliberato la compatibilità esercitando la propria lata discrezionalità tecnica investente il profilo della non rilevante compromissione del paesaggio ed il quantum che costituisce alternativa all’obbligo del ripristino, pur sempre inizierebbe a prescriversi il diritto della stessa a pretendere il pagamento della somma suddetta; laddove la richiesta di nulla osta rivolta alla Soprintendenza si inserisca in una vicenda condonistica, il provvedimento espresso di nulla osta (e quindi di compatibilità dell’abuso con il paesaggio) o il silenzio assenso formatosi, ed anche l’eventuale contestuale determinazione discrezionale della somma dovuta dal privato non integrano (ancora) il dies a quo a partire dal quale inizierebbe a maturare la prescrizione della pretesa pecuniaria avanzata ex art. 167 citato: essa decorre invece dal rilascio del condono da parte dell’amministrazione comunale: nei casi in cui, invece, il nulla osta della Soprintendenza (ed annesso, discrezionale, giudizio di compatibilità) sopravvenga al provvedimento di concessione in sanatoria, il dies a quo di maturazione della prescrizione quinquennale coincide con l’esercizio della valutazione da parte dell’Autorità preposta al vincolo paesaggistico (1). 
Edilizia
Covid-19 – Basilicata - Ordinanza regionale sospende le lezioni in presenza delle scuole di ogni ordine e grado ad eccezione della scuola dell’infanzia e degli asili nido – Tutela monocratica – Va disposto il riesame.           È disposto il riesame dell’Ordinanza del Presidente della Giunta Regionale di Basilicata n. 44 del 15 novembre 2020, che di fatto sospende le lezioni in presenza delle scuole di ogni ordine e grado ad eccezione della scuola dell’infanzia e degli asili nido, incidendo la stessa in maniera diretta e significativa sul diritto (di rilevanza primaria) allo studio, contemplato nell’art. 34 Cost., collocato nel titolo II della carta costituzionale al pari dell’art. 32 concernente il diritto (ugualmente di rilevanza primaria) alla salute (1).    (1) Ha premesso il decreto che il d.P.C.M. 3 novembre 2020, recante nuove misure per il contrasto ed il contenimento dell'emergenza da Covid-19, contempla le modalità di svolgimento dell’attività didattica ed educativa modulandone le forme in base alla situazione di rischio epidemiologico delle singole regioni, “fermo restando lo svolgimento in presenza della scuola dell'infanzia, della scuola primaria, dei servizi educativi per l'infanzia di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 65 e del primo anno di frequenza della scuola secondaria di primo grado” anche nell’ipotesi estrema di aree caratterizzate da uno scenario di massima gravità (cd. zona rossa); nelle altre aree del territorio nazionale, ivi comprese quelle caratterizzate da uno scenario di elevata gravità (cd. zona arancione, come è il caso della Basilicata), è prevista e garantita la didattica in presenza per la scuola dell’infanzia, per la scuola primaria e per tutta la scuola secondaria di primo grado.  Ad avviso del Presidente del Tar Basilicata l’Autorità regionale ha il potere di introdurre, motivatamente ed in via temporanea, le ulteriori restrizioni che giudica indispensabili qualora si riveli, per esempio, la necessità di intervenire in particolari aree infraregionali a causa della specifica situazione locale, ovvero si riveli l’inadeguatezza delle misure di contenimento adottate nelle strutture scolastiche in particolari contesti; ciò, sempreché risulti insufficiente o inefficiente il ricorso a rimedi alternativi in grado di evitare o contenere l’applicazione delle restrizioni nella misura minima compatibile con le esigenze di sanità pubblica; - sembra invece da escludere, in base al quadro normativo vigente evocato dai ricorrenti, che la Regione possa, in maniera generalizzata, modificare l’assetto organizzativo dell’attività scolastica, alterando il quadro delle misure calibrate nel d.P.C.M. per effetto di un diverso apprezzamento dei parametri di rischio epidemiologico e delle misure di contenimento necessarie e sufficienti per fronteggiare la situazione quale risulta compendiata nei diversi “scenari” rappresentati e determinati dall’Autorità governativa centrale. Inoltre, non sembra comunque che le misure adottate possano prescindere da una appropriata verifica ed una adeguata valutazione sulle effettive capacità funzionali e operative, sotto il profilo organizzativo, delle risorse umane e delle dotazioni informatiche, nell’impiego di tale modalità di svolgimento dell’attività nelle istituzioni scolastiche cui viene imposta la didattica a distanza; poiché altrimenti l’inibitoria della didattica in presenza sarebbe equivalente in pratica ad una chiusura delle attività scolastica, che con il d.P.C.M. si è voluto invece scongiurare, assumendo iniziative finalizzate, nell’apprezzamento della competente Autorità ministeriale, a garantire il diritto allo studio mediante lo svolgimento della didattica in presenza, pur negli scenari peggiori.    Nel caso all’esame del Presidente del Tar ai fini dell’invocata misura cautelare monocratica, le determinazioni impugnate – si legge nel decreto – appaiono sorrette da circostanze e considerazioni che, sebbene idonee a dimostrare la presenza di criticità nel sistema scolastico (anche se probabilmente non tipiche e particolari del contesto regionale), nondimeno non risultano del tutto coerenti ed aderenti con i principi sopra evidenziati concernenti il ruolo dell’Autorità regionale nella modulazione degli interventi necessari al contenimento dell’emergenza sanitaria, né risultano completamente esaustive relativamente alla possibilità di garantire la continuità didattica con la modalità a distanza nella scuola primaria e secondaria di primo grado. Si è aggiunto che il bilanciamento tra le esigenze imposte dalla necessaria tutela dei diversi interessi coinvolti nella materia (primi tra tutti, ma non solo, il diritto alla salute e quello all’istruzione) spetta in primo luogo all’autorità amministrativa, che ha gli strumenti e la competenza di merito per adottare le misure appropriate, anche alternative alla didattica a distanza, nell’ambito comunque del quadro normativo vigente, sulla cui osservanza il giudice amministrativo è chiamato a pronunciarsi. ​​​​​​​
Covid-19
Covid-19 – Sanità – Operazioni diagnostiche per la ricerca del Covid-19 - Non vanno sospese.     Non devono essere sospese in via monocratica le note emesse dalla Regione Lazio per le operazioni diagnostiche per la ricerca del virus sars-cov-2 mediante esami molecolari su tutte le matrici biologiche (Covid-19), non essendo configurabile il danno grave e irreparabile.
Covid-19
Processo amministrativo – Eccezioni – Rilevate d’ufficio – Art. 73, comma 3, c.p.a. – Ratio.    Processo amministrativo –  Giudizio di ottemperanza - Titolo con la formula esecutiva – Pluralità di creditori - Notifica presso la sede reale dell’amministrazione              Il rilievo d’ufficio, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a. - costituente un dovere, e non una mera facoltà discrezionale – ha la funzione di presidio dell’incomprimibile diritto di difesa, ed è finalizzato ad evitare che la causa sia decisa in virtù di una questione rilevata d'ufficio non discussa in contraddittorio tra le parti (1).               In caso di ottemperanza di un titolo giudiziale che riconosce crediti in favore di distinti soggetti, ai fini del giudizio di ottemperanza occorre la previa notifica del titolo con la formula esecutiva presso la sede reale dell’amministrazione – nei modi e nei termini di cui all’art. 14, d.l. n. 669 del 1996 – con l’indicazione specifica del soggetto in favore del quale si agisce per ottenere il credito; o, comunque, con un’indicazione idonea ad individuare, senza possibilità di equivoco o di errore, il suo destinatario.    (1) Ha ricordato la Sezione che tale disposizione “…ha codificato un principio, elaborato già dalla giurisprudenza (Cons. St., Adunanza Plenaria n. 1/2000) e poi introdotto dal legislatore del 2009, con la l. n. 69 con riferimento all'art. 101 del c.p.c., con l'aggiunta del comma 2, sul contraddittorio e sui rapporti tra le parti e il giudice. Si tratta di una disposizione, manifestazione del principio del giusto processo ex art. 111 Cost., dettata a tutela del diritto di difesa, al fine di evitare - in conformità al fondamentale principio del contraddittorio positivizzato dall'art. 2 comma 1, c.p.a. sul giusto processo (Cons. St., sez. IV, n. 3364/ 2015), - che la causa sia decisa in virtù di una questione rilevata d'ufficio non discussa in contraddittorio tra le parti, potendo così dare luogo al fenomeno delle cd. decisioni a sorpresa (Cons. St., sez. V, n. 5956/2013).  In particolare, secondo l'Adunanza Plenaria, (n. 14/2018): "il dovere", e non, dunque, una mera facoltà discrezionale, del giudice "ex art. 73, comma 3, risponde alla chiara finalità di contrastare, in ossequio al fondamentale principio del contraddittorio enunciato dall'art. 2, comma 1, c.p.a., il fenomeno delle c.d. decisioni a sorpresa, tant'è che la sua omissione trova la sanzione endoprocessuale nell'art. 105, comma 1" (Cons. St., sez. IV, n. 5570/2015).…” (cfr. C.G.A., Sez. giurisd., 13 luglio 2021, n. 696). 
Processo amministrativo
Concorrenza - Pratica commerciale scorretta – Definizione ex art. 20, comma 2, del Codice del Consumo - Mera clausola “ricognitiva” - Esclusione.             La definizione recata dall’art. 20, comma 2, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo) – laddove prevede che una pratica commerciale è scorretta se «è contraria alla diligenza professionale» ed «è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori» - non costituisce una mera clausola “ricognitiva” delle pratiche commerciali ingannevoli ed aggressive ‒ rispetto alle quali sarebbe rilevante solo a fini interpretativi ‒, bensì integra una vera e propria “fattispecie” di illecito, dotata di autonoma portata disciplinare, alla quale è possibile attingere in via residuale (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che nella trama normativa, tale definizione generale di pratica scorretta si scompone in due diverse categorie: le pratiche ingannevoli (di cui agli artt. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli artt. 24 e 25). Il legislatore ha inoltre analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. ‘liste nere’) da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni ‘speciali’ di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 21 e all’art. 22-bis), senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla «diligenza professionale» nonché dalla sua concreta attitudine «a falsare il comportamento economico del consumatore». Il tema inedito è quello di comprendere se il citato art. 20, comma 2, vada intesa come una mera clausola “ricognitiva” delle pratiche commerciali ingannevoli ed aggressive ‒ rispetto alle quali la definizione generale sarebbe rilevante solo a fini interpretativi ‒ oppure integri essa stessa una “fattispecie” di illecito, dotata di autonoma portata disciplinare, cui attingere in via residuale. Ebbene, la lettura sistematica del titolo III della Parte seconda del codice del consumo rende certi che le “pratiche commerciali scorrette” costituiscono un genus unitario di illecito, i cui elementi costitutivi sono definiti dall’art. 20, comma 2. All’interno della fattispecie generale, il legislatore ha “ritagliato” ‒ per finalità di semplificazione probatoria ‒ due sottotipi (e all’interno di ciascuno di essi, due ulteriori fattispecie presuntive) che si pongono in rapporto di specialità (per specificazione) rispetto alla prima. A questi fini, in ordine di successione ermeneutica: - occorre prima stabilire se la condotta contestata possa essere inquadrata all’interno delle “liste nere” (di cui agli articoli 23 e 26): in caso di risposta positiva, la pratica dovrà qualificarsi scorretta senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla «diligenza professionale» e la sua concreta attitudine «a falsare il comportamento economico del consumatore»; - qualora la pratica non sia ricompresa in nessuna delle due fattispecie presuntive, va accertato se ricorrono gli estremi della pratica commerciale ingannevole (artt. 21 e 22) oppure aggressiva (artt. 24 e 25): in tal caso, la verifica di ingannevolezza ed aggressività integra di per sé la contrarietà alla «diligenza professionale»; - ove i precedenti tentativi di sussunzione non risultino percorribili, non resta che ricorrere alla norma di chiusura sussidiaria di cui all’art. 20, comma 2: la mancata caratterizzazione dell’illecito in termini di ingannevolezza e aggressività, impone di accertare in concreto il grado della «specifica competenza e attenzione» che «ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti», tenuto conto delle peculiarità del caso di specie. Acclarato che era ben possibile per l’Autorità ricorrere alla definizione generale di pratica commerciale scorretta per sanzionare violazioni della diligenza professionale diverse dalla ingannevolezza e dalla aggressività, vanno fatte due ulteriori considerazioni. In primo luogo, non osta alla configurabilità dell’illecito l’assenza di un contatto “negoziale” tra la Società ed il consumatore che ha risentito il pregiudizio finale. Nel contenuto della «diligenza professionale» ‒ nozione autonoma rispetto a quella del codice civile, dove costituisce parametro di valutazione dell’esattezza dell’adempimento di obbligazioni ‒ rientrano anche gli adempimenti organizzativi che il rivenditore deve porre in essere per contrastare o almeno contenere il fenomeno di quanti acquistano massivamente per poi rivendere sul mercato secondario. Neppure può sostenersi, ai fini di escludere l’illecito, che il consumatore si è autonomamente e spontaneamente rivolto ai rivenditori del mercato secondario. L’ampia nozione di «decisione di natura commerciale» consente di includere tra le pratiche idonee «ad indurre un consumatore ad assumere una decisione che non avrebbe altrimenti preso», non soltanto la condotta che si riveli fondamentale nello spingere il consumatore ad accettare di concludere un contratto con il professionista, ma anche la condotta del rivenditore che abbia semplicemente posto il consumatore nella impossibilità di finalizzare l’acquisto del biglietto per assistere all’evento di suo interesse, inducendolo a soddisfare il bisogno di consumo sul mercato secondario.
Concorrenza
Pubblica istruzione - Graduatorie ad esaurimento - Inserimento - Possesso del diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002 - Esclusione           Il possesso del diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002 non consente l’inserimento nelle attuali graduatorie ad esaurimento  (1).    (1) Ricorda la Sezione che le questioni portate da parte appellante all’attenzione del Collegio sono state già affrontate e definite dalla Sezione in numerosi precedenti, (Cons. Stato, sez. VI, n. 2985 del 2020; n. 3802 del 2020) che si sono uniformati alle pronunce dell’Adunanza Plenaria 20 dicembre 2017, n. 11 e 27 febbraio 2019, nn. 4 e 5 (da ultimo confermate dalla Corte di Cassazione, n. 3830 del 2021)  In questa sede è sufficiente richiamarne i passaggi salienti dei precedenti citati: il d.m. n. 235 del 2014 disciplina - come emerge chiaramente dal tenore letterale di ciascuno degli articoli di cui si compone - i criteri di massima per la permanenza, l’aggiornamento e la conferma dell’inclusione di coloro che sono già iscritti nella graduatoria. Il decreto si rivolge a soggetti determinati o, comunque, facilmente determinabili e i destinatari del d.m. sono esclusivamente i docenti già inseriti nelle graduatorie, i quali, evidentemente, sono gli unici soggetti che possono ottenere l’aggiornamento della posizione o la conferma della stessa. Ne consegue che i destinatari del d.m. sono determinati sin dal momento della sua adozione e rappresentano una categoria chiusa, atteso che i criteri di aggiornamento hanno efficacia limitata nel tempo perché valgono solo per il triennio 2014-2017.  Sotto altro profilo, il d.m. n. 235 del 2014 presenta caratteristiche sono incompatibili con una eventuale sua riconducibilità nell’alveo dei provvedimenti a natura normativa, perché mancano gli elementi essenziali della norma giuridica, ovvero: l’astrattezza (intesa come capacità della norma di applicarsi infinite volte a tutti i casi concreti rientranti nella fattispecie descritta in astratto), la generalità (intesa come indeterminabilità, sia ex ante che ex post, dei destinatari della norma) e l’innovatività (ovvero la capacità di modificare stabilmente l'ordinamento giuridico). Il suddetto d.m., infatti, ha ad oggetto una vicenda amministrativa specifica e temporalmente circoscritta (l’aggiornamento delle graduatorie per il triennio 2014/2017), ha destinatari determinati e non innova l’ordinamento giuridico, limitandosi a fissare criteri di massima per l’aggiornamento della graduatorie la cui applicazione è limitata nel tempo, oltre alla significativa circostanza che il suo procedimento di approvazione non è quello dei regolamenti ministeriali di cui all’art. 17, comma 4, l. 23 agosto 1988, n. 400.  Il ridetto d.m. non è neppure iscrivibile nell’ambito della categoria degli atti amministrativi a contenuto generale che, sebbene privi (a differenza dell’atto normativo) dell’astrattezza, si caratterizzano per la generalità dei destinatari, intesa come indeterminabilità dei destinatari ex ante, ma non ex post, poiché il d.m. n. 235 del 2014, come si è già precisato, si rivolge a destinatari già noti al momento dell’adozione, ovvero tutti coloro e solo coloro che sono già inseriti nelle G.A.E..  L’accoglimento della domanda di annullamento del d.m. n. 235 del 2014 intervenuto ad opera della sentenza della Sesta Sezione del Consiglio di Stato n. 1973 del 2015 non ha prodotto effetti erga omnes, perché è lo stesso dispositivo della sentenza di annullamento che si premura di specificare che gli effetti dell’annullamento operano solo a vantaggio di coloro che hanno proposto il ricorso (a ciò consegue anche l’inconsistenza della prospettata violazione dei principi dell’affidamento, dell’equo processo e della certezza del diritto, di cui agli artt. 6 e 13 della CEDU, di cui alla memoria tardivamente depositata dall’appellante in data 17 maggio 2021).  Quanto al contenuto, il d.m. n. 235 del 2014 non contiene alcuna disposizione lesiva o escludente nei confronti dei diplomati magistrati non inseriti nelle G.A.E. dal momento che, trattandosi di un decreto che detta criteri e procedure per aggiornare le graduatorie, il d.m. non si rivolge a coloro che, per qualsiasi motivo, non sono stati inseriti in dette graduatorie. Da ciò consegue che coloro che erano in possesso del diploma magistrale avrebbero dovuto far valere tale titolo partecipando ad almeno una delle varie procedure bandite dal Ministero per l’inserimento nelle graduatorie (permanenti prima e ad esaurimento poi) ed eventualmente, a fronte del mancato accoglimento della domanda presentata, avrebbero poi dovuto far valere le loro ragioni impugnando tempestivamente il provvedimento con cui si negava detto inserimento. Ciò non è accaduto per la semplice ragione che i ricorrenti non hanno mai partecipato alle procedure bandite per l’inserimento nelle graduatorie, nella convinzione (dagli stessi ammessa) di non aver titolo all’inserimento in base al solo diploma magistrale.  Il valore legale del diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002 può essere riconosciuto solo in via “strumentale”, nel senso di consentire a coloro che lo hanno conseguito di partecipare alle sessioni di abilitazioni o ai concorsi, pur se privi del diploma di laurea in scienze della formazione istituito con d.P.R. 31 luglio 1996, n. 471 (in tal modo, la richiamata disciplina transitoria ha mostrato di tenere in debito conto la posizione di chi avesse conseguito il titolo del diploma magistrale precedentemente alla riforma operata con la l. 19 novembre 1990, n. 341 e non fosse già immesso in ruolo alla data di entrata in vigore del d.m. 10 marzo 1997, consentendogli la partecipazione a procedure selettive riservate ai fini del conseguimento di un titolo idoneo a consentire l'iscrizione nelle graduatorie).  Non ha rilievo in senso contrario la previsione di cui all’art. 1, d.l. 28 maggio 2004, n. 136, convertito dalla l. 27 luglio 2004, n. 186, secondo la quale è sufficiente per accedere alla graduatoria il titolo abilitante comunque posseduto, in quanto detta disposizione non fa alcun riferimento al valore abilitante del solo diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002; né, successivamente, l’art. 1-quinques, d.l. 12 luglio 2018, n. 87 ha riconosciuto valore abilitante ex se al diploma magistrale, ma ha anzi ribadito la necessità di superare un concorso per accedere ai posti di insegnamento.  L’abilitazione all’insegnamento nella scuola materna ed elementare ex artt. 194 e 197, d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297 e d.P.R. 23 luglio 1998, n. 323, non ha mai costituito titolo sufficiente per l’inserimento nelle graduatorie permanenti istituite dall'art. 401 d.lgs. 297/1994, essendo, invece, previsto a tale fine il superamento di procedure di natura concorsuale (concorsi regionali per titoli ed esami) rispetto alle quali il diploma magistrale costituiva requisito di partecipazione (ai sensi dell’art. 402 d.lgs. 297/1994). Ciò vale anche per le procedure riservate al personale in possesso del diploma magistrale e di determinati requisiti di servizio, istituite ai sensi dell’art. 2, comma 4, l. 3 maggio 1999, n. 124 (O.M. 153/99) ed ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. c-bis), d.l. n. 97 del 2004 (O.M. 25 e 80 del 2005) che richiedevano, ai fini del rilascio del titolo, il superamento di una procedura selettiva di tipo concorsuale.  L’orientamento di questo Consiglio, consolidatosi a seguito dell’Adunanza Plenaria n. 11 del 2017, è stato da ultimo integralmente confermato anche della Corte di Cassazione (n. 3830/2021) che ha espresso il seguente principio di diritto: “In tema di reclutamento dei docenti nella scuola pubblica, il possesso del solo diploma magistrale, sebbene conseguito entro l'anno scolastico 2001/2002, non costituisce titolo sufficiente per l'inserimento nelle graduatorie ad esaurimento istituite dall'art. 1, comma 605, della l. n. 296 del 2006, atteso che il solo possesso del predetto diploma non era mai stato requisito sufficiente per la partecipazione ai concorsi per titoli previsti dal d.lgs. n. 297 del 1994, e, di conseguenza, neppure per l'inserimento nelle graduatorie permanenti, che costituiscono un'evoluzione di quelle per titoli, dovendosi in tal modo escludere che la clausola che consente l'inserimento dei "docenti già in possesso di abilitazione", contenuta nella citata l. n. 296 del 2006, possa essere estesa fino a ricomprendervi un titolo che, seppure abilitante all'insegnamento, non era sufficiente per l'iscrizione nelle graduatorie, considerata la "ratio" della predetta clausola, intesa non già ad estendere la platea dei soggetti aventi titolo all'iscrizione, bensì a preservare le aspettative di chi, confidando nel mantenimento del sistema pregresso, avesse già affrontato un percorso di studi per munirsi del titolo necessario all'inserimento nelle graduatorie ad esaurimento”. 
Pubblica istruzione
Giurisdizione – Contratti della Pubblica amministrazione – Concessione - Risoluzione del contratto per gravi inadempimenti – Impugnazione - Giurisdizione del giudice amministrativo.          Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto la risoluzione del contratto per gravi inadempimenti del Concessionario comportante decisioni sulla durata o efficacia del rapporto concessorio (1).   (1) La Sezione ha ricordato che sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie, nell’ambito di quelle relative a concessioni di pubblici servizi, concernenti "indennità, canoni o altri corrispettivi" nelle quali venga in rilievo non l’esistenza od il contenuto della concessione o l’esercizio di poteri autoritativi della p.a. sul rapporto concessionario o sulla determinazione delle suddette controprestazioni (nel qual caso la giurisdizione spetterebbe al giudice amministrativo), ma solo l’effettiva debenza dei corrispettivi stessi in favore del concessionario, secondo un rapporto paritario di contenuto meramente patrimoniale, nella contrapposizione delle situazioni giuridiche soggettive obbligo/pretesa” (Cons. St., sez. III, 20 marzo 2019, n. 1839); quindi ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. c), c.p.a., devono intendersi devolute espressamente alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi ovvero relative a provvedimenti adottati dalla Pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo ovvero ancora relative all'affidamento di un pubblico servizio; da ciò consegue che le controversie relative alle vicende del rapporto concessorio, nelle ipotesi di concessione di servizio pubblico, rimangono nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche nella fase successiva alla stipula del contratto (Cons. St., sez. V, 18 dicembre 2017, n. 5938). La controversia in esame, relativa alla valutazione dell’inadempimento degli obblighi del concessionario, e comportante decisioni sulla durata o efficacia del rapporto concessorio, rientra nella giurisdizione del Giudice Amministrativo.
Giurisdizione
Processo amministrativo – Legittimazione attiva – Interdittiva antimafia – Amministratori ed i soci di una persona giuridica destinataria di interdittiva – Non sono legittimati.   ​​​​​​​             Gli amministratori ed i soci di una persona giuridica destinataria di interdittiva antimafia non sono titolari di legittimazione attiva all’impugnazione di tale provvedimento (1).   (1) La questione era stata rimessa dal C.g.a. con sentenza non definitiva 19 luglio 2021 n. 726. Sulla specifica questione dei soggetti legittimati ad impugnare le informative prefettizie, la sentenza rileva come non si registri un orientamento univoco nella giurisprudenza del Consiglio di Stato. Un primo orientamento ha stabilito che il ricorso proposto da soggetti diversi dall’impresa destinataria dell’interdittiva è inammissibile per carenza di legittimazione attiva, in quanto il decreto prefettizio può essere impugnato solo dal soggetto che ne patisce gli effetti diretti sulla sua posizione giuridica di interesse legittimo (in tal senso Cons. Stato, sez. III, 14 ottobre 2020, n. 6205, 22 gennaio 2019 n. 539, 16 maggio 2018 n. 2895, 11 maggio 2018, nn. 2824 e 2829). Un altro orientamento (Cons. Stato, sez. III, 4 aprile 2017, n. 1559) ha invece riconosciuto la legittimazione ad impugnare l’informativa, a tutela di un proprio interesse morale, in una ipotesi relativa a ricorso proposto da ex amministratori della società, o loro parenti, menzionati nell’interdittiva quali soggetti partecipi degli elementi indiziari da cui viene desunto il pericolo di condizionamento di stampo mafioso, ritenendosi la sussistenza della legittimazione al ricorso, in ragione della lesione concreta ed attuale della situazione professionale e patrimoniale dei soggetti che abbiano dovuto rinunciare all’incarico di amministratori della società, nonché sotto il profilo della potenziale lesione dell’onore e reputazione personale dei soggetti sui quali nel provvedimento venga ipotizzato un condizionamento mafioso. Nell’ambito di tale secondo orientamento, viene anche ricordato altro precedente (Cons. Stato, sez. III, 7 aprile 2021 n. 2793), sebbene nella diversa fattispecie di scioglimento dell'organo consiliare comunale, ai sensi dell'art. 143, d.lgs. n. 267 del 2000. L’Adunanza Plenaria ritiene che gli amministratori ed i soci di una società destinataria di interdittiva antimafia non sono titolari di legittimazione attiva all’impugnazione di tale provvedimento. non appare possibile, onde riconoscere la legittimazione attiva in sede processuale (ai fini del ricorso avverso tale provvedimento), argomentare in termini di “bilanciamento” del “sacrificio delle garanzie procedimentali” ovvero di “compensazione” della “omessa garanzia del contraddittorio endoprocedimentale” per il tramite di un riconoscimento di legittimazione ad agire. Appare, infatti, evidente che ciò che rileva, ai fini della soluzione del quesito sottoposto all’Adunanza Plenaria, è la individuazione della sussistenza (o meno) di una situazione soggettiva in capo agli amministratori ed ai soci della persona giuridica, con la conseguenza che, laddove tale situazione venga individuata ed abbia, in particolare, la consistenza di interesse legittimo, su di essa potrà fondarsi la legittimazione ad agire in giudizio a tutela della posizione medesima, in piena attuazione degli artt. 24 e 113 Cost. e, non ultimo, la stessa possibilità di partecipazione procedimentale, ai sensi degli artt. 7 ss., l. n. 241 del 1990 (salvo verificare la specifica compatibilità degli istituti della l. n. 241 del 1990 con la disciplina del Codice delle leggi antimafia); non sussistendo, in caso contrario, né la legittimazione ad agire in giudizio né quella a partecipare al procedimento. Né può essere obliato che, anche in sede di partecipazione procedimentale, la stessa l. n. 241 del 1990 – utilizzando un concetto di “pregiudizio” variamente riferito a diverse tipologie di “interesse” - conosce forme e livelli diversi di partecipazione in funzione di tutela nell’ambito del procedimento, riconoscendo: - una partecipazione piena – quale forma di tutela “anticipata” in sede procedimentale delle proprie situazioni giuridiche – ai destinatari diretti del provvedimento che l’amministrazione intende assumere a conclusione del procedimento amministrativo, ovvero a coloro che dall’emanazione del medesimo, ancorché non ne siano diretti destinatari, possano subire un pregiudizio (i cd. controinteressati in sede procedimentale): - una ulteriore forma di partecipazione, riconosciuta a quei soggetti, portatori di interessi pubblici o privati “cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento” E tali differenti forme di partecipazione procedimentale si riflettono su distinte situazioni in sede processuale, quali quella della legittimazione ad agire o a resistere, per un verso; ovvero dell’intervento (ad adiuvandum o ad opponendum), per altro verso. (Cons. Stato, sez. V, 8 aprile 2021, n. 2836; sez. IV, 16 febbraio 2010, n. 887). D’altra parte, il recente d.l. 6 novembre 2021, n. 152, nell’introdurre modifiche agli artt. 92 e 93, d.lgs. n. 159 del 2011, prevede forme di partecipazione del soggetto destinatario del provvedimento di informazione antimafia interdittiva, disponendo che allo stesso venga data tempestiva comunicazione, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa ed assegnandogli un termine (non superiore a venti giorni) per presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché per richiedere l'audizione. Tale nuova disciplina per un verso stempera le perplessità espresse dalla sentenza di rimessione in ordine all’adozione di un provvedimento “con riverberi assai durevoli nel tempo, se non addirittura permanenti, indelebili e inemendabili” senza alcun contraddittorio endoprocedimentale (cui, nella prospettazione offerta, dovrebbe fare da “bilanciamento” il riconoscimento di legittimazione processuale); per altro verso, rende palese come il legislatore ritenga titolare di una situazione giuridica tale da legittimarlo alla partecipazione procedimentale (nei termini ivi specificamente disciplinati) il solo soggetto possibile destinatario della misura interdittiva (la persona giuridica) e non altri (amministratori, soci, etc.). Il giudizio amministrativo, nella sua forma di giudizio impugnatorio di atti, tende ad assicurare al soggetto che si ritiene leso un vantaggio, che, attraverso l’eliminazione del provvedimento lesivo, consiste o nel recuperare la pienezza del proprio patrimonio giuridico ovvero nel conseguire (o tentare di conseguire) attraverso l’esercizio del potere amministrativo un ampliamento del proprio patrimonio giuridico. Ma, in ambedue le ipotesi, l’effetto proprio della sentenza costitutiva di annullamento si produce direttamente (e solo) sul patrimonio giuridico del soggetto per il quale si è instaurata – volente o nolente - una particolare relazione con la pubblica amministrazione, vuoi perché è l’amministrazione stessa che, unilateralmente e procedendo ex officio, ha intercettato la sua situazione giuridica, vuoi perché, al contrario, è stato il soggetto, attraverso una propria iniziativa di avvio procedimentale, a postulare l’esercizio (poi negato) del potere amministrativo. Alla luce di quanto sin qui esposto, può allora affermarsi che le caratteristiche di “personale” e “diretto”, che devono assistere l’interesse legittimo, svolgono, sul piano sostanziale, anche il ruolo di definire l’ambito della (possibile) titolarità della posizione giuridica, il riconoscimento e tutela della medesima da parte dell’ordinamento giuridico. Nell’ambito della situazione dinamica in cui si pone l’esercizio del potere amministrativo, dunque, l’interesse è “personale” in quanto si appunta solo in capo al soggetto che si rappresenta come titolare, ed è altresì (inscindibilmente con la prima caratteristica), anche “diretto”, in quanto il suo titolare è posto in una relazione di immediata inerenza con l’esercizio del potere amministrativo (per essere destinatario dell’atto e/o per avere nei confronti dell’atto una posizione opposta, speculare a quella del destinatario diretto). Ne consegue che non possono esservi posizioni di interesse legittimo nei confronti della pubblica amministrazione nell’esercizio del potere amministrativo conferitole dall’ordinamento, che non siano quelle (e solo quelle) che sorgono per effetto dello stesso statuto normativo del potere, nell’ambito del rapporto giuridico di diritto pubblico, (pre)configurato normativamente. L’interesse legittimo prevede, dunque, l’instaurazione di un rapporto giuridico con la pubblica Amministrazione; un rapporto giuridico che, per di più, non è ipotizzabile come potenziale, ma che si instaura al momento stesso dell’insorgenza della posizione. Laddove, dunque, gli attributi di “personale” e “diretto” attengono all’interesse legittimo in quanto posizione sostanziale, e consentono di circoscriverne la titolarità, l’ulteriore attributo di “attuale”, attiene alla proiezione processuale della posizione sostanziale, alla emersione della esigenza di tutela per effetto di un atto concreto e sincronicamente appezzabile di esercizio di potere, che renda dunque necessaria l’azione in giudizio, onde ottenere tutela, e quindi “utile”, a tali fini, la pronuncia del giudice. E’ tale posizione giuridica, nei sensi sopra descritti, che legittima al ricorso avverso l’atto amministrativo lesivo, se ed in quanto, attraverso l’annullamento dell’atto, si conserva o consegue (o si può conseguire, anche attraverso il riesercizio del potere amministrativo) quella utilità di cui si è, o si ritiene di dovere diventare, o si intende diventare, “titolare”. Al contrario, laddove non è individuabile tale posizione, ma purtuttavia sono enucleabili generiche posizioni di interesse (anche derivanti da rapporti, quale che ne sia la fonte, intercorrenti tra soggetto in relazione con il potere amministrativo ed ulteriori soggetti), queste ultime – che ben possono ricevere indirettamente e/o di riflesso, un “pregiudizio”- legittimano i loro titolari a spiegare intervento in giudizio, ma non già ad impugnare autonomamente il provvedimento lesivo della sfera giuridica del soggetto con il quale intrattengono a diverso titolo rapporti giuridici. L’ampliamento o la compressione del patrimonio giuridico, come si è già avuto modo di osservare, devono derivare direttamente dall’esercizio del potere amministrativo e solo questo determina, in sede processuale, la legittimazione ad agire. Nel caso oggetto del presente giudizio, non può non rinvenirsi carenza di legittimazione attiva in capo agli amministratori ed ai soci della persona giuridica colpita da interdittiva antimafia. Come ha condivisibilmente affermato il prevalente orientamento della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (si veda, inter alia, Cons. Stato, sez. III, 22 gennaio 2019, n. 539) “il decreto prefettizio può essere impugnato dal soggetto che ne patisce gli effetti diretti, e quindi, dal destinatario dell’atto, e cioè dalla società, in quanto solo il destinatario subisce la lesione immediata e diretta alla sua posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo che consente il ricorso dinanzi al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 7, comma 1, c.p.a.”. Si è anche affermato come laddove “la lesione lamentata dal ricorrente riveste ed è stata da egli stesso qualificata come lesione del suo “diritto” alla reputazione, alla dignità, situazione giuridica soggettiva che non ha natura di interesse legittimo, ma di diritto soggettivo”, vi è carenza di titolarità di interesse legittimo “il che comporta ulteriori profili di inammissibilità del ricorso sotto altro aspetto”. Più specificamente, con riferimento alla posizione degli appellanti nella presente sede, è la posizione degli stessi in rapporto alla persona giuridica/società per azioni che, alla luce di quanto innanzi esposto, esclude la loro legittimazione ad agire, non essendo individuabile una loro titolarità di interesse legittimo. Se, come essi stessi affermano (v. pag. 3 memoria del 15 ottobre 2021), “il carattere di persona giuridica attribuito alla società non può eliderne la natura contrattuale e dunque il legame indissolubile con i contraenti, ossia i soci, o con le persone fisiche che, come gli amministratori, svolgono alcuni ruoli indispensabili perché la società possa determinarsi ad operare”, appare evidente come gli amministratori e/o i soci non siano destinatari diretti dell’esercizio del potere amministrativo, essendovi relazione diretta solo tra potere amministrativo e persona giuridica, ma essi emergono con un proprio (possibile e riflesso) pregiudizio solo per effetto di un diverso rapporto (di natura contrattuale o di altro tipo) che li lega al destinatario diretto (la società). Ma questo rapporto, estraneo alla relazione intersoggettiva tra destinatario dell’atto e pubblica amministrazione, è inidoneo a far sorgere situazioni di interesse legittimo e impedisce, quindi, di configurare sul piano processuale la legittimazione ad agire nei confronti del provvedimento di interdittiva antimafia. Ciò non significa che tale provvedimento non possa produrre “pregiudizi” sulla loro sfera giuridica, ma che, in ogni caso, questi ultimi non possono sorreggere la legittimazione ad impugnare, ma solo, nell’ambito del sindacato giurisdizionale di legittimità e ricorrendone i presupposti, un intervento in giudizio.
Processo amministrativo
Economia – Contratti di credito ai consumatori - Beni immobili residenziali – Regolamento ex art. 120-quinquiesdecies, commi 3, 4 e 5, d.lgs. n. 385 del 1993 – Ratio.    L’adozione del regolamento sulla disciplina dei contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali, che dà attuazione all’art. 120-quinquiesdecies, commi 3, 4 e 5, d.lgs. 1  settembre 1993, n. 385, ha lo  scopo principale di accelerare e semplificare il recupero dei crediti nell’interesse della stabilità del sistema bancario (“enforcing contracts”), rinvenendo risposte al problema delle sofferenze bancarie e alle conseguenti ricadute negative sui requisiti patrimoniali delle banche; scopo, questo, su cui si innesta la necessaria tutela del cliente-consumatore, allo scopo di evitare che l’obiettivo di efficientare il recupero dei crediti insoluti si traduca in una pressione sociale eccessiva sui debitori, in un settore particolarmente delicato e sensibile, qual è quello degli immobili residenziali, tra cui la prima casa di abitazione principale.    Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di regolamento, che dà attuazione all’art. 120-quinquiesdecies, commi 3, 4 e 5, d.lgs. 1  settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), come introdotto dall'art. 1, d.lgs. 21 aprile 2016, n. 72, che - in recepimento della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2014/17/UE (c.d. Mortgage Credit Directive) - ha inserito nel Titolo VI del TUB il nuovo Capo I-bis, contenente la disciplina dei contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali.  E’ stato evidenziato che l'art. 120-quinquiesdecies, comma 3, d.lgs. n. 385 del 1993  prevede che - fermo restando il divieto di patto commissorio di cui all'art. 2744 cod.  civ. - il finanziatore e il consumatore, al momento della conclusione del contratto di credito, possono inserire nel contratto una clausola in forza della quale, in caso di inadempimento del consumatore, la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l'estinzione dell'intero debito del consumatore anche se il valore del bene immobile restituito o trasferito ovvero l'ammontare dei proventi della vendita è inferiore al debito residuo, con diritto del debitore a introitare l’eventuale eccedenza del valore dell'immobile come stimato dal perito ovvero conseguito con i proventi della vendita se è superiore al debito residuo.   Il decreto sottoposto all’esame della Sezione normativa attua la previsione del comma 5 dell’art. 120-quinquiesdecies, d.lgs. n. 385 del 1993, che dispone che il Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della giustizia, sentita la Banca d'Italia, detta disposizioni di attuazione dei commi 3 e 4 del medesimo articolo.  Il d.lgs. 21 aprile 2016, n. 72 (recante Attuazione della direttiva 2014/17/UE, in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali nonché modifiche e integrazioni del titolo VI-bis del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, sulla disciplina degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi e del decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 141) ha inserito (con l’art. 1, comma 2) nel nel Titolo VI (Trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti) del d.lgs. n. 385 del 1993 un nuovo Capo I-bis intitolato Credito immobiliare ai consumatori (artt. 120-quinquies – 120-noviesdecies).   L’art. 120-quinquiesdecies detta norme in tema di Inadempimento del consumatore. I commi da 3 a 5 introducono la novità del contratto di credito con clausola di restituzione o di trasferimento: “3. Fermo quanto previsto dall'articolo 2744 del codice civile, le parti possono convenire, con clausola espressa, al momento della conclusione del contratto di credito, che in caso di inadempimento del consumatore la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l'estinzione dell'intero debito a carico del consumatore derivante dal contratto di credito anche se il valore del bene immobile restituito o trasferito ovvero l'ammontare dei proventi della vendita è inferiore al debito residuo. Se il valore dell'immobile come stimato dal perito ovvero l'ammontare dei proventi della vendita è superiore al debito residuo, il consumatore ha diritto all'eccedenza. In ogni caso, il finanziatore si adopera con ogni diligenza per conseguire dalla vendita il miglior prezzo di realizzo. La clausola non può essere pattuita in caso di surrogazione nel contratto di credito ai sensi dell'articolo 120-quater. 4. Agli effetti del comma 3: a. il finanziatore non può condizionare la conclusione del contratto di credito alla sottoscrizione della clausola; b. se il contratto di credito contiene la clausola, il consumatore è assistito, a titolo gratuito, da un consulente al fine di valutarne la convenienza; c. costituisce inadempimento il mancato pagamento di un ammontare equivalente a diciotto rate mensili; non costituiscono inadempimento i ritardati pagamenti che consentono la risoluzione del contratto ai sensi dell'articolo 40, comma 2; d. il valore del bene immobile oggetto della garanzia è stimato da un perito indipendente scelto dalle parti di comune accordo ovvero, in caso di mancato raggiungimento dell'accordo, nominato dal Presidente del Tribunale territorialmente competente con le modalità di cui al terzo comma dell'articolo 696 del codice di procedura civile, con una perizia successiva all'inadempimento. Si applica quanto previsto ai sensi dell'articolo 120-duodecies. 5. Con decreto, il Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della giustizia, sentita la Banca d'Italia, detta disposizioni di attuazione dei commi 3 e 4”.  La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 4 febbraio 2014, n. 2014/17/UE, in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali e recante modifica delle direttive 2008/48/CE e 2013/36/UE e del regolamento (UE) n. 1093/2010, così detta Mortgage Credit Directive (MCD), mira a uniformare (in sede di armonizzazione e di avvicinamento dei relativi ordinamenti) le eterogenee discipline dei Paesi membri riguardo all'attività di erogazione di crediti per beni immobili residenziali, e ciò essenzialmente al duplice scopo di promuovere e assicurare lo sviluppo di un mercato creditizio più trasparente ed efficiente e di rafforzare la tutela dei consumatori dopo la crisi del debito del 2007-2008 [il terzo considerando della direttiva ricorda che “il G20 ha incaricato il Consiglio per la stabilità finanziaria (Financial Stability Board) di fissare principi in materia di requisiti validi per la sottoscrizione in relazione a beni immobili residenziali”], ovvero (quinto considerando) “Al fine di agevolare la creazione di un mercato interno ben funzionante e caratterizzato da un elevato livello di protezione dei consumatori nel settore dei contratti di credito relativi ai beni immobili e al fine di garantire che i consumatori interessati a tali contratti possano confidare nel fatto che gli enti con i quali interagiscono si comportino in maniera professionale e responsabile”, con l’obiettivo (settimo considerando) di “creare un autentico mercato interno, con un livello elevato ed equivalente di protezione dei consumatori”, da perseguire essenzialmente attraverso la piena armonizzazione relativamente alle informazioni precontrattuali attraverso il formato del Prospetto informativo europeo standardizzato (PIES) e il calcolo del TAEG (tasso annuo effettivo globale).   Emerge dunque chiaramente che lo scopo principale di queste novità normative è quello di accelerare e semplificare il recupero dei crediti nell’interesse della stabilità del sistema bancario (“enforcing contracts”), rinvenendo risposte al problema delle sofferenze bancarie e alle conseguenti ricadute negative sui requisiti patrimoniali delle banche; scopo, questo, su cui si innesta la necessaria tutela del cliente-consumatore, allo scopo di evitare che l’obiettivo di efficientare il recupero dei crediti insoluti si traduca in una pressione sociale eccessiva sui debitori, in un settore particolarmente delicato e sensibile, qual è quello degli immobili residenziali, tra cui la prima casa di abitazione principale.   I commi 3, 4 e 5 dell’art. 120-quinquiesdecies del TUB attuano in particolare l’art. 28 della direttiva, relativo alla Morosità e pignoramenti, collocato nel Capo 10, relativo alla Buona esecuzione dei contratti di credito e diritti connessi. Il paragrafo 4 dell’art. 28 della direttiva prevede che “Gli Stati membri non impediscono alle parti di un contratto di credito di convenire espressamente che la restituzione o il trasferimento della garanzia reale o dei proventi della vendita della garanzia reale è sufficiente a rimborsare il credito” (il paragrafo 5 aggiunge che, “Se il prezzo ottenuto per il bene immobile influisce sull’importo dovuto dal consumatore, gli Stati membri predispongono procedure o misure intese a consentire di ottenere il miglior prezzo possibile per la vendita del bene immobile in garanzia”).  Attraverso questa previsione del diritto dell’Unione il legislatore italiano ha introdotto, con il d.lgs. n. 72 del 2016, l’istituto regolato dai commi da 3 a 5 dell’art. 120-quinquiesdecies, della cui attuazione si tratta, che, secondo l’opinione prevalente, avrebbe previsto una clausola contrattuale riconducibile al modello del così detto “patto marciano”, che si ha (in sintesi) quando il creditore, in caso di inadempimento del debitore, non diventa puramente e semplicemente proprietario della cosa ricevuta in garanzia (come accade nel patto commissorio, vietato dall’art. 2744 del codice civile: “È nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore”), ma assume l’obbligo, a garanzia del debitore, di versare al debitore la differenza tra l'ammontare del credito e l'eventuale accertato maggior valore del bene, stimato da un perito scelto dalle parti di comune accordo successivamente all'inadempimento. In disparte la questione teorica [se tale figura contrattuale abbia una causa solutoria, come surrogato dell’adempimento (una sorta di datio in solutum preventiva), oppure rappresenti un meccanismo esecutivo di natura privata e stragiudiziale, un surrogato di un’esecuzione forzata sui beni del debitore], il patto marciano è stato non da ieri ritenuto legittimo dalla prevalente giurisprudenza (Cass. 21 gennaio 2005, n. 1273; 18 marzo 2015, n. 5440; da ultimo, Id., Sez. III civ., 17 gennaio 2020, n. 844), proprio in quanto ben distinguibile dal patto commissorio. La clausola opera, in linea con il modello del “patto marciano” delineato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, come trasferimento sospensivamente condizionato all’inadempimento (in caso di previsione di “trasferimento” del bene, come regolato dall’art. 11 dello schema di decreto qui in esame), o tramite la vendita stragiudiziale a terzi del bene immobile oggetto di ipoteca (mediante esercizio, da parte del finanziatore o del professionista incaricato, del mandato irrevocabile a vendere, o mediante cura diretta della vendita da parte del debitore, come previsto dall’art. 12 dello schema di decreto).  Nel quadro delle esigenze di “enforcing contracts” e nell’ottica di una gestione “attiva” dei crediti deteriorati, è stato peraltro già introdotto nell’ordinamento italiano un istituto di “autotutela convenzionale esecutiva” del creditore, in qualche modo analogo, ancorché con un diverso ambito applicativo, costituito dal finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato, previsto dall’art. 48-bis inserito nel TUB dall'art. 2, comma 1, d.l. 3 maggio 2016, n. 59, recante Disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché a favore degli investitori in banche in liquidazione, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 giugno 2016, n. 119. Ancor prima, con il decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248 (art. 11-quaterdecies, commi 12-12-sexies), era stato previsto il prestito vitalizio ipotecario, al quale è collegato un meccanismo negoziale simile al patto marciano. Queste figure contrattuali mirano ad aprire nuovi spazi all’interno del sistema italiano, tradizionalmente imperniato sul divieto del patto commissorio e sull’accentramento dell’esecuzione delle garanzie dinanzi all’autorità giudiziaria.  Lo schema di decreto disciplina gli elementi essenziali, tutti da ritenersi necessari e inderogabili, della speciale figura di “patto marciano” introdotta dalla norma primaria, ossia: a) l’alienazione, da parte del debitore in favore della banca finanziatrice, nell’ambito di un rapporto di mutuo immobiliare ipotecario, dell’immobile residenziale acquistato e gravato da garanzia ipotecaria, sospensivamente condizionata all’inadempimento del debitore (o la programmazione di una vendita con effetti solutori, in caso di vendita stragiudiziale a terzi del bene immobile oggetto di ipoteca); b) l’obbligo della banca di versare al debitore l’eventuale eccedenza di valore del bene rispetto al debito garantito; c) la previsione della stima del bene da eseguirsi dopo l’inadempimento con garanzia di imparzialità e attendibilità; d) l’effetto esdebitativo ex lege; e) la predeterminazione ex lege di un una soglia minima di inadempimento quale presupposto di efficacia della clausola.   Ha ancora chiarito la Sezione che i commi 3 e 4 dell’art. 120-quinquiesdecies (che delimitano l’ambito contenutistico della “delega” alla norma regolamentare contenuta nel comma 5), richiedono previsioni attuative (soprattutto, se non esclusivamente, il comma 4, poiché il comma 3 si limita a stabilire, in modo specifico e autoapplicativo, i caratteri e gli effetti essenziali dalla clausola, mentre il comma 4, nel declinare ulteriori effetti della clausola, reca in parte previsioni autoapplicative [quale quella di cui alla lettera a), che vieta che il finanziatore possa condizionare la conclusione del contratto di credito alla sottoscrizione della clausola, e quella di cui alla lettera c), che definisce in maniera puntuale qual è la soglia di gravità dell’inadempimento del debitore in presenza della quale può operare la clausola], in parte previsioni, invece, che effettivamente lasciano spazio a misure attuative regolamentari [quali le residue previsioni di cui alle lettera b), che prevede che il consumatore debba essere assistito, a titolo gratuito, da un consulente, e alla lettera d), sulla scelta del perito per la valutazione dell’immobile]). In questo senso, non risulta particolarmente ampio il ventaglio delle possibili scelte discrezionali lasciate dalla legge alla presente fonte regolamentare (e dovrà conseguentemente essere attentamente valutata la possibile esorbitanza di talune previsioni regolamentari rispetto all’ambito legittimo di esercizio del potere regolamentare). 
Economia
Pubblico impiego privatizzato – Ferie – Godimento – Mancata volontaria fruizione – Conseguenza – Perdita delle ferie.        Il lavoratore che volontariamente non gode delle ferie maturate le perde (1)     (1) Come emerge dalla giurisprudenza nazionale ed euro-unitaria (causa C- 696/16 emessa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia il 6 novembre 2018) la regula juris nella materia del godimento delle ferie da parte del lavoratore è quello per cui, per un verso, il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare, trovando il proprio fondamento nell’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ed ha il medesimo valore giuridico, dei Trattati ai sensi dell’art 6 paragrafo 1 TUE: la ratio dell’esercizio dello stesso è quella di consentire al lavoratore di riposarsi dall’esecuzione dei compiti attribuiti godendo così di un periodo di relax e svago. Per altro verso, il datore di lavoro ha l’onere di assicurarsi concretamente e con trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in condizione di godere delle ferie annuali retribuite invitandolo, se necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo – in modo accurato e in tempo utile – del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato. Tuttavia, in un equilibrato contemperamento di principi ed istanze assiologiche di pari rango, il rispetto di tale onere derivante dall’art. 7 della direttiva 2003/88 non può estendersi fino al punto di costringere quest’ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare effettivamente la fruizione delle ferie annuali retribuite. Egli deve limitarsi soltanto a consentire ai lavoratori di godere delle stesse dando altresì prova di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché essi potessero effettivamente di esercitare tale diritto. L’assetto ora descritto non collide con il principio costituzionale dell’irrinunciabilità delle ferie, in quanto garantisce, comunque, un equilibrato rispetto delle esigenze organizzative dell’amministrazione e di quelle di riposo del lavoratore. Il presupposto imprescindibile per la perdita della possibilità di godimento delle ferie al di là di una determinata scadenza temporale è che il lavoratore non ne abbia goduto liberamente e consapevolmente. La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito, nel ritenere non fondata questione di legittimità costituzionale del d.l. n. 95 del 2012, art. 5, comma 8, conv., con mod. dalla l. n. 135 del 2012 (che prevede, tra l'altro: "Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione..., sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi"), che il legislatore correla il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie (sentenza n. 95 del 2016). Il Giudice delle Leggi ha precisato che la disciplina statale in questione come interpretata dalla prassi amministrativa e dalla magistratura contabile, è nel senso di escludere dall'àmbito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro. Ha chiarito la Corte costituzionale che tale interpretazione, che si pone nel solco della giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. II,   15 aprile 2019, n. 2246) e della Corte di cassazione, non pregiudica il diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma 3), dalle citate fonti internazionali (Convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro h. 132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e resa esecutiva con l. 10 aprile 1981, n. 157) e da quelle europee (art. 31, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007; direttiva 23 novembre 1993, n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, poi confluita nella direttiva n. 2003/88/CE, che interviene a codificare la materia).
Pubblico impiego privatizzato
​​​​​​​Covid-19 – Vaccino – Esenzione – Decisione finale - E' della Asl   Compete alla Azienda sanitaria locale la decisione finale in ordine alla necessità di derogare all’obbligo vaccinale in considerazione di quanto dichiarato dal medico di medicina generale nel proprio certificato (1).      (1) V. anche ordd. 24 dicembre 2021, n. 6791 e 6796.  Ha premesso la Sezione che il comma 2 dell’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, non modificato, in parte qua, dall’art. 1, comma 1, d.l. 26 novembre 2021, n. 172, ha previsto l’esenzione dall’obbligo vaccinale, con differimento o, addirittura, omissione del trattamento sanitario in prevenzione, per il solo caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale.  La Sezione ha quindi richiamato i principi espressi con sentenza 20 dicembre 2021, n. 8454, secondo cui la finalità semplificatrice delle modalità di accertamento della sussistenza delle condizioni di esonero dell’obbligo vaccinale, e la connessa realizzazione di un punto di equilibrio con la primaria responsabilità attribuita alla Azienda sanitaria locale in ordine alla efficacia del piano vaccinale (il quale sarebbe compromesso in uno dei suoi gangli principali, laddove la tutela anti-pandemica, affidata allo strumento vaccinale, fosse indebolita proprio laddove l’agente infettivo ha dimostrato maggiore virulenza e capacità mortifera, ovvero nei riguardi dei soggetti “fragili” perché affetti da patologie preesistenti e/o concomitanti), è appunto stata realizzata dal legislatore mediante l’attribuzione al medico di medicina generale di un compito di “filtro” delle “istanze” di esonero, ferma la responsabilità della stessa Azienda sanitaria di verificare l’idoneità della certificazione all’uopo rilasciata, con il corollario che non di inutile “duplicazione” si tratta, atteso il contatto “diretto” del medico di medicina generale con il paziente, e quello secondario ed indiretto (ovvero mediato dalla certificazione del medico di medicina generale) della Azienda sanitaria locale.  La Sezione ha quindi concluso ricordando che il giudizio reso dalla Azienda sanitaria locale è insindacabile da parte del giudice, che non ha la competenza tecnica per verificare, nel merito, la correttezza delle conclusioni alle quali è pervenuto l’organo sanitario ope legis deputato a decidere.
Covid-19
Covid-19 – Caccia – Attività venatoria – D.P.C.M. 26 aprile 2020 – È ammessa. Covid-19 – Molise – Caccia - Caccia di selezione al cinghiale - D.P.C.M. 26 aprile 2020 – Non è ammessa.      Dovendo considerarsi la caccia quale attività motoria di natura sportiva, essa non è preclusa dal d.P.C.M. 26 aprile 2020 che, all’art.1, comma 1, lett. f), consente appunto di svolgere individualmente attività sportiva o motoria  (1).     Nella Regione Molise, la caccia di selezione al cinghiale - prevista dal 1° maggio al 15 agosto 2020 in applicazione delle delibere della Giunta regionale del marzo 2020 - non può ritenersi consentita dal d.P.C.M. 26 aprile 2020, perché non rientra nella previsione di cui all’art. 1, lett. f), del citato d.P.C.M., che ammette l’attività motoria o sportiva esclusivamente in forma individuale; il Disciplinare approvato dalle ridette delibere prevede infatti obbligatoriamente un’organizzazione dei cacciatori in squadre  (2). (1) Il decreto ha chiarito che la caccia, qualificata come attività motoria di natura sportiva, non deve considerarsi preclusa dal d.P.C.M. 26 aprile 2020e ha aggiunto che la disposizione regionale impugnata si limita a prevedere che possano svolgere attività venatoria non più di due componenti per nucleo familiare fermo restando che anche per costoro deve valere la regola che “sia rispettato nei confronti delle altre persone il distanziamento di almeno due metri” in ossequio alle disposizioni del d.P.C.M.. (2) Il decreto ha verificato la insussistenza del danno lamentato dal ricorrente, che consisterebbe nella uccisione della fauna selvatica. Nella Regione Molise, in questo periodo e sino a tutto agosto, l’unica attività prevista è quella della caccia al cinghiale, disciplinata dalle delibere della Giunta regionale nn. 90 e 102 del 2020 che hanno anche approvato il “Disciplinare contenente le linee guida preliminariper l'esercizio della caccia al cinghiale nella Regione Molise”, il quale prevede che l’attività di caccia sia svolta collettivamente mediante la costituzione di squadre. Così stando le cose, essendo preclusa dal d.P.C.M. 26 aprile 2020 l’attività motoria collettiva, tale tipo di caccia non è ammesso e conseguentemente non sussiste, al momento, alcun rischio di uccisione della fauna selvatica.
Covid-19
Sanità pubblica - Strutture sanitarie accreditate – Budget – Individuazione – Criterio.  Processo amministrativo – Domanda di fissazione di udienza – Motivi aggiunti impropri – Necessità.             La determinazione del criterio di ripartizione dei fondi per gli enti accreditati con il servizio sanitario è espressione di ampia discrezionalità tecnico-amministrativa da parte della p.a. da esercitarsi entro i soli limiti della ragionevolezza e delle previsioni di legge; ne consegue che ogni criterio enucleato dall’Assessorato regionale, ove non irragionevole, e in linea con le previsioni normative in vigore, è da ritenersi legittimo; è pertanto legittima la quantificazione del budget che non tenga conto delle modificazioni strutturali degli operatori o al loro fatturato (1).             Sono perenti i motivi aggiunti cd. impropri ove in relazione agli stessi nessuna domanda di fissazione d’udienza sia stata proposta (2).  (1) La funzione programmatoria regionale carattere autoritativo, vincolante e d’imprescindibilità, atteso che la fissazione dei limiti di spesa rappresenta per le Regioni l'adempimento di un preciso e ineludibile obbligo, dettato da insopprimibili esigenze di equilibrio finanziario e di razionalizzazione della spesa pubblica, in modo da assicurare l'esigenza che i vari soggetti operanti nel sistema sanitario possano svolgere la loro attività in coerenza e nell'ambito di una programmazione finanziaria rigorosa (Consiglio di Stato, sez. V, 27 maggio 2008, n. 4076; sez. III, n. 1582/2014). Tali principi trovano applicazione anche nella Regione Siciliana impegnata fin dall'anno 2007 nell'attuazione del piano di rientro della spesa sanitaria (C.G.A. 15 febbraio 2021, n. 110).   (2) Ha ricordato la Sezione che i “motivi aggiunti impropri”, in quanto danno origine ad un nuovo ricorso che l’interessato, sulla base di una scelta personale, potrebbe anche proporre in via autonoma, sono soggetti alla stessa disciplina prevista per il ricorso (principio elaborato dalla giurisprudenza e recepito poi dall’art. 43 c.p.a.) e quindi richiedono la presentazione della domanda di fissazione d’udienza e il versamento del contributo unificato (v. art. 13, c. 6 bis, ult. parte, d.lgs. n. 115/2002).  D’altra parte, con riferimento ai rilievi contenuti nelle memorie depositate a seguito dell’ordinanza presidenziale ex art. 73 c.p.a., osserva altresì il Collegio quanto segue (richiamando testualmente i condivisibili principi espressi dal Tar Salerno, sez. II, n. 1597 del 2021):   - “in linea di principio, l'istituto della perenzione del giudizio ha una doppia anima, quella privatistica, legata alla constatazione di una tacita rinuncia agli atti del giudizio, e quella pubblicistica, la cui ratio è individuabile nell'esigenza di definizione delle controversie che vedano coinvolta la pubblica amministrazione nell'esercizio di poteri amministrativi; quindi, l‘estinzione del giudizio per perenzione, risponde ad un superiore interesse pubblico alla definizione delle situazioni giuridiche inerenti l'esercizio del potere amministrativo entro termini ragionevoli; in definitiva, è funzionale alla rapida definizione del giudizio, in ossequio al principio costituzionale di ragionevole durata del processo (Consiglio di Stato, sez. IV, 14/04/2020, n. 2411). Più nel dettaglio, ai sensi degli artt. 71 e 81 c.p.a. la presentazione dell'istanza di fissazione dell'udienza, entro il primo anno di pendenza del ricorso, è indispensabile per evitare la perenzione e non può essere surrogata da altro atto di procedura (Consiglio di Stato sez. IV, 06/06/2017, n. 2715)”; principi sovrapponibili al caso di specie, pur soggetto a perenzione biennale;  - “nel processo amministrativo, i motivi aggiunti impropri costituiscono una modalità alternativa rispetto alla proposizione di un nuovo ricorso, integrano una domanda impugnatoria autonoma e indipendente rispetto al ricorso introduttivo, e, quindi, instaurano un nuovo rapporto processuale; contengono precisamente una domanda nuova ed, unicamente per fini di concentrazione e economia processuale, sono proposti in un giudizio già instaurato, ben potendo però essere proposti con nuovo e separato ricorso (Tar Milano, sez. II, 06/05/2020, n. 739)”;   - “alla luce della peculiare autonomia de qua, deve ineludibilmente distinguersi tra la perenzione del ricorso originario e quella del ricorso per motivi aggiunti (Consiglio di Stato sez. IV, 07/08/2017, n. 3945); con la conseguenza per cui la perenzione del ricorso principale non si riverbera automaticamente sui motivi aggiunti c.d. impropri, non costituendo gli stessi il mero svolgimento interno del rapporto processuale sul quale s'innestano (Consiglio di Stato sez. IV, 22/09/2014, n.4768)”; e specularmente – osserva questo Collegio - la “non perenzione” del ricorso principale (come nel caso di specie) non si riverbera automaticamente (e favorevolmente) sulla ormai cristallizzata perenzione dei motivi aggiunti impropri;  Diversa è l’ipotesi in cui gli atti facevano pur sempre parte di una stessa sequenza procedimentale (ricorso introduttivo relativo al rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di un programma costruttivo residenziale e motivi aggiunti relativi alla domanda di annullamento in autotutela del provvedimento recante il diniego della proroga del titolo edilizio e la sua decadenza), mentre nel caso di specie invece siamo di fronte a procedimenti del tutto autonomi e distinti.  Invero, nella specie, di anno in anno il budget è oggetto di nuova contrattazione e contrattualizzazione e si basa su nuovi decreti assessoriali che determinano l’aggregato e le regole per la sua distribuzione (riferiti a singoli e totalmente diversi esercizi finanziari e finalizzati alla corretta allocazione delle risorse pubbliche in materia di S.S.R.), il che evidentemente non può bastare a rendere gli atti impugnati con il ricorso introduttivo (budget 2007) e quelli impugnati con il ricorso per motivi aggiunti (budget 2008), come appartenenti alla stessa sequenza procedimentale, nemmeno tenendo conto del mero occasionale incidente fattuale per cui il calcolo del budget dell’anno successivo di solito parte da una base di calcolo che fa riferimento al budget dell’anno precedente (normalmente ridotto in ragione della contrazione delle risorse disponibili nell’ambito del nuovo esercizio finanziario e nell’ottica del necessario contenimento della spesa pubblica).  In altre parole, ad avviso del Collegio, la mera occasionale connessione oggettiva e soggettiva dei motivi aggiunti impropri (relativi al budget 2008), i.e. del ricorso autonomo proposto per la via dei motivi aggiunti, con il ricorso introduttivo (relativo al budget 2007) non può bastare a legittimare la scelta del difensore di proporli nello stesso giudizio senza nemmeno farli assistere da una autonoma domanda di fissazione dell’udienza.  Invero, a seguire questa impostazione, si finirebbe per attribuire all’avvocato il potere che spetta solo ed esclusivamente al giudice (e che la granitica giurisprudenza afferma essere ampiamente discrezionale) di accogliere o non accogliere l’istanza di riunione dei ricorsi connessi (per non dire altresì che così si corre anche facilmente il rischio che vengano eluse le norme in materia di pagamento del contributo unificato, come è avvenuto anche nel caso di specie).  Pertanto, in ossequio ai generali principi immanenti al processo, i motivi aggiunti non possono che essere dichiarati perenti, difettando agli atti, l’autonomo deposito, nel termine di legge, dell’istanza di fissazione dell’udienza, riferita specificamente, appunto, agli atti relativi al budget 2008.  La piena rispondenza delle suesposte considerazioni a consolidati principi generalissimi del processo amministrativo e finanche civile (v. art. 39 c.p.a.), esclude in radice qualsiasi possibilità di riconoscimento – d’ufficio - dell’errore scusabile (comunque non richiesto). 
Processo amministrativo
Processo amministrativo - Rito appalti – Annullamento dell’aggiudicazione –  Sorte del contratto - Individuazione.   Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Offerta – Omessa indicazione separata degli oneri della sicurezza – Condizione.                Ai sensi dell’art. 122 c.p.a. , il giudice può regolare gli effetti dell’inefficacia del contratto, salvo che dall’annullamento dell’aggiudicazione derivi la ripetizione della gara; tale disposizione va però coordinata con l’art. 34  c.p.a., che consente di adottare le misure necessarie a tutelare le situazioni giuridiche dedotte in giudizio e che, attesa la sua valenza generale ed atipica, si applica anche al rito appalti, risolvendosi essa in uno strumento di effettività di tutela che si affianca armonicamente alla statuizione prevista dall’art. 122 (e che, a ben vedere, ne integra una ipotesi applicativa tipica) la cui natura costitutiva ne risulta così ampliata (1).             Il ricorso al soccorso istruttorio è ammesso se la mancata indicazione separata nell’offerta degli oneri della sicurezza dipende dalla erronea qualificazione, nella lex specialis, della natura dell’appalto da parte della stazione appaltante, che induca ragionevolmente la concorrente a confidare nella natura solo o prevalentemente intellettuale del servizio (2).   (1) Ha chiarito il Tar che la fondatezza di entrambi i gravami, principale e incidentale, comporta l'annullamento dell'aggiudicazione, ma con l'importante differenza che l'accoglimento del ricorso imponeva la riedizione della gara ai fini del soccorso istruttorio; mentre, la fondatezza del ricorso incidentale comportava l'esclusione della ricorrente principale dalla gara. Si è così determinato un assetto di interessi nel quale la riedizione del procedimento derivava dall'annullamento dell'aggiudicazione nel solo interesse dell'Amministrazione e della controinteressata, unica concorrente rimasta in gara e già titolare del relativo contratto di appalto, che medio tempore era stato stipulato. Secondo i consueti principi validi per la giurisprudenza nazionale prima della richiamata sentenza della Corte di Giustizia UE, 5 settembre 2019, tale condizione non si sarebbe verificata, in quanto il ricorso avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile per carenza d'interesse - risultando la ricorrente da escludersi dalla gara - con conseguenza conferma dell'aggiudicazione impugnata ed intangibilità del contratto di appalto. A seguito del superamento dell'effetto escludente del ricorso incidentale, invece, l'annullamento dell'aggiudicazione comportava comunque la dichiarazione di inefficacia del contratto, con rischio di perdita - nelle more della riedizione del procedimento - dei finanziamenti e di compromissione degli scopi dell'iniziativa pubblica alla quale l'appalto era preordinato. A tale proposito, la disciplina in tema di inefficacia del contratto di cui all'art. 122 c.p.a. nella parte in cui esclude la possibilità di regolare la decorrenza dell'inefficacia del contratto per il caso in cui dall'annullamento dell'aggiudicazione consegua la riedizione del procedimento, è stata evidentemente ritenuta insufficiente dal giudice amministrativo in quanto la norma appare pensata per un contesto processuale nel quale la ripetizione della gara interviene in favore della ricorrente, e non, come nel caso di specie, della sola controinteressata ricorrente incidentale.  Il Tar ha dunque ritenuto di modulare l'applicazione dell'art. 122 c.p.a. - che consente al giudice di regolare la decorrenza della dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito dell'annullamento dell'aggiudicazione - integrandone la fattispecie normativa con la previsione generale di cui all'art. 34 c.p.a., così da consentire il coordinamento della decorrenza dell'inefficacia dal contratto con l'esito della ripetizione della gara e farne salvi gli effetti nelle more. Si tratta di una soluzione evidentemente rivolta ad assicurare il ripristino della legalità violata, coniugandola con le esigenze pubbliche di celerità ed efficienza nell'aggiudicazione degli appalti e con la connessa esigenza di tutela delle ragioni dell'economia. La sentenza in commento rappresenta, così, un caso particolare, degno di nota, in quanto, da  un lato, è relativa ad una fattispecie nella quale si denota la criticità dell'assetto processuale derivante dal superamento dell'effetto processuale tipico del ricorso incidentale "escludente"; ma dall'altro evidenzia altresì la duttilità dello strumento processuale offerto dall'art. 34 c.p.a., il cui ragionevole utilizzo, da parte del giudice amministrativo, si presta a prevenire contrasti tra legalità ed efficienza, coniugandoli adeguatamente nel caso concreto.   (2) La Sezione ha riconosciuto che la lex specialis non prevedeva in alcun modo l'obbligo di indicare i costi di sicurezza e che dubbia era da ritenersi la stessa qualificazione dell'appalto in termini di servizi a natura intellettuale (che come tali non richiedono l'indicazione separata dei costi della sicurezza), con la conseguenza che ha ritenuto giustificabile l'omissione della concorrente ed applicabile il soccorso istruttorio, in forza, ancora una volta, dei principi eurounitari e della giurisprudenza della Corte di Giustizia (Corte giustizia UE , sez. IX , 2 maggio 2019 , n. 309)
Contratti della Pubblica amministrazione
Accesso ai documenti – Diritto - Interpretazione di norme giuridiche per la cui risoluzione l’accesso non è indispensabile – Esclusione.              In tema di accesso ai documenti amministrativi, non è assistita da un interesse legittimante la richiesta di accedere a documenti e informazioni che sarebbero utili al richiedente nella sola ipotesi di esito favorevole di un giudizio, già pendente, che abbia a oggetto unicamente questioni di interpretazione di norme giuridiche per la cui indispensabile (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che secondo la disciplina ositiva del diritto di accesso, da intendersi come situazione soggettiva strumentale per la tutela di situazioni sostanziali (Cons. Stato, ad. pl., 18 aprile 2006, n. 6), sul piano della logica difensiva viene “comunque” garantito l’accesso, entro gli stringenti limiti in cui la parte interessata all’ostensione dimostri la necessità (o la stretta indispensabilità per i dati sensibili e giudiziari), la corrispondenza e il collegamento tra la situazione che si assume protetta ed il documento di cui si invoca la conoscenza.  In particolare, come di recente statuito dall’Adunanza plenaria nella sentenza n. 20 del 25 settembre 2020, “la necessità (o la stretta indispensabilità) della conoscenza del documento determina il nesso di strumentalità tra il diritto all’accesso e la situazione giuridica ‘finale’, nel senso che l’ostensione del documento amministrativo deve essere valutata, sulla base di un giudizio prognostico ex ante, come il tramite – in questo senso strumentale – per acquisire gli elementi di prova in ordine ai fatti (principali e secondari) integranti la fattispecie costitutiva della situazione giuridica ‘finale’ controversa e delle correlative pretese astrattamente azionabili in giudizio. La delibazione è condotta sull’astratta pertinenza della documentazione rispetto all’oggetto della res controversa”.  Pertanto, se, da un lato, ai fini dell’accesso è sufficiente la sussistenza del solo nesso di necessaria strumentalità tra l’accesso e la cura o la difesa in giudizio dei propri interessi giuridici (art. 24, comma 7, l. n. 241 del 1990 e s.m.i.), dall’altro, vi è la necessità di circoscrivere le qualità dell’interesse legittimante a quelle ipotesi che – sole – garantiscono la piena corrispondenza tra la situazione (sostanziale) giuridicamente tutelata ed i fatti (principali e secondari) di cui la stessa fattispecie si compone, atteso il necessario raffronto che l’interprete deve operare, in termini di pratica sussunzione, tra la fattispecie concreta di cui la parte domanda la tutela in giudizio e l’astratto paradigma legale che ne costituisce la base legale (Cons. Stato, Ad. pl., n. 20 del 2020). Inoltre, il legislatore ha ulteriormente richiesto che la situazione legittimante l’accesso sia “collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, in modo tale da evidenziare in maniera diretta ed inequivoca il nesso di strumentalità che avvince la situazione soggettiva finale al documento di cui viene richiesta l’ostensione, e per l’ottenimento del quale l’accesso difensivo, in quanto situazione strumentale, fa da tramite (Cons. Stato, Ad. pl., n. 20 del 2020). Del resto, la giurisprudenza del Consiglio del Consiglio di Stato è da tempo consolidata nell’affermare la necessità, nell’ambito del diritto di accesso, del rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione, negando la ammissibilità di un controllo generalizzato, generico e indistinto del singolo sull’operato dell’amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 21 maggio 2020, n. 3212; id., sez. VI, 25 agosto 2017, n. 4074) e facendo ricadere l’onere della prova del suddetto nesso di strumentalità su chi agisce, secondo i principi generali del processo (Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2018, n. 6083; id., sez. V, 12 novembre 2019, n. 7743).
Accesso ai documenti
Contratti della Pubblica amministrazione – Bando – Clausole – Prevalgono sul contenuto del capitolato.  Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto fornitura – Fornitura standardizzata - Specifiche tecniche – Verifica - Va svolta in sede esecutiva.            Pur nell’ambito della diversa funzione svolta tra gli atti- fonti della gara, esiste tra gli stessi una gerarchia differenziata, con prevalenza del contenuto del bando di gara (o della lettera d'invito), mentre le disposizioni del capitolato speciale possono soltanto integrare, ma non modificare le prime (1).         In sede di gare per l’affidamento di un appalto di fornitura standardizzata di cui all’art. 95, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016, a differenza della verifica delle condizioni di capacità e di idoneità soggettiva dei concorrenti da effettuarsi prima del contratto, la verifica delle specifiche tecniche va svolta in sede esecutiva, con la produzione e/o l’acquisizione dei beni dopo la stipula del contratto (2).    (1) Cons. Stato, sez. III, 10 giugno 2016, n. 2497; Tar L'Aquila 1 giugno 2019, n. 280; Tar Lazio, sez. II, 18 ottobre 2019, n. 12051. (2) Ha chiarito il Tar che ai sensi dell’art. 32, comma 7, d.lgs. n. 50 del 2016 l’aggiudicazione diventa efficace dopo la verifica del possesso dei requisiti, da intendersi come requisiti generali o morali (art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016) o speciali (art. 83, d.lgs. n. 50 del 2016) posseduti dal concorrente.   E’ noto che i requisiti di partecipazione fanno esclusivo riferimento a condizioni di capacità e idoneità degli offerenti mentre i criteri di valutazione a elementi specifici dell’offerta (e non degli offerenti) in relazione al progetto da realizzare (Cons. Stato, sez. III, 11 marzo 2019, n. 1635). Ciò premesso, nessuna norma del vigente d.lgs. n. 50 del 2016 prevede invece una fase di verifica sulle specifiche tecniche ovvero su campioni rappresentativi del prodotto offerto, si che tale verifica può e deve svolgersi di norma - salvo diversa previsione nella lex specialis - in sede esecutiva. ​​​​​​​
Contratti della Pubblica amministrazione
Covid-19 – Misure di contenimento del contagio – Dispositivi di protezione personale – Validazione – Istanza – Silenzio – Illegittimità.      E’ illegittimo il silenzio opposto sull’istanza di validazione straordinaria della rispondenza dei dispositivi di protezione individuale alle norme vigenti, presentata ai sensi dell'art. 15, comma 3, d.l. n. 18 del 2020.
Covid-19
Accesso ai documenti – Riproduzione audio video – Prove orali di pubblico concorso – E’ accessibile.   Essendo la prova orale di un concorso certamente riconducibile al procedimento concorsuale, la sua riproduzione audio video deve ritenersi accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una pubblica amministrazione e concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere, senza che possa in alcun modo avere rilevanza la circostanza che si tratti di documenti non aventi ad oggetto un atto formato dalla pubblica amministrazione (1).   (1) La Sezione II ter del Tar Lazio ha accolto il ricorso di un concorrente non classificatosi tra i vincitori ad accedere alle riproduzioni audio-video delle prove orali dei concorrenti risultati vincitori. Il Tar ha pertanto affermato che riproduzione audio video di una prova orale di un concorso deve ritenersi accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una pubblica amministrazione e concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere nell’ambito del procedimento concorsuale, senza che possa in alcun modo avere rilevanza la circostanza che si tratti di documenti non aventi ad oggetto un atto formato dalla pubblica amministrazione. Quanto alla asserita lesione delle riservatezza, ha chiarito il Tar che in linea di principio sussiste il diritto ad accedere a tutti gli atti della procedura concorsuale e non vi sono limiti ai documenti ostensibili, essendo noto che le domande e i documenti prodotti dai candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi elaborati di un concorso pubblico costituiscono documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice l'esigenza di riservatezza e tutela dei terzi, posto che i concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno acconsentito a misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce l'essenza della valutazione (Tar Lazio, sez. III, 10 settembre 2013, n.8199). In ogni caso, la sentenza ha rilevato che, attesa la specifica natura dei documenti in questione (registrazioni audio-video delle prove orali), qualora dovesse profilarsi un contrasto tra esigenze di privacy dei terzi e il diritto di accesso, trattandosi di accesso per fini di necessità difensive, queste ultime dovrebbe comunque ritenersi prevalenti. Tuttavia, l’amministrazione potrà adottare accorgimenti tecnici idonei a contemperare l’interesse all’accesso e quello alla riservatezza dei terzi.
Accesso ai documenti
Covid-19 – Sardegna – Tamponi obbligatori ai viaggiatori che sbarcano in Sardegna – ordinanza del Presidente della Regione Sardegna - Non va sospesa in via monocratica.        Non deve essere sospesa in via monocratica l’ordinanza del Presidente della Regione Sardegna che ha previsto tamponi molecolari obbligatori ai viaggiatori che sbarcano nella Regione Autonoma della Sardegna con ogni mezzo (1). 
Covid-19
Militari, forze armate e di polizia – Transito nei ruoli civili – Ferie non godute - Pagamento sostitutivo – Presupposto.      Ai sensi dell’art. 930 del Codice militare, per il personale delle Forze armate, incluso quello dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della Guardia di finanza, giudicato non idoneo al servizio militare incondizionato per lesioni dipendenti o meno da causa di servizio transitato nei ruoli civili del Ministero dell’interno e del Ministero dell’economia e delle finanze, il pagamento sostitutivo della licenza ordinaria non usufruita è legata ad una precisa condizione, individuata nell’impossibilità di fruire di dette ferie già maturate in precedenza presso l’amministrazione di destinazione  (1).   (1) Ha ricordato il Tar che dopo l’introduzione, ad opera dell’art. 5, co. 8, d.l. n. 95/2012 (modificato dall'art. 1 l. n. 135/2012 in sede di conversione e, successivamente, dall'art. 1, co. 55, l. n. 228/2012), del divieto di ‘monetizzazione’ delle ferie non godute (e analogamente dei permessi e dei riposi), esteso testualmente dalla norma anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età, si sviluppò una accesa disputa interpretativa sulla effettiva estensione della relativa portata, dubitandosi da più parti della legittimità del divieto a fronte di eventi estintivi del rapporto di lavoro non imputabili alla volontà del lavoratore. Così, nel solco di sensibile apertura tracciato, ancorché in un obiter dictum, dalla Consulta (cfr. sent. n. 286 del 2013), andò via via consolidandosi una lettura della norma volta ad escludere dal relativo perimetro di operatività, a cagione dell’estraneità alla ratio alla stessa sottesa, ‘tutte le vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro’ (Corte cost., sent. n. 95 del 2016), coerentemente peraltro con l’orientamento espresso in materia dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (per un’esaustiva ricognizione delle decisioni della giurisprudenza nazionale ed europea sull’argomento, cfr. Tar Piemonte n. 422 del 2019 nonché Tar Reggio Calabria n. 264 del 2018). La giurisprudenza della Corte Costituzionale, nel ritenere non fondata questione di incostituzionalità della norma, ebbe dunque cura di chiarire che il legislatore correla il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età) che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie. Approfondendo le problematiche applicative discendenti dalla progressiva erosione della portata del divieto de quo, la giurisprudenza amministrativa ha peraltro avuto modo di ampliarne ulteriormente le possibili deroghe, ravvisando una comune identità di presupposti in talune specifiche situazioni caratterizzate dal fatto che il lavoratore non abbia potuto, senza sua colpa, usufruire delle ferie prima dell’estinzione del rapporto di lavoro, ad esempio perché assente per malattia – o per altra causa oggettivamente non imputabile – nel periodo immediatamente precedente (Cons. St., parere n. 86 del 4 gennaio 2018; Tar Lecce, sent. n. 431 del 2018; Tar Bologna n. 535 del 2019; Tar Valle d’Aosta n. 1 del 2020). In tal modo è stato quindi riconosciuto al lavoratore il diritto di beneficiare di un'indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche quando la normativa settoriale formuli esplicitamente un divieto in tal senso, in questo modo garantendo il diritto alle ferie, come riconosciuto dalla Costituzione e dalle più importanti fonti internazionali ed europee. L’esposta evoluzione interpretativa, diretta in definitiva a mitigare il rigore caratterizzante il nuovo regime di legge, ha registrato poi una ulteriore significativa affermazione con il recente parere del Consiglio di Stato n. 154 del 2020, che ― valorizzando i principi affermati nella sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea del 20 luglio 2016 (causa C-341/15), in specie nella parte in cui ha affermato che l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, come interpretato dalla Corte, non assoggetta il diritto a un’indennità finanziaria ad alcuna condizione diversa da quella relativa, da un lato, alla cessazione del rapporto di lavoro e, dall’altro, al mancato godimento da parte del lavoratore di tutte le ferie annuali a cui aveva diritto alla data in cui tale rapporto è cessato ― ha ritenuto che le deroghe di matrice pretoria al divieto di cui all’art. 5, comma 8, d.l. n. 95 del 2012 devono essere estese anche al caso in cui l’impossibilità di fruizione delle ferie sia dipesa dal collocamento in congedo del lavoratore ‘per raggiunti limiti d’età’, trattandosi di ragione non riconducibile alla volontà del dipendente ma oggettivamente connessa al rapporto di servizio. Diverso è il caso di transito del lavoratore dai ruoli militari alle corrispondenti ‘qualifiche funzionali’ dell’amministrazione civile; il rapporto di lavoro, lungi dall’estinguersi, trova in siffatte situazioni naturale prosecuzione, peraltro per una fictio iuris ispirata a evidenti ragioni di favor per il lavoratore sempre senza soluzione di continuità, presso una diversa pubblica amministrazione. La giurisprudenza ha d’altro canto avuto modo di chiarire che tale peculiare passaggio tra pubbliche amministrazioni con diverso regime di impiego, l’uno non contrattualizzato e l’altro assoggettato alla disciplina del pubblico impiego, integra una peculiare forma di trasferimento nell'ambito della stessa Amministrazione (Tar Lazio, n. 11199 del 2015), con la conseguenza che i due periodi di servizio, quello da dipendente militare e quello da dipendente civile, si ricongiungono tra loro, a tutti i fini, sicché le ferie maturate nel primo periodo da militare possono essere godute nel secondo, da dipendente civile (Tar Bari n. 1019 del 2019). 
Militari, forze armate e di polizia
Contratti della pubblica amministrazione - appalti - esclusione - indagine penale ​​​​​​​Non è affetta da manifesta illogicità o da irragionevolezza la valutazione della stazione appaltante di escludere un concorrente da una gara d’appalto, per grave illecito professionale ex art. 80, comma 5, lett c), d.lgs. n. 50 2016, per la pendenza di un procedimento penale per i reati di cui agli artt. 318, 319 e 353 c.p.
Contratti della Pubblica amministrazione
Processo amministrativo – Covid-19 – Note di udienza ex art. 4, d.l. n. 28 del 2020 - Principio di sinteticità - Applicabilità.             Sono inammissibili, e quindi inutilizzabili, le c.d. “note di udienza” depositate avvalendosi della facoltà concessa alla parte dall’art. 4, d.l. n. 28 del 2020, perché estese 42 pagine; le note di udienza, intervenendo a ridosso dell’udienza (entro le ore 12 del giorno anteriore l’udienza), quale ultimo presidio del diritto di difesa prima di essa, e aggiungendosi all’atto introduttivo e alle memorie, devono rispettare il canone di sinteticità (e ragionevolmente non possono eccedere le tre-quattro pagine) e non possono assolvere alla funzione sostanziale della “memoria” con una elusione del termine di deposito di quest’ultima, pena la violazione del contraddittorio e un vulnus quanto all’approfondimento collegiale della causa.
Processo amministrativo
Pubblica istruzione - Concorso - Personale ATA - Direttori dei servizi generali ed amministrativi – Requisiti di partecipazione – Partecipazione di assistenti – Mancanza del titolo di studio – Possesso di tre anni di servizio – Momento del possesso - Art. 1, comma 605, l. n. 205 del 2017 – Violazione artt. 3, 51 e 97 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.                E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 605, l. 27 dicembre 2017, n. 205, in riferimento agli artt. 3, 51 e 97 Cost., nella parte in cui prevede che il requisito dell’anzianità di tre anni di servizio, necessario per la partecipazione degli assistenti, privi del titolo di studio, al concorso pubblico per l'assunzione di direttori dei servizi generali ed amministrativi debba essere posseduto alla data di entrata in vigore della legge stessa e non al momento della scadenza del termine per la presentazione della domanda stabilito dal bando (1).   (1) Premesso che, in linea generale, i requisiti per l’accesso al concorso in esame devono seguire il principio del merito, nel bilanciamento con l’obiettivo della più ampia partecipazione, nel caso di specie la norma ha inteso affiancare all’ordinario possesso del titolo di studio previsto dall’ordinamento, un requisito rilevante in termini di esperienza maturata in capo a soggetti eventualmente privi del titolo di studio; con ciò estendendo il campo di partecipazione, sulla scorta di un elemento attestante la garanzia del possesso della necessaria professionalità, acquisita in termini di esperienza. Rispetto alla regola generale in tema di concorsi, secondo cui i requisiti previsti per la partecipazione ad un concorso pubblico devono essere posseduti dai concorrenti al momento della scadenza del termine per la presentazione della domanda stabilito dal bando (cfr. art. 2 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, art. 2 comma 7, d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 e Consiglio di Stato, sez. IV, 7 giugno 2019, n. 3854), la diversa previsione di specie non trova conforto nei principi di cui al diritto vivente in materia, dando luogo ad illogicità e disparità di trattamento potenzialmente contrastanti con i principi costituzionali. Ancora di recente la giurisprudenza di questo Consiglio ha evidenziato come tali norme, in base alle quali appunto i requisiti per l'ammissione agli impieghi pubblici devono essere posseduti alla data di scadenza del termine stabilito nel bando di concorso per la presentazione della domanda, costituisca un principio generale; in base a tale principio la fissazione di una data anteriore per il possesso dei requisiti occorre che trovi fondamento in una norma di legge, dalla quale possa desumersi una particolare esigenza di pubblico interesse, ragionevolmente prevalente su quello espresso dalla citata disposizione sull'ammissione ai concorsi, pertanto tale deroga non può essere posta in un atto regolamentare (Cons. St., sez. III, 20 maggio 2019, n. 3201) Tale regola deve ritenersi espressione di un principio generale, strettamente connesso ai principi di imparzialità dell'Amministrazione e di parità di trattamento dei candidati; infatti, in coerenza col favor partecipationis nelle procedure di selezione pubbliche, la regola della necessità del possesso dei requisiti alla data di scadenza del termine per la presentazione delle domande comporta di per sé la trasparenza della determinazione amministrativa e la parità di trattamento di chi faccia parte della categoria di persone che possa partecipare alla selezione; mentre la determinazione di una data diversa, non coincidente con quella di scadenza del termine per la presentazione delle domande, implica di per sé il concreto rischio che possano esservi vantaggi solo per alcuni degli appartenenti della categoria, con esclusione degli altri e, dunque, ingiustificate disparità di trattamento; pertanto, il principio della maturazione dei requisiti alla data di scadenza della presentazione della domanda (a parte i casi espressamente previsti da una disposizione normativa) può essere derogato solo ove vi siano specifiche e comprovate ragioni di interesse pubblico, ad esempio quando si tratti di dare una ragionata esecuzione a statuizioni dei giudici ovvero qualora vi sia l'esigenza di rispettare una successione cronologica tra procedimenti collegati, o di salvaguardare posizioni legittimamente acquisite dai soggetti interessati a concorsi interni. Nel caso di specie dall’art. 1, comma 605, l. 27 dicembre 2017, n. 205 e dai relativi atti preparatori non emerge alcuna ragionevole né particolare esigenza di pubblico interesse, nei termini appena indicati, per derogare al principio generale sopra richiamato. Non solo, la stessa limitazione dà luogo ad una immediata ed evidente disparità di trattamento, sia in relazione agli altri possessori del requisito in esame, sia in specie rispetto ai possessori dell’alternativo requisito ordinario del titolo di studio, il quale, a fini di partecipazione e contrariamente al requisito in esame, può essere stato acquisito anche dopo la data dell’1 gennaio 2018 (data di entrata in vigore della legge 205 del 2017) ed entro il termine di presentazione della domanda di partecipazione. Orbene, nessuna di tali differenti discipline e trattamenti trova il proprio ragionevole fondamento in alcune specifica esigenza di interesse pubblico, nei termini sopra evidenziati dal diritto vivente.
Pubblica istruzione
Concessioni amministrative - Unione europea – Corte di giustizia dell’Unione europea – Direttiva 2014/23/UE – Applicabilità - Giochi e scommesse - Sala gioco - Proroga tecnica – Vengono rimesse alla Corte di giustizia UE le seguenti questioni pregiudiziali: se la direttiva 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, nonché i principi generali desumibili dal Trattato, e segnatamente gli artt. 15, 16, 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 3 del Trattato dell’Unione Europea e gli artt. 8, 49, 56, 12, 145 e 151 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, debbano essere interpretati nel senso che essi trovano applicazione a fronte di concessioni di gestione del gioco del Bingo le quali siano state affidate con procedura selettiva nell’anno 2000, siano scadute e poi siano state reiteratamente prorogate nell’efficacia con disposizioni legislative entrate in vigore successivamente all’entrata in vigore della direttiva ed alla scadenza del suo termine di recepimento (1); Concessioni amministrative - Unione europea – Corte di giustizia dell’Unione europea – Direttiva 2014/23/UE – Applicabilità – Giochi e scommesse - Sala gioco - Proroga tecnica –Rinegoziazione. nel caso in cui al primo quesito sia fornita risposta affermativa, se la direttiva 2014/23/UE osta ad una interpretazione o applicazione di norme legislative interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali da privare l’Amministrazione del potere discrezionale di avviare, su istanza degli interessati, un procedimento amministrativo volto a modificare le condizioni di esercizio delle concessioni, con o senza indizione di nuova procedura di aggiudicazione a seconda che si qualifichi o meno modifica sostanziale la rinegoziazione dell’equilibrio convenzionale, nei casi in cui si verifichino eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni (2); Concessioni amministrative - Unione europea – Corte di giustizia dell’Unione europea – Direttiva 2014/23/UE – Applicabilità – Giochi e scommesse - Sala gioco - Proroga tecnica – Rinegoziazione – Esclusione – Eventi imprevisti e imprevedibiliC se la direttiva 89/665/CE, quale modificata dalla direttiva 2014/23/UE, osta ad una interpretazione o applicazione di norme nazionali interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali che il legislatore o l’Amministrazione pubblica possano condizionare la partecipazione alla procedura per la riattribuzione delle concessioni di gioco all’adesione del concessionario al regime di proroga tecnica, anche nell’ipotesi in cui sia esclusa la possibilità di rinegoziare le condizioni di esercizio della concessione al fine di ricondurle in equilibrio, in conseguenza di eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni (3); Concessioni amministrative - Unione europea – Corte di giustizia dell’Unione europea – Direttiva 2014/23/UE – Applicabilità - Giochi e scommesse - Sala gioco - Proroga tecnica – Rinegoziazione – Modifica sostanziale equilibrio convenzionale - Gara pubblica – Necessità - Legittimo affidamento se, in ogni caso, gli artt. 49 e 56 del TFUE e i principi di certezza ed effettività della tutela giuridica, nonché il principio del legittimo affidamento ostino ad una interpretazione o applicazione di norme legislative interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali da privare l’Amministrazione del potere discrezionale di avviare, su istanza degli interessati, un procedimento amministrativo volto a modificare le condizioni di esercizio delle concessioni, con o senza indizione di nuova procedura di aggiudicazione a seconda che si qualifichi o meno modifica sostanziale la rinegoziazione dell’equilibrio convenzionale, nei casi in cui si verifichino eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni (4); Concessioni amministrative - Unione europea – Corte di giustizia dell’Unione europea – Direttiva 2014/23/UE – Applicabilità - Giochi e scommesse - Sala gioco - Proroga tecnica – Rinegoziazione – Esclusione - Eventi imprevisti e imprevedibili – Rischio operativo – Legittimo affidamento se gli artt. 49 e 56 del TFUE e i principi di certezza ed effettività della tutela giuridica, nonché il principio del legittimo affidamento ostino ad una interpretazione o applicazione di norme nazionali interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali che il legislatore o l’Amministrazione pubblica possano condizionare la partecipazione alla procedura per la riattribuzione delle concessioni di gioco all’adesione del concessionario al regime di proroga tecnica, anche nell’ipotesi in cui sia esclusa la possibilità di rinegoziare le condizioni di esercizio della concessione al fine di ricondurle in equilibrio, in conseguenza di eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni (5); Concessioni amministrative - Unione europea – Corte di giustizia dell’Unione europea – Direttiva 2014/23/UE – Giochi e scommesse - Sala gioco - Proroga tecnica – Canone concessorio se, più in generale, gli artt. 49 e 56 del TFUE e i principi di certezza ed effettività della tutela giuridica, nonché il principio del legittimo affidamento ostino a una normativa nazionale (quale quella che rileva nella controversia principale), la quale prevede a carico dei gestori delle sale Bingo il pagamento di un oneroso canone di proroga tecnica su base mensile non previsto negli originari atti di concessione, di ammontare identico per tutte le tipologie di operatori e modificato di tempo in tempo dal legislatore senza alcuna dimostrata relazione con le caratteristiche e l’andamento del singolo rapporto concessorio (6). Analoga rimessione alla Corte di giustizia UE è stata disposta dal Consiglio di Stato, sezione VII, con ordinanza 21 novembre 2022, n. 10263
Concessione amministrativa
Accesso ai documenti – accesso civico generalizzato – eventuale natura politica dell'atto – irrilevanza - fattispecie      ​​​​​​​Ai fini della decisione del giudice amministrativo sull’azione volta alla tutela del diritto di accesso civico, in riferimento agli accordi internazionali di cooperazione conclusi tra Italia e Gambia, l’eventuale natura politica e non amministrativa degli stessi non rileva ai fini della sottrazione alla giurisdizione amministrativa prevista, per gli atti politici, dall’art. 7, comma 1, seconda parte, cod. proc. amm., perché la detta esclusione riguarda l'impugnazione dei medesimi atti politici, ovverosia il sindacato giurisdizionale sull’esercizio del potere politico e, specularmente, sul suo mancato esercizio; sindacato che, ovviamente, non è esercitato nell’ipotesi di azione volta alla tutela del diritto di accesso civico. (1). ​​​​​​​ 1. Ha osservato il Collegio che, ove si ravvisi l’obbligo di pubblicazione ai sensi degli artt. 1 e 4 della legge n. 839 del 1984, il suo inadempimento comporti che gli accordi in questione possano essere oggetto di accesso civico semplice, poiché il più volte menzionato art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013 attribuisce a chiunque il diritto di accedere ai documenti, alle informazioni o ai dati oggetto di pubblicazione obbligatoria «ai sensi della normativa vigente» e non solo, quindi, in forza degli obblighi specificamente posti dal d.lgs. n. 33 del 2013. L’attrazione degli accordi in questione all’ambito di operatività dell’accesso civico semplice comporta, altresì, che non possono rilevare le cause di esclusione indicate dall’art. 5-bis del medesimo decreto legislativo, perché esso, ai commi 1, 2 e 3, espressamente delimita la sua operatività in relazione al solo accesso civico generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, avente ad oggetto gli atti diversi da quelli per cui il legislatore ha dettato la regola della necessaria pubblicità. Non può invece ritenersi condivisibile l’opzione ermeneutica che riconduce all’area di operatività dell’accesso civico generalizzato, per come introdotto dal decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97 (Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), non solo gli atti non oggetto di pubblicazione obbligatoria, ma anche quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria in forza di norme esterne al citato decreto e, in particolare e per quanto qui rileva, gli atti assoggettati a pubblicazione dalla legge n. 839 del 1984.
Accesso ai documenti
Interruzione del giudizio – Fallimento dell’impresa - Art. 43, comma 3, legge fallimentare – Effetto automatico del giudizio   Processo amministrativo – Termine per l’impugnazione – D.i.a. – Impugnazione - Sessanta giorni dalla conoscenza del titolo abilitativo.        La previsione dell’art. 43, comma 3 della legge fallimentare comporta un effetto interruttivo automatico del giudizio pendente in caso di fallimento di una parte nel senso che l’interruzione non dipende più dalla dichiarazione resa in giudizio dal difensore ma dalla conoscenza comunque acquisita dal giudice in quel giudizio; inoltre, tale disciplina, in caso di mancata costituzione del curatore fallimentare per la prosecuzione del giudizio, non fa venire meno la necessità che la interruzione sia comunque dichiarata nel corso del giudizio al fine di consentire la riassunzione nei confronti del fallimento (1).          La Denuncia di inizio attività in materia edilizia doveva essere contestata in giudizio da un terzo entro il termine di sessanta giorni dalla conoscenza del titolo abilitativo, comunque formato a seguito della mancata attività inibitoria del Comune, della sua lesività per il ricorrente in relazione ai vizi lamentati (2).     (1) La Sezione ha ricordato l’orientamento della Corte di Cassazione, per cui l’art. 43, comma 3, della legge fallimentare - nel testo introdotto dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che stabilisce che l’apertura del fallimento determina l’interruzione automatica del processo - va interpretato nel senso che, intervenuto il fallimento, l’interruzione è sottratta all’ordinario regime dettato in materia dall'art. 300 c.p.c., nel senso che deve essere dichiarata dal giudice non appena sia venuto a conoscenza dall’evento, ma non anche che la parte non fallita sia tenuta alla riassunzione del processo nei confronti del curatore indipendentemente dal fatto che l’interruzione sia stata o meno dichiarata (Cass. civ., sez. I, Ord., 1 marzo 2017, n. 5288). La previsione dell’art. 43, comma 3 della legge fallimentare, infatti, nel prevedere un effetto interruttivo automatico provocato dal fallimento sulla lite pendente, ha inteso sottrarre alla discrezionalità della parte colpita dall'evento interruttivo la rappresentazione dello stesso all'interno del processo, mentre il decorso dei termini previsti dall’art. 305 c.p.c., ai fini della declaratoria di estinzione presuppone, rispetto alla parte contrapposta a quella colpita dall'evento interruttivo, non solo la conoscenza in forma legale del medesimo evento, ma anche una situazione di quiescenza del processo, che si verifica per effetto della formale constatazione da parte del giudice istruttore dell'avvenuta interruzione automatica della lite, comunque essa sia stata conosciuta (Cass. civ., sez. I, 11 aprile 2018, n. 9016). Inoltre, è stato di recente anche affermato che la conoscenza del fallimento di una parte che il procuratore di altra parte non colpita dall’evento interruttivo abbia acquisito in un determinato giudizio non sia idonea a far decorrere il termine per la riassunzione di altra causa, ancorchè le parti siano assistite, in entrambi i processi, dagli stessi procuratori (Cass. civ., sez. II, 16 dicembre 2019, n. 33157).   (2) Come è noto gli orientamenti giurisprudenziali in materia di impugnazione di titoli edilizi da parte del terzo tendono a contemperare le esigenze di tutela dei terzi con il principio di certezza delle situazioni giuridiche e quindi, sotto tale profilo, anche della posizione di chi abbia ottenuto un titolo edilizio. In base alla consolidata giurisprudenza, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un titolo edilizio rilasciato a terzi viene individuata nel momento in cui i lavori hanno avuto inizio nel caso si contesti in radice l’edificabilità dell’area, mentre per le altre censure con la conoscenza cartolare del titolo e dei suoi allegati progettuali o, in alternativa, il completamento dei lavori, che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche essenziali dell’opera, l’eventuale non conformità della stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l’incidenza effettiva sulla posizione giuridica del terzo (Cons. Stato, Ad. Plen. 29 luglio 2011, n. 15; id., sez. VI, 16 settembre 2011, n. 5170; id., sez. V, 27 giugno 2012, n. 3777; id., sez. IV, 10 giugno 2014, n. 2959). Tali affermazioni vengono contemperate con la tutela delle esigenze di certezza dell’ordinamento, per cui il terzo non può essere considerato libero di decidere ad esempio se e quando accedere agli atti. La giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla luce dei principi di effettività e satisfattività, ha, infatti, cercato un punto di equilibrio tra la tutela del terzo alla luce dei menzionati principi e quello della certezza degli atti amministrativi ritenendo equo fissare il dies a quo del termine decadenziale, al momento in cui, in relazione allo stato dei lavori, sia oggettivamente apprezzabile lo scostamento dal paradigma legale. Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del completamento dell’opera quando questi non sia in condizione, in un precedente stadio d’avanzamento, di apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, se lo stato di avanzamento dei lavori sia già tale da indurre il sospetto di una possibile violazione della normativa urbanistica, il ricorrente ha l’onere di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, al fine di verificare la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività realizzativa. Non può, quindi, limitarsi ad attendere il completamento dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso. Nel sistema delle tutele, il diritto di accesso e le modalità del suo esercizio, in mancanza di una completa ed esaustiva conoscenza del provvedimento, costituiscono fattori che, così come il completamento dei lavori ed il tipo dei vizi deducibili in relazione a tale completamento, concorrono ad individuare, con riferimento al caso concreto, il punto di equilibrio tra i principi di effettività e satisfattività da una parte, e quelli di certezza delle situazioni giuridiche e legittimo affidamento dall’altra. Infatti, il principio di trasparenza, sostanzia e rende effettiva la tutela del terzo attraverso il diritto alla piena conoscenza della documentazione amministrativa, ma tale diritto rimane uno strumento che il terzo ha l’onere di attivare non appena abbia contezza od anche il ragionevole sospetto che l’attività materiale pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non conosciuto o non conosciuto sufficientemente (Cons. St., sez. IV, 21 gennaio 2013, n. 322). Quindi, se il termine di impugnazione inizia a decorrere in linea di principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell’intervento, al contempo, il principio di certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso di costruire edilizio nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati illegittimi (Cons. St., sez. IV, 28 ottobre 2015, n. 4909). Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con gli evidenziati principi ordinamentali. La giurisprudenza di questo Consiglio ha, quindi, individuato una serie di fattispecie in cui, in ragione della natura delle doglianze mosse nei confronti dell’intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e delle attività poste in essere in sede procedimentale o comunque extraprocessuale, non sussistono oggettivamente ragionevoli motivi che possano legittimare l’interessato ad una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei relativi lavori (Cons. St., sez. VI, 18 luglio 2016, n. 3191). In conclusione, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine per la impugnazione di un titolo edilizio viene individuata nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area; laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.) al completamento dei lavori o, in relazione al grado di sviluppo degli stessi, nel momento in cui si renda comunque palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, del manufatto in costruzione (Cons. St., sez. II, 12 agosto 2019, n. 5664; id., sez. IV, 26 luglio 2018, n. 4583; id. 23 maggio 2018, n. 3075); mentre la vicinitas di un soggetto rispetto all’area e alle opere edilizie contestate, oltre ad incidere sull’interesse ad agire, induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori e comunque chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio ha l’onere di esercitare sollecitamente l’accesso documentale (Cons. St., sez. II, 26 giugno 2019, n. 4390).
Processo amministrativo
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta - Dichiarazione di interesse a finanziare l'operazione - Art. 144, d.lgs. n. 163 del 2006 - Obbligo - Esclusione.   Società - Società di gestione del risparmio – Natura – Individuazione.             Le società di gestione del risparmio (SGR) sono riconducibili alle istituzioni finanziarie (non bancarie) e appartengono alla categoria degli investitori istituzionali (1).             Il comma 3-ter dell’art. 144, d.lgs. n. 163 del 2006 – secondo cui “Il bando può prevedere che l'offerta sia corredata dalla dichiarazione sottoscritta da uno o più istituti finanziatori di manifestazione di interesse a finanziare l'operazione, anche in considerazione dei contenuti dello schema di contratto e del piano economico-finanziario” – non impone l’obbligo di prevedere nel bando, a pena di esclusione, la presentazione, a corredo dell’offerta, della dichiarazione di uno più istituti finanziatori, recante la manifestazione di interesse a finanziare l’operazione, perché il legislatore, con una formula aperta, ha riconosciuto a ciascuna amministrazione la facoltà di determinarsi in proposito (2).   (1) Le società di gestione del risparmio (SGR) sono riconducibili alle istituzioni finanziarie (non bancarie) e vengono iscritte ai sensi dell’art. 36, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria – TUF) in apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia e, inoltre, appartengono alla categoria degli investitori istituzionali. D’altra parte, le richiamate disposizioni del disciplinare costituiscono coerente declinazione del combinato delle previsioni di cui agli artt. 144 e 157, d.lgs. n. 163 del 2006, così come introdotte dal d.l. 21 giugno 2013, n. 69, che trovano applicazione nella procedura di gara in esame avendo trovato adeguamento la lex specialis alle mutate esigenze, come previsto dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 1111 del 2018. Deriva, infatti, da tali norme, che le società di progetto che gestiscono concessioni possono finanziare l’opera o mediante la sottoscrizione di contratti di finanziamento o attraverso l’emissione di obbligazioni destinate alla sottoscrizione da parte degli investitori qualificati, come definiti ai sensi dell’art. 100, d.lgs. n. 58 del 1998, tra cui rientrano le SGR.     (2) Ha chiarito il Tar che per il caso in cui la lex specialis richieda che l'offerta sia corredata dalla dichiarazione sottoscritta da uno o più istituti finanziatori di manifestazione di interesse a finanziare l'operazione, lo stesso comma 3-ter, d.lgs. n. 163 del 2006 specifica che la dichiarazione stessa deve essere resa avuto riguardo anche ai “contenuti dello schema di contratto e del piano economico-finanziario”. Inoltre - sebbene tale dichiarazione non sia, per legge, qualificabile come un vero e proprio impegno negoziale a finanziare il progetto, perché ai sensi comma 3-quater tale impegno deve intervenire “entro un congruo termine fissato dal bando” (nella fattispecie entro 60 giorni dall’approvazione del progetto definitivo) - è innegabile che tale dichiarazione incida sulla formazione della volontà dell’amministrazione e, quindi, sia fonte di rilevanti effetti giuridici, seppure variabili in funzione di quanto concretamente previsto dalla lex specialis. Del resto la rilevanza di tale dichiarazione è palesata dalla giurisprudenza, anche amministrativa (Cons. St., A.P., n. 5 del 2018), che ha “individuato ipotesi in cui la c.d. responsabilità precontrattuale sussiste anche in capo al terzo, ravvisando, a certe condizioni - normalmente rappresentate dallo status professionale qualificato del terzo (intermediari finanziari, banche, professionisti, società di revisione) o, comunque, dal fatto che il terzo abbia un interesse qualificato alla positiva conclusione della trattativa - l'esistenza di un dovere di correttezza anche in capo a colui che non è "parte" rispetto ad una trattativa che si svolge inter alios”. In particolare, secondo tale giurisprudenza, “la responsabilità precontrattuale del terzo estraneo alla trattativa è stata ravvisata con riferimento alle c.d. lettere di patronage deboli, aventi contenuto meramente informativo (ad es. circa l’esistenza della posizione di influenza e circa le condizioni patrimoniali, economiche e finanziarie del patrocinato). Il patrocinante viene, infatti, ad inserirsi nello svolgimento di trattative avviate tra altri soggetti proprio al fine di agevolarne la positiva conclusione, creando così ragionevoli aspettative sul buon esito dell'operazione; la sua posizione è quindi ben diversa da quella di un terzo che "accidentalmente" venga ad interferire in una vicenda precontrattuale a lui estranea, e tale diversità è sufficiente a giustificare l'applicazione di quelle regole di diligenza, di correttezza e di buona fede, dettate proprio al fine di evitare che gli interessi di quanti partecipano alle trattative possano essere pregiudicati da comportamenti altrui scorretti (art. 1337 cod. civ.) o anche negligenti (art. 1338 cod. civ.)”. In altri termini, il legislatore con la disposizione del comma 3 ter ha previsto, a beneficio delle amministrazioni che ritengano di prevedere nella lex specialis la manifestazione di interesse dell’istituto finanziatore, la possibilità di operare già nella fase di selezione del contraente una verifica preventiva della fattibilità finanziaria del progetto; tuttavia lo stesso legislatore non ha precisato nel dettaglio il tipo ed il grado di impegno dell’istituto finanziatore, che in concreto dipendono dal modo in cui è congegnato il bando e dagli accordi preventivi che l’istituto finanziatore conclude con il concorrente. Gli effetti della manifestazione di preliminare interesse di cui al comma 3-ter sono, quindi, assimilabili (con le differenze del caso) a quelli derivanti dalle cc.dd. lettere di patronage, le quali possono essere anche qui descritte come dichiarazioni con le quali un soggetto (il cosiddetto patronnant), dotato di una particolare solidità ed autorevolezza nel settore economico in cui opera, si rivolge al creditore, o al potenziale creditore, di un ulteriore soggetto, per informarlo che ha su quest’ultimo poteri di controllo ed influenza ed, eventualmente, anche per impegnarsi ad utilizzarli, e ciò allo scopo di fornire rassicurazioni circa il buon esito dell’operazione creditizia, già in atto, o che si sta per stipulare. Infatti anche le dichiarazioni di patronage, nella corrente prassi delle garanzie cc.dd. “atipiche”, si distinguono a seconda che il patronnant si limiti a fornire alla banca informazioni rilevanti (c.d. patronage debole) oppure assuma ulteriori impegni negoziali, di varia portata (c.d. patronage forte), fermo restando che, alla luce della richiamata giurisprudenza, anche le prime possono essere fonte quantomeno di una responsabilità precontrattuale a carico del patronnant.
Contratti della Pubblica amministrazione
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara - Documento di identità – Mancanza – Conseguenza.            L’assenza della copia fotostatica del documento di identità che deve essere allegata alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, in sede di gara, non determina una mera incompletezza del documento, idonea a far scattare il potere di soccorso della stazione appaltante tramite la richiesta di integrazioni o chiarimenti sul suo contenuto, bensì la sua giuridica inesistenza, con la conseguenza che, in ossequio al principio della par condicio e della parità di trattamento tra le imprese partecipanti, l’impresa deve essere esclusa per mancanza della prescritta dichiarazione; è quindi legittima l’esclusione dalla gara del concorrente che non ha allegato alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, da unire all’offerta tecnica per attestarne un requisito, la copia fotostatica del documento di identità del dichiarante, trattandosi di omissione che, ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, non poteva essere sanata con il soccorso istruttorio (1).    (1) L’allegazione della copia fotostatica del documento del sottoscrittore dell’istanza e della dichiarazione sostitutiva, prescritta dal comma 3 dell’art. 38, d.P.R. n. 445 del 2000, è adempimento inderogabile, atto a conferire – in considerazione della sua introduzione come forma di semplificazione, volta ad alleggerire gli oneri di allegazione documentale in capo alle parti private nei rapporti con la pubblica amministrazione – legale autenticità alla sottoscrizione apposta e giuridica esistenza ed efficacia all’autocertificazione. Si tratta, pertanto, di un elemento integrante della fattispecie normativa, teso a stabilire, data l’unità della fotocopia del documento di identità e della istanza (o della dichiarazione sostitutiva), un collegamento tra l’istanza (o la dichiarazione) e il documento, nonché a comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, l’imputabilità soggettiva della dichiarazione al soggetto che la presta. Va quindi ribadito che le dichiarazioni sostitutive, per la loro giuridica esistenza ed efficacia, presuppongono, ai sensi dell’art. 38 del d.P.R. n. 445/2000, la sottoscrizione del legale rappresentante del dichiarante, resa in presenza di un dipendente addetto, ovvero, come sarebbe stato necessario nella fattispecie di cui è causa, l’allegazione di copia fotostatica, ancorché non autenticata, di un documento del sottoscrittore.   L’omessa allegazione del documento non integra una mera irregolarità della dichiarazione sostitutiva, come tale suscettibile di emenda, in quanto la dichiarazione che si presenta difforme dal modello tipico delineato dagli artt. 38 e 47, d.P.R. n. 445 del 2000 non si presta a quella valutazione di efficacia che sola le consente di sostituire il documento pubblico, in ragione della mancata instaurazione di un nesso biunivocamente rilevante tra dichiarazione e responsabilità personale del sottoscrittore che comporta la radicale improduttività di qualunque effetto giuridico di certezza.  In altri termini, l’allegazione della fotocopia di un documento di identità costituisce un elemento essenziale, in ossequio alla ratio della norma di asseverare, anche ai fini dell’assunzione di responsabilità, la provenienza delle dichiarazioni rese; viene in rilievo, nella sostanza, un minimo ineludibile di formalità, di cui la legge pretende l’osservanza a fronte dell’evidente semplificazione delle procedure. Tale adempimento, che all’evidenza richiede uno sforzo minimo e un sacrificio irrisorio e non seriamente apprezzabile da parte dell’interessato (a maggior ragione se si tratta di un operatore economico professionale, come nel caso di specie), lungi dal costituire un vuoto formalismo, costituisce piuttosto un fondamentale onere del sottoscrittore, configurandosi, nella previsione ex art. 38, comma 3, d.P.R. n. 445 del 2000, quale elemento della fattispecie normativa teleologicamente diretto a comprovare (per di più, con la valenza di monito, per il dichiarante, delle responsabilità cui va incontro in caso di dichiarazioni false) non soltanto le generalità del dichiarante, ma ancor prima l’imprescindibile nesso di imputabilità soggettiva dell’istanza (o dichiarazione) a una determinata persona fisica: tale istanza (o dichiarazione), solo se formata a norma degli artt. 38 e 47 del d.P.R. n. 445/2000, diviene un documento avente lo stesso valore giuridico di un “atto di notorietà”, in guisa tale che la mancata allegazione del documento di identità rende del tutto nulle e inefficaci le dichiarazioni sostitutive allegate alla domanda di partecipazione (non sanabili in alcun caso e certo non con le regole del soccorso istruttorio in materia di appalti), le quali devono considerarsi come del tutto omesse, ossia in violazione di legge e del bando. 
Contratti della Pubblica amministrazione
Processo amministrativo - Giudicato – Giudicato di annullamento – Riedizione del potere - Principio del c.d. one shot temperato              In applicazione del principio del c.d. one shot temperato, per evitare che l'amministrazione possa riprovvedere per un numero infinito di volte ad ogni annullamento in sede giurisdizionale, è dovere della stessa pubblica amministrazione riesaminare una seconda volta l'affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni rilevanti, con definitiva preclusione (per l'avvenire, e, in sostanza, per una terza volta) di tornare a decidere sfavorevolmente per il privato; tale principio costituisce il punto di equilibrio tra due opposte esigenze, quali la garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi (1).      (1) Ha ricordato la Sezione che nella specie il giudicato per la sua latitudine ed ampiezza permetteva di fare applicazione del principio del c.d. one shot temperato, formatosi in sede giurisprudenziale per evitare che l'amministrazione possa riprovvedere per un numero infinito di volte ad ogni annullamento in sede giurisdizionale; tanto comporta che è dovere della stessa pubblica amministrazione riesaminare una seconda volta l'affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni rilevanti, con definitiva preclusione (per l'avvenire, e, in sostanza, per una terza volta) di tornare a decidere sfavorevolmente per il privato; tale principio costituisce il punto di equilibrio tra due opposte esigenze, quali la garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi.  Al riguardo, va ricordato che tale principio è già emerso come consolidato nella giurisprudenza di questo Consiglio, come principio del c.d. one shot temperato, per evitare che l'amministrazione possa riprovvedere per un numero infinito di volte ad ogni annullamento in sede giurisdizionale.  Si ritiene quindi dovere della stessa pubblica amministrazione riesaminare una seconda volta l'affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni rilevanti, con definitiva preclusione (per l'avvenire, e, in sostanza, per una terza volta) di tornare a decidere sfavorevolmente per il privato; tale principio costituisce il punto di equilibrio tra due opposte esigenze, quali la garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi (Cons. Stato, sez. V, 8 gennaio 2019, n. 144, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321 e sez. III, 14 febbraio 2017, n. 660).  Va rilevato poi che nell’applicazione di tale principio non si deve di regola tener conto del riesame amministrativo avvenuto in ottemperanza di provvedimenti cautelari volti a consentire temporaneamente l’esercizio di attività in precedenza autorizzate, riesame che, nella specie, comportava un nuovo diniego impugnato con motivi aggiunti nello stesso processo esitato poi nell’annullamento dei due originari dinieghi oggetto del medesimo processo ma si deve invece tener conto solo dei dinieghi successivi ad un giudicato di annullamento di talché il presente processo ha in definitiva ad oggetto il secondo riesame questo sì avente effetto ( potenzialmente ) preclusivo ove fosse nuovamente oggetto di annullamento ( al fine di consentire l’approssimazione al bene della vita ).  Ciò perché l’amministrazione incorre in preclusioni (nell’ assetto disciplinare rilevante in questo contenzioso per la sua cadenza temporale) solo dopo un secondo riesame completo della fattispecie, conseguente ad un primo giudicato di annullamento.  Il ricorso poi parla del provvedimento impugnato in questa sede come terzo diniego (non casualmente e proprio al fine di richiamare a proprio favore la teorica del c.d. one shot temperato) mentre il presunto secondo diniego (in realtà solo una specificazione del primo) era stato sollecitato da un ordine cautelare volto solo a consentire le attività precedentemente autorizzate ed era il frutto di una (allora) per altri versi intatta facoltà di amministrazione attiva, conformatasi per la prima volta solamente alla formazione del giudicato CdS VI n.8017 del 2019 sicché il provvedimento impugnato in questo processo è, ai fini della teorica richiamata relativa alle modalità di ottemperanza, il secondo riesame e non il terzo ( con conseguente sua astratta maggiore latitudine).    V. anche la sentenza resa nel giudizio di ottemperanza 26 aprile 2022, n. 3154, nella quale ha affermato la Sezione che la scelta di Banca d’Italia di operare una duplice valutazione ora per allora e ora per ora, da un lato non confligge con il giudicato di cui si chiede l’esecuzione, dall’altro, risulta maggiormente garantista della posizione dell’odierna ricorrente. Infatti, l’amministrazione, pur rieditando il potere sulla scorta degli elementi forniti dall’istante in passato alla luce dei parametri indicati dalla sentenza ottemperanza, ha tenuto in considerazione, altresì, gli elementi positivi sopravvenuti attualizzando la valutazione all’oggi. 
Processo amministrativo
Covid-19 – Sanità – Strutture private - Autorizzazione ad eseguire tamponi per la rilevazione della positività al Covid-19 - Lazio – Diniego – Legittimità.      Non è irragionevole la decisione della Regione Lazio di affidare in esclusiva al servizio diagnostico pubblico tramite la rete d'eccellenza Coronet Lazio, e non ai centri diagnostici privati, i tamponi per la verifica del contagio Covid-19  (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che non è viziata da irragionevolezza la scelta regionale di apprestare un sistema diagnostico specialistico a carattere prettamente pubblico in quanto ritenuto, sulla base di plausibili argomenti, maggiormente idoneo a garantire il più tempestivo coordinamento del servizio di analisi e dei relativi flussi informativi; l’ottimale gestione di ogni possibile variabile o contingenza, anche a carattere emergenziale; l’omogeneità delle tecniche diagnostiche e, quindi, dei parametri di riferimento e di “affinamento dei risultati”; dunque, la migliore pianificazione e allocazione delle risorse e, in definitiva, la piena e più sollecita soddisfazione, nella situazione data, dell’interesse primario tutelato (diritto alla salute art. 32 Cost.), quale istanza prevalente su quelle antagoniste evocate dalla parte appellata (art. 41 Cost.) Dunque, si confrontano esigenze afferenti alla miglior tutela del diritto alla salute (32 cost), declinabili sotto la duplice forma della esclusività pubblica e della compartecipazione privata, con esigenze afferenti alla libera iniziativa e intrapresa economica privata (art. 41 Cost.), il tutto nel contesto emergenziale, che impone imperative esigenze di rapidità ed efficienza non solo nella effettuazione delle diagnosi, ma anche nel governo dei tracciamenti e nella gestione dei flussi informativi aventi ad oggetto gli esiti dell'attività di diagnosi.
Covid-19
Processo amministrativo – Eccezioni - Motivo nuovo proposto per la prima volta in appello – Avviso ex art. 73 c.p.a – Non occorre.           Nel rilevare d’ufficio l’inammissibilità di un motivo nuovo perché proposto per la prima volta in appello, non occorre dare alle parti l’avviso di cui all’art. 73 c.p.a. per le questioni rilevate d’ufficio (1).     (1) Ha chiarito il C.g.a. che lo scopo dell’art. 73 c.p.a. è di evitare le c.d. decisioni “a sorpresa” con esiti processuali non prevedibili per le parti perché relativi a questioni giuridiche dalle parti non prese in considerazione. Non si ricade in tale ipotesi quando la parte, assistita dal medesimo difensore sia in primo grado che in appello, modifica in appello la materia del contendere del giudizio di primo grado in senso additivo, con l’aggiunta di questioni mai sollevate in prime cure e che esulano dalla critica alla sentenza gravata. In tal caso la parte non può non essere consapevole della propria scelta processuale e delle conseguenze giuridiche della stessa, né può ritenersi “colta di sorpresa” dalla declaratoria di inammissibilità, essendo piuttosto essa parte a porre in essere un atto processuale “a sorpresa” che, sotto veste di riproposizione dei motivi del primo grado e di critica alla sentenza, introduce senza avviso esplicito al giudice e alle altre parti censure nuove mai esposte in prime cure. A fronte di una consapevole scelta processuale della parte, ragioni di economia processuale impongono di applicare le conseguenze processuali discendenti direttamente dalla legge, e conoscibili dalla parte, senza necessità di attivare il contraddittorio.   
Processo amministrativo
Giurisdizione – Sanità – Cure all’estero – Diniego - Impugnazione - Giurisdizione del giudice amministrativo    Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto il diniego di autorizzazione ad effettuare cure mediche all’estero, atteso che il Decreto del Ministero della Sanità del 3 novembre 1989, che disciplina la materia, delinea un potere amministrativo il cui esercizio - anche ove voglia definirsi - intermedia la situazione giuridica soggettiva del cittadino che aspira ad ottenere cure gratuite all’estero, al fine di verificare il ricorrere di alcune specifiche condizioni prese in considerazione dalla legge a tutela dell’interesse pubblico al corretto utilizzo delle risorse e al buon andamento dell’amministrazione sanitaria (1). ​​​​​​​ ​​​ (1) Cons. St., sez. III, 11 ottobre 2018, n. 5861.   La Sezione ha rilevato che la tesi, fatta propria dal giudice di primo grado, della non affievolibilità del diritto alla salute richiama la dottrina della degradabilità delle posizioni giuridiche, posizionate lungo una scala che dal grado “maggiore” del diritto soggettivo scende al grado “minore” dell’interesse legittimo per effetto dell’incisione provocata dall’azione amministrativa; essa è utilizzata per inferirne l’impermeabilità della posizione giuridica al potere, quantunque quest’ultimo sia legittimamente conferito all’amministrazione dalla legge.  La tesi, ha continuato la Sezione, è debitrice di una concezione dell’interesse legittimo largamente superata, in cui quest’ultimo è visto quale interesse occasionalmente protetto dall’ordinamento per finalità che esulano in tutto e in parte dall’interesse sostanziale cui il titolare aspira, in guisa che la massima utilità ricavabile dal processo è l’annullamento dell’atto (misura in grado di coniugare interesse pubblico e sia pur in via occasionale quello privato) e giammai il riconoscimento del bene della vita. La teoria dei diritti che non degradano, e fra questi quella dei diritti fondamentali inaffievolibili, nasce, invero, per dare tutela effettiva al “bene della vita”, in una fase storica in cui la posizione di semplice interesse legittimo non era sufficiente a cagione delle limitazioni che caratterizzavano il processo amministrativo da una parte, e per la stessa connotazione dell’interesse legittimo quale interesse non direttamente protetto dall’ordinamento dall’altra.  Ha evidenziato ancora la Sezione come la protezione dell'interesse legittimo ha nel contempo guadagnato in "effettività". ​​​​Il codice del processo amministrativo - espressamente finalizzato a garantire una tutela piena ed effettiva "secondo i principi della Costituzione e del diritto Europeo" prefigura un sistema aperto di tutele e non di azioni tipiche, “il quale riflette l'esigenza di una tutela conformata non alla situazioni giuridiche sostantive (secondo la tradizione romanistica) bensì al bisogno differenziato di tutela dell'interesse protetto, il cui grado e la cui intensità sono spesso definiti ex post dal giudice e non ex ante” (Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321). Per quanto permanga la centralità della struttura impugnatoria, il c.p.a. valorizza al massimo grado le potenzialità cognitive dell'azione di annullamento attraverso istituti che consentono di concentrare nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita, sino a prevedere l'azione di condanna al rilascio di un provvedimento quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione (art. 34 lett. c. e 31 comma 3 c.p.a.). È altresì oramai acclarato che il controllo di legittimità del giudice amministrativo importi un sindacato pieno sul fatto, (Cass. civ., S.U., 9 marzo 2020, n. 6691; id.  7 settembre 2020, n. 18592) e che, in definitiva, la giurisdizione sia piena, nel senso che il giudice ha il potere di riformare in qualsiasi punto, in fatto come in diritto, la decisione impugnata resa dall'autorità amministrativa. In questo percorso è entrata anche la Corte costituzionale. In essa è rinvenibile un chiaro e lineare percorso teso a negare che le situazioni giuridiche fondamentali possano essere, in ragione di ciò solo, sottratte al giudice amministrativa in forza del predetto assioma della inaffievolibilità delle stesse dinanzi al potere amministrativo. A partire dalla sentenza n. 204 del 2004, la Corte, basando sul principio di “parità delle situazioni soggettive” configura il giudice amministrativo come giudice ordinario degli interessi legittimi e tende a configurare la giurisdizione amministrativa come giurisdizione sulle controversie in cui sia coinvolta l’amministrazione come autorità, superando ogni possibile distinguo ancorato, in punto di giurisdizione allo, spessore e alla pregnanza dell’interesse sostanziale del quale è chiesta tutela. Questa tendenza è confermata dalla sentenza n. 140 del 2007, in cui la Corte afferma esplicitamente che non esiste alcuna norma o principio che escluda la devoluzione al giudice amministrativo della cognizione dei diritti fondamentali, i quali, sul piano del riparto, sono omologati ai diritti in genere; con la sentenza n. 35 del 2010, la Corte, giunge ad affermare che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo può riguardare “particolari materie” in cui manchi il nodo gordiano dell’intreccio tra diritti e interessi e ben può riguardare soltanto diritti purchè ineriscano ad una sfera giuridica privata interferita da un pubblico potere legittimamente attribuito. Suddetta linea di riparto è stata pienamente recepita dalle Sezioni Unite le quali hanno ribadito il "principio, già affermato da questa Suprema Corte (cfr. Cass. n. 27187 del 2007, resa a sezioni unite), secondo cui anche in materia di diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, quali il diritto alla salute (art. 32 Cost.) - allorché la loro lesione sia dedotta come effetto di un comportamento materiale espressione di poteri autoritativi e conseguente ad atti della p.a. di cui sia denunciata la illegittimità, in materie riservate alla giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi, come quella della gestione del territorio - compete a detti giudici la cognizione esclusiva delle relative controversie in ordine alla sussistenza in concreto dei diritti vantati, al contemperamento o alla limitazione di tali diritti in rapporto all'interesse generale pubblico all'ambiente salubre, nonché alla emissione dei relativi provvedimenti cautelari, che siano necessari per assicurare provvisoriamente gli effetti della futura decisione finale sulle richieste inibitorie, demolitorie ed eventualmente risarcitorie dei soggetti che deducono di essere danneggiati da detti comportamenti o provvedimenti" (Cass. civ., S.U., 5 marzo 2010, n. 5290).    La Sezione ha rilevato che non c’è nella dinamica delle posizioni giuridiche alcun fenomeno di degradazione: diritti soggettivi e interessi legittimi piuttosto convivono tutte le volte in cui l’interesse sostanziale di cui la persona è titolare è protetto nella vita di relazione e al contempo il suo godimento è conformato dalla legge attraverso la previsione di un potere pubblico che ne assicuri la compatibilità rispetto agli interessi della collettività. I diritti sociali, a differenza dei diritti di libertà, traducendosi nella pretesa di una prestazione pubblica, necessitano, a seconda del grado di impatto sugli interessi pubblici potenzialmente antagonisti e in considerazione della scarsità delle risorse economiche e materiali disponibili, di una mediazione amministrativa. Una volta che il potere è stato attribuito, è al corretto esercizio di questo che deve aversi riguardo per fornire piena tutela al titolare dell’interesse sostanziale (e in ciò risiede l’essenza dell’interesse legittimo), senza che possa darsi ultroneo rilievo alla natura “fondamentale” o “sociale” della situazione giuridica. Dinanzi alla pienezza di tutela che l’ordinamento oggi assicura, per il tramite della giurisdizione amministrativa, agli interessi fondamentali correlati ai diritti sociali, continuare a sostenere sotto l’ombrello teorico della non affievolibilità del diritto fondamentale, che il potere legalmente conferito alla pubblica amministrazione sia in quei casi inutiliter datum, equivarrebbe a qualificare la legge attributiva come incostituzionale, vieppiù irritualmente disapplicandola.      Con riferimento al caso di specie ha chiarito la Sezione che la fonte che disciplina il potere azionato dall’amministrazione è il Decreto del Ministero della Sanità del 3 novembre 1989 il quale, nel prevedere che ai cittadini italiani sono assicurate prestazioni assistenziali presso centri di altissima specializzazione all'estero, “conforma” il profilato diritto attribuendo il potere autorizzativo alle ASL sulla base della previa acquisizione del parere tecnico di un centro medico regionale di riferimento, precisando che “Possono essere erogate le prestazioni di diagnosi, cura e riabilitazione, che richiedono specifiche professionalità del personale, non comuni procedure tecniche o curative o attrezzature ad avanzata tecnologia e che non sono ottenibili tempestivamente o adeguatamente presso i presidi e i servizi di alta specialità italiani di cui all'art. 5 della legge 23 ottobre 1985, n. 595, nonché, limitatamente alle prestazioni che non rientrano fra quelle di competenza dei predetti presidi e servizi di alta specialità, presso gli altri presidi e servizi pubblici o convenzionati con il Servizio sanitario nazionale”.  La disposizione non manca di dettagliare i concetti giuridici indeterminati contenuti nell’enunciato sopra riportato, precisando che “è considerata «prestazione non ottenibile tempestivamente in Italia» la prestazione per la cui erogazione le strutture pubbliche o convenzionate con il Servizio sanitario nazionale richiedono un periodo di attesa incompatibile con l'esigenza di assicurare con immediatezza la prestazione stessa, ossia quando il periodo di attesa comprometterebbe gravemente lo stato di salute dell'assistito ovvero precluderebbe la possibilità dell'intervento o delle cure… È considerata «prestazione non ottenibile in forma adeguata alla particolarità del caso clinico» la prestazione garantita ai propri assistiti dall'autorità sanitaria nazionale del Paese nel quale è effettuata che richiede specifiche professionalità ovvero procedure tecniche o curative non praticate, ma ritenute, in base alla letteratura scientifica internazionale, di efficacia superiore alle procedure tecniche o curative praticate in Italia ovvero realizzate mediante attrezzature più idonee di quelle presenti nelle strutture italiane pubbliche o accreditate dal servizio sanitario nazionale”. Ha chiarito la Sezione che le disposizioni sopra riportate delineano un potere amministrativo il cui esercizio - anche ove voglia definirsi vincolato, sussumendo, com’è corretto che sia, le valutazioni tecniche ivi contemplate nell’area della complessità del “fatto” piuttosto che in quella della discrezionalità propriamente detta - intermedia la situazione giuridica soggettiva del cittadino che aspira ad ottenere cure gratuite all’estero, al fine di verificare il ricorrere di alcune specifiche condizioni prese in considerazione dalla legge a tutela dell’interesse pubblico al corretto utilizzo delle risorse e al buon andamento dell’amministrazione sanitaria. ​​​​​​​Sgomberato il campo dalla teoretica dei diritti non affievolibili, la fattispecie non presenta alcun tratto peculiare che possa determinarne la sottrazione alla giurisdizione del giudice amministrativo in favore della giurisdizione ordinaria. 
Giurisdizione
Criminalità organizzata – Beni confiscati – Provvedimento non definitivo – Ordinanza di sgombero – Legittimità.     La pendenza del giudizio in ordine alla non definitività del provvedimento di confisca di beni appartenenti alla criminalità organizzata non scalfisce la legittimità del provvedimento ablatorio di sgombero, dovendosi dare preminenza alla rigida natura pubblicistica del bene che, per effetto della confisca, non ne consente alcuna temporanea distrazione dal vincolo di destinazione a finalità pubbliche, neanche avuto riguardo alle esigenze abitative della famiglia  (1).   1) Cons. St. sez. III, 25 luglio 2016, n. 3324; id. 16 giugno 2016, n. 2682. Ha ricordato la Sezione che la ratio essendi della disciplina dettata dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 – recante il Codice delle leggi antimafia – in ordine alla confisca dei beni alla criminalità organizzata è quella di contrastare il fenomeno criminale, mediante l’eliminazione dal mercato, ottenuta con il provvedimento ablatorio reale, di un bene di provenienza illecita, destinandolo ad iniziative di interesse pubblico, che rientra nella piena discrezionalità dell’Amministrazione individuare. Il vincolo di destinazione impresso dalla citata normativa ai beni con riferimento ai quali sia intervenuta la confisca, che vengono devoluti al patrimonio indisponibile dello Stato, ne implica quindi l’automatico assoggettamento al relativo regime giuridico, come dettato dagli artt. 823 e seguenti del codice civile. Stabilisce, invero, la vista previsione normativa intitolata “ condizione giuridica del demanio pubblico” che “I beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano”, demandando all’autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico, la quale ha facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà. Il regime giuridico del patrimonio indisponibile dello Stato, cui soggiacciono i beni confiscati alla criminalità organizzata comporta quindi l’incompatibilità dei precedenti utilizzi del bene con la nuova natura acquisita dal bene stesso, la cui destinazione deve formare oggetto di una autonoma fase di valutazione da condursi sulla base di un complesso esame di tutti gli elementi di rilievo e delle soluzioni astrattamente percorribili, l'analisi delle quali non può essere anticipata alla diversa fase dello sgombero del bene confiscato al fine di valutare la possibilità della conservazione dell’uso in atto. Per effetto della confisca a norma della legislazione antimafia gli immobili acquisiscono, difatti, una impronta rigidamente pubblicistica, che tipicizza la condizione giuridica e la destinazione dei beni, non potendo essere distolti da quella normativamente stabilita ("finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile", ovvero "finalità istituzionali o sociali" in caso di trasferimento degli immobili nel patrimonio dei comuni). Pertanto, va riconosciuto che, a seguito dell'insorgenza del vincolo di destinazione a finalità pubbliche (che rappresenta il nucleo dell'istituto della confisca, ancor prima dell'adozione del provvedimento di individuazione della concreta destinazione prescelta dall'Amministrazione per il singolo bene di cui si tratta), il regime giuridico dei beni confiscati è assimilabile a quello dei beni compresi nel patrimonio indisponibile, i quali devono essere conseguentemente resi liberi da vincoli precedentemente esistenti, e ciò coerentemente con la natura pubblicistica acquisita dagli stessi. Stante, quindi, l’incompatibilità di precedenti diritti sui beni confiscati con la natura che gli stessi acquisiscono a seguito della confisca, l'adozione dell'ordinanza di sgombero costituisce per l'Agenzia un atto dovuto, avendo quindi la stessa il potere-dovere di ordinare di lasciare libero il bene, che ha acquisito, per effetto della confisca, la natura pubblicistica che non consente neanche una temporanea distrazione dal vincolo di destinazione e dalle finalità pubbliche, che determinano – come dianzi esposto - l'assimilabilità del regime giuridico del bene confiscato a quello dei beni facenti parte del patrimonio indisponibile. Tale potere-dovere non è in alcun modo condizionato dalla previa adozione del provvedimento di destinazione dello stesso (Cons. St., sez. III, 23 giugno 2014, n. 3169); infatti il potere/dovere di tutelare il demanio dello Stato di cui si tratta (art. 2-nonies, comma 1, primo periodo, l. 31 maggio 1965, n. 575) in via di autotutela (c.d. autotutela esecutiva) prescinde del tutto dal provvedimento di destinazione (art. 2-decies, commi 2 e 3, l. n. 575 del 1965), il quale consegue ad un diverso procedimento, da attivare successivamente alla definitività della confisca, con riferimento ad un bene, che deve risultare libero da precedenti usi e destinazioni. ​​​​​​​Solo nell’ambito della diversa fase procedimentale inerente l’individuazione della destinazione del bene potrà eventualmente essere valutata la possibilità di vendita o di affitto del bene, non potendo tali utilizzi – auspicati da parte ricorrente – essere stabiliti nella diversa fase di sgombero dell’immobile, la cui finalità è unicamente quella di rendere libero l’immobile per le destinazioni che verranno stabilite. 
Criminalità organizzata
Università degli studi – Professore ordinario e associato – Abilitazione - Partecipazione a gruppi di ricerca nazionali - Necessità.           Ai fini dell’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario, del titolo declinato al n. 3 dell’All. A al d.m. n. 120 del 2016, ovverosia la “direzione o partecipazione alle attività di un gruppo di ricerca caratterizzato da collaborazioni a livello nazionale o internazionale”, elemento imprescindibile è la dimensione non circoscritta al livello meramente locale del gruppo stesso, recte, della collaborazione ad esso, ma estesa ad una cornice partecipativa quanto meno nazionale, nel che si sostanzia la locuzione normativa di “collaborazioni a livello nazionale o internazionale” (1).     (1)  Ad avviso del Tar la ratio sottesa a tale disposizione va individuata nel premiare e riconoscere quale tiolo – si noti, di rilevante effetto, occorrendo solo tre titoli tra gli otto presi in considerazione dall’art. 5, d.m. n. 120 del 2016 – la partecipazione ad un gruppo di ricerca che si avvalga dell’apporto di professori o esperti provenienti non da un Ateneo soltanto locale, ancorché di rilievo quale l’Università “La Sapienza” di Roma, ma da Atenei situati in un ambito almeno nazionale e quindi localizzati in Regioni diverse.  Il legislatore vuole che il candidato abbia diretto o quanto meno abbia partecipato a gruppi di ricerca di respiro non locale ma quanto meno nazionale, presupponendo intuitivamente la normativa in analisi che un simile gruppo, composto da esperti promananti da Università distanti tra loro, genera maggiore e più spiccata qualificazione accademica, derivante dall’apporto in seno al gruppo, di esperienze di studio e di insegnamento che si giovano anche della diversa provenienza territoriale. Si consideri altresì che la declaratoria del titolo in analisi è la medesima valevole anche per la procedura abilitativa per la prima fascia, per la quale occorre acclarare anche il respiro internazionale del profilo dell’aspirante professore ordinario a termini dell’art. 3, comma 2, lett. b), d.m. n. 120 del 2016. Stante dunque la utilizzabilità del titolo di cui a al punto 3 dell’Allegato a all’attenzione, anche per le procedure idoneative di prima fascia, emerge con maggiore evidenza la necessità che il gruppo di studio costituente l’oggetto di tale titolo abbia una dimensione quanto meno nazionale e non meramente locale. Né l’essere stato tale gruppo organizzato “da un importante Ateneo italiano (Università La Sapienza di Roma) non solo per il numero di iscritti ma anche per il prestigio di chi vi insegna”, essendo l’invocato prestigio dell’Ateneo, elemento del tutto ignorato e non preso in considerazione dalla norma di cui al numero 3 dell’All. A al d.m. n. 120 del 2016 recante la definizione normativa del titolo della direzione o partecipazione ad un gruppo di ricerca caratterizzato da collaborazioni a livello nazionale o internazionale. Risulterebbe oltretutto, in tale ottica, ingiustamente discriminatorio che il legislatore avesse conferito maggiore rilevanza ad Atenei ritenuti di prestigio, rispetto ad altri, non constando alcuna traccia nel prisma normativo di riferimento di una pretesa “classificazione” degli Atenei della Repubblica in Atenei prestigiosi e altri meno prestigiosi, se non in discutibili ed assai opinabili distinzioni giornalistiche o pubblicistiche di settore; la qualità di un docente universitario apprezzandosi ed emergendo in sé, sulla scorta dell’assiduità, dei contenuti e della qualità della ricerca scientifica e parallelamente della sua capacità didattica piuttosto che sulla base della appartenenza ad un determinato Ateneo.
Università degli studi
Covid-19 – Lazio – Medicinali - Somministrazione – Prescrizione da parte dei medici di medicina generale – Solo in caso di accertata positività – Determina regionale – Va sospesa.          Deve essere sospesa, in considerazione del danno grave e irreparabile, la determina della Regione Lazio recante “terapia domiciliare pazienti Covid-19” nella parte in cui limita il diritto di prescrizione dei farmaci dei medici di medicina generale (Covid-19) prevedendo l’accertamento di positività all’infezione per la somministrazione delle molecole indicate  (1). 1) La Sezione in sede ante causam aveva respinto la richiesta di sospensione prevedendo che ”… la domanda di sospensione ex art. 61 c.p.a. prevede una eccezionale gravità del pregiudizio, laddove la notificazione del ricorso in tempi brevissimi consentirà la riproposizione della domanda cautelare urgente in sede ricorsuale, con assoggettamento della delibazione monocratica alla sola gravità del pregiudizio, sussistente nella specie, ove l’amministrazione regionale, nel termine di 2 giorni dalla notifica, non dimostri con memoria dedicata la legittimità della previsione, se del caso mediante lettura interpretativa della nota impugnanda legittimante la somministrazione anche in caso di conclamata evidenza della patologia nelle more dell’accertamento sanitario disposto ( tampone)”.
Covid-19
Contratti della Pubblica amministrazione – Sanzioni Anac – Imprecisioni formali – Irrilevanza.  Contratti della Pubblica amministrazione – Sanzioni Anac – Termine per formulazione di una contestazione di addebito – Decorrenza – Presupposti.       Il potere sanzionatorio esercitato dall’Anac nei confronti dei concorrenti di gara pubblica ha natura vincolata di talché, eventuali imprecisioni o deficit formali rinvenibili nel percorso procedimentale e, soprattutto, nel provvedimento sanzionatorio, non possono condurre all’annullamento del provvedimento impugnato, in applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, l. 7 agosto 1990, n. 241.           In sede di esercizio del potere sanzionatorio esercitato dall’Anac nei confronti dei concorrenti di gara pubblica - ai sensi dell’art. 40 del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio da parte dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, adottato con delibera del 26 febbraio 2014 - ciò che deve intervenire, ai fini del rispetto del termine perentorio di 60 giorni dalla acquisizione della documentazione e/o delle informazioni utili alla formulazione di una contestazione di addebito, è l'inoltro, da parte della unità organizzativa competente per i procedimenti sanzionatori, della proposta di avvio del procedimento al Consiglio dell'Autorità per acquisirne l'approvazione; mentre non rileva la data dell'approvazione della proposta da parte dell'organo deliberante, nonché quella, ulteriore, della comunicazione all'interessata (1).      (1) Ha chiarito la Sezione che in materia di tempi dei procedimenti sanzionatori affidati all'Anac, il Consiglio di Stato ha avuto modo di considerare che l'esercizio di siffatta potestà non può restare esposta sine die, ciò ostando a elementari esigenze di sicurezza giuridica e di prevedibilità in tempi ragionevoli delle conseguenze dei comportamenti e di sottolineare la necessità di evitare che i tempi dilatati del procedimento divengano ragione di insicurezza giuridica per gli interessi degli operatori economici coinvolti, sia nella fase iniziale, “quando la vicinanza della contestazione al momento di commissione del fatto addebitato è indispensabile per consentire di apprestare al meglio la difesa”, sia in riferimento alla durata complessiva del procedimento (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 3 ottobre 2018, n. 5695).  Con particolare riferimento ai tempi di avvio del procedimento di cui trattasi, questo Consiglio di Stato ha posto in risalto come il loro carattere perentorio discenda dalla natura afflittiva delle sanzioni applicate al suo esito, e risponda all'esigenza di evitare che l'impresa possa essere esposta a tempo indefinito all'applicazione delle sanzioni stesse (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13 dicembre 2019, n. 8481; id., sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2289; id. 11 giugno 2019, n. 3919).  Del resto, il Regolamento unico di cui trattasi costituisce promanazione della norma primaria di cui all'art. 8, comma 4, d.lgs. n. 163 del 2006, che stabilisce che “Il regolamento dell'Autorità disciplina l'esercizio del potere sanzionatorio da parte dell'Autorità nel rispetto dei principi della tempestiva comunicazione dell'apertura dell'istruttoria, della contestazione degli addebiti, del termine a difesa, del contraddittorio, della motivazione, proporzionalità e adeguatezza della sanzione, della comunicazione tempestiva con forme idonee ad assicurare la data certa della piena conoscenza del provvedimento, del rispetto degli obblighi di riservatezza previsti dalle norme vigenti”. ​​​​​​​Ciò posto, l'art. 40, comma 2, del Regolamento fa emergere che, ai fini del rispetto del termine perentorio di sessanta giorni di cui al primo periodo, occorre avere riguardo, da un lato, alla “acquisizione della documentazione e/o delle informazioni utili alla formulazione di una contestazione di addebiti” (dies a quo), dall'altro, “all'invio della comunicazione di avvio del procedimento in Consiglio per la necessaria approvazione” (dies ad quem); nel secondo periodo la norma stabilisce poi che, in caso di approvazione, la comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio va effettuata entro 30 giorni dal relativo deliberato.  La tempistica dell'articolato andamento procedimentale così come complessivamente delineato, nel soddisfare le esigenze “esterne” menzionate al capo che precede, riflette anche, segnatamente con il termine perentorio del primo periodo, una evidente esigenza “pura” di garanzia dell'efficienza dell'azione amministrativa.  Tanto chiarito, si osserva che, alla luce della puntuale formulazione della previsione sopra riprodotta, ciò che deve intervenire ai fini del suo rispetto è l'inoltro da parte della competente U.O.R. della proposta di avvio del procedimento al Consiglio dell'Autorità per acquisirne l'approvazione.  Non rileva, invece, la data dell'approvazione della proposta da parte dell'organo deliberante, nonché quella, ulteriore, della comunicazione all'interessata. 
Contratti della Pubblica amministrazione
Giustizia amministrativa – Espressioni sconvenienti ed offensive - Correttezza e convenienza processuale Ai fini dei presupposti per l’accoglimento dell’istanza ex art. 89 c.p.c,, le espressioni sconvenienti od offensive consistono in tutte quelle frasi - attinenti o meno all’oggetto della controversia - che: i) superino il limite della correttezza e della convenienza processuale; ii) siano espresse nei riguardi dei soggetti presenti nel processo al fine di ledere il loro valore e i loro meriti; iii) violino i principi posti a tutela del rispetto e della dignità della persona umana e del decoro del procedimento (massimo davanti ad una giurisdizione superiore); nel caso di specie non si rinviene alcuna di tali circostanze. (1) Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione abusiva – Atto di acquisizione Per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione) - salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti (di natura transattiva) o l’accertamento della intervenuta usucapione nei rigorosi limiti in cui essa sia ammissibile - mentre l’istituto della rinuncia abdicativa non può essere più considerato parte integrante dello speciale ordinamento di settore atteso il carattere autosufficiente di tale disciplina. (2) Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione abusiva – Atto di acquisizione – Restituzione del bene – Silenzio inadempimento - Commissario ad acta Con riferimento alle scelte del privato e dell’amministrazione: - nel caso in cui l’amministrazione non adotti l’atto discrezionale, il privato potrà esperire gli ordinari rimedi di tutela, compreso quello restitutorio, non residuando alcuno spazio per giustificare la perdurante inerzia dell’amministrazione; - la scelta tra acquisizione e restituzione va effettuata dall’amministrazione (o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio in materia di silenzio ai sensi degli artt. 34, comma 1, e 117, comma 3, c.p.a.), non potendo, in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alla responsabilità dell’autorità individuata dalla norma. Ne consegue che il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ai sensi dell’art. 117 c.p.a., può nominare il commissario ad acta che provvederà a esercitare i poteri previsti dalla disposizione o nel senso della acquisizione o nel senso della restituzione del bene illegittimamente espropriato; - qualora sia invocata la sola tutela risarcitoria o restitutoria prevista dal codice civile, senza richiamare l’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, il giudice deve pronunciarsi tenuto conto del quadro normativo delineato e del carattere doveroso della funzione attribuita dalla disposizione in esame all’amministrazione; resta fermo che quest’ultima potrà impedire la restituzione, potendo valutare se procedere alla restituzione del bene, previa riduzione in pristino, o all’acquisizione del bene nel rispetto di tutti i presupposti declinati dall’art. 42-bis. (3) Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione abusiva – Atto di acquisizione - Presupposti L’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 si applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico e, quindi, qualunque sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene. A tale conclusione si giunge valorizzando, sia sotto un profilo testuale che in virtù di un inquadramento logico-sistematico, la natura di norma di chiusura propria di tale disposizione, che rende evidente la finalità di ricondurre nell’alveo legale del sistema tutte le situazioni in cui l’amministrazione, quale che ne sia la causa, si trovi ad avere utilizzato la proprietà privata per ragioni di pubblico interesse, ma in difetto di un valido titolo legittimante. (4) Espropriazione per pubblica utilità – Atto di acquisizione – Concessionario – Responsabilità solidale In caso di illecito consistente nell’occupazione di immobile sine titulo sussiste la responsabilità solidale per il risarcimento del danno tra l’amministrazione pubblica committente dell’opera e il soggetto (pubblico o privato) al quale, unitamente alla realizzazione dell’opera, sia stata affidata, in virtù di delega anche il potere di gestire, in nome e per conto del delegante, il procedimento espropriativo e di emanare il decreto di espropriazione. Anche in presenza di un rapporto concessorio (pur se previsto per legge), resta sempre fermo il potere-dovere di vigilanza dell’amministrazione concedente sull’attività del concessionario, con particolare riguardo all’esercizio di poteri pubblici – e dunque anche del potere espropriativo - da parte di questi. (5)
Giustizia amministrativa
Sport – Daspo – Episodi ritenuti violenti – Assoluzione in sede penale per particolare tenuità dei fatti – legittimità del Daspo.              È legittimo il provvedimento del Questore che ha applicato la misura del Daspo quinquennale, con il divieto di partecipare agli eventi sportivi calcistici e di transitare o sostare nei pressi degli stadi o dei luoghi percorsi dai tifosi, per un episodio rispetto al quale il giudice penale ha assolto l’imputato, ritenendo i fatti “di particolare tenuità” (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che l’applicazione della misura di prevenzione appare corretta, a prescindere dall’esito del procedimento penale che lo ha riguardato.  Ed infatti, l’atto di attraversare la folla diretta allo stadio, agitando un fumogeno acceso e lasciandolo, sempre acceso, in prossimità di un cancello di ingresso gremito di pubblico, costituisca attività tutt’altro che “festosa”, come è stato affermato, bensì gravemente pericolosa per l’incolumità di coloro che si apprestavano, in fila, ad avvicinarsi al cancello ed a oltrepassarlo per assistere alla partita.  Infatti, seppure la “particolare tenuità” è stata ritenuta dal giudice penale ai fini della assoluzione, nella diversa ed autonoma sede della prevenzione, il Questore ben poteva, come ha fatto, ritenere che l’azione dell’appellante avesse i connotati della pericolosità per l’ordine e la sicurezza pubblica, stante i connotati temporali e locali in cui l’azione stessa si è svolta.  Va poi sottolineato che l’appellante era già stato, in anni anteriori, destinatario di altro Daspo per anni uno, per il compimento di azione del tutto analoga – possesso di artifizi pirotecnici in prossimità dello stesso stadio prima dell’inizio di altra partita della squadra Sampdoria – e ciò consente di ritenere non solo proporzionata, ma anzi doverosa la misura di Daspo quinquennale contestata.  Tale esito è imposto dalla legge, che prevede (art. 6, l. 13 dicembre 1989, n. 401, nel testo novellato ex d.l. 22 agosto 2014, n. 119) un provvedimento di durata minima “non inferiore a cinque anni e non superiore a otto anni” a carico di coloro che avessero già riportato il divieto di cui al suddetto art. 6, comma 2.  Nel caso all’esame della Sezione il Questore ha tenuto conto dei connotati dell’azione – nel graduare la valutazione di ritenuta, e sussistente, pericolosità – giacché la misura applicata è stata in concreto un Daspo quinquennale, consentendo la legge allo stesso Questore di applicare il divieto per una durata fino ad otto anni.  Il Consiglio di Stato ha poi giudicato manifestamente destituite di fondamenti le censure di costituzionalità delle disposizioni applicate alla fattispecie.  Ha premesso che l’appellante pretenderebbe, con tali censure, una distorta applicazione delle norme costituzionali richiamate, che gli artt. 6, 6-bis e 6-ter, l. n. 401 del 1989 mirano al contrario a seguire correttamente, giacché il fine di prevenzione di ogni comportamento pericoloso in occasione di eventi sportivi conferma, e non certo viola, i principi di eguaglianza, libertà di circolazione, necessità di adeguata valutazione prima di applicare ogni misura restrittiva o limitativa.  L’equivoco di fondo dell’appellante, persona avvezza ad interpretare il principio della sana partigianeria sportiva in senso fazioso ed estremistico – come è tipico dei cd. “club ultras” – è quello di ritenere che le disposizioni costituzionali da lui stesso a sproposito invocate tutelino le manifestazioni di pericoloso estremismo delle minoranze di ultras piuttosto che – come invece deve essere secondo la Costituzione e le norme di prevenzione applicate – il diritto incomprimibile dei tifosi pacifici e della stragrande maggioranza di appassionati del calcio che desiderano avvicinarsi agli stadi, entrarvi e assistere alle competizioni senza timore che, come nella fattispecie e accaduto, un fumogeno acceso lasciato accanto a loro per terra ne metta a rischio l’incolumità.  Le censure, come già detto, cadono, in quanto la pericolosità in concreto è stata non solo ritenuta e accertata, ma anche ponderata quanto alla applicazione della misura preventiva tra il minimo e il massimo di durata consentita dalla legge, attestandosi sul minimo imposto dal legislatore per il caso in esame. 
Sport
Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione - Occupazione acquisitiva - Rinuncia abdicativa – Configurabilità – Esclusione.   Per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata (1).   (1) La questione era stata rimessa dalla sez. IV con ord., 30 luglio 2019, n. 5391. Ha chiarito l’Adunanza plenaria che per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis una rigorosa applicazione del principio di legalità, in materia affermato dall’art. 42 della Costituzione e rimarcato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, richiede una base legale certa perché si determini l’effetto dell’acquisto della proprietà in capo all’espropriante. E se la norma non prevede alcun riferimento a un’ipotesi di rinuncia abdicativa – che, peraltro, così delineata, avrebbe tutti i caratteri strutturali e gli effetti di una rinuncia traslativa- è stato per converso introdotto nell’ordinamento una disciplina specifica e articolata che attribuisce all’amministrazione una funzione autoritativa in forza della quale essa può scegliere tra restituzione del bene o acquisizione della proprietà nel rispetto dei requisiti sostanziali e secondo le modalità ivi previsti. Nessuna norma attribuisce per contro al soggetto espropriato, pur a fronte dell’illegittimità del titolo espropriativo, un diritto, sostanzialmente potestativo, di determinare l’attribuzione della proprietà all’amministrazione espropriante previa corresponsione del risarcimento del danno. Inoltre, poiché l’art. 42-bis dispone che il titolo di acquisto possa essere l’atto di acquisizione (espressione di una scelta dell’autorità), si ritiene che non si possa attribuire alcun rilievo a tal fine a un atto diverso, vale a dire al successivo atto di liquidazione del danno, peraltro emanato in esecuzione di una sentenza; in altre parole, né dall’art. 42-bis né da altra norma può ricavarsi l’attribuzione dell’effetto giuridico di rinuncia abdicativa alla fattispecie complessa derivante dalla coesistenza della sentenza di condanna e dell’atto di liquidazione del danno. Invero, per l’art. 42-bis l’autorità può acquisire il bene con un atto discrezionale, in assenza del quale scattano gli ordinari rimedi di tutela, compreso quello restitutorio, non residuando alcuno spazio per giustificare la perdurante inerzia dell’amministrazione, che non solo apprende in modo illecito il bene del privato, ma che attraverso una propria omissione (non esercitando il potere all’uopo previsto dalla legge) finirebbe per ottenere la proprietà del bene stesso ancora una volta al di fuori delle procedure legali previste dall’ordinamento. La scelta, di acquisizione del bene o della sua restituzione, va effettuata esclusivamente dall’autorità (o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio d’ottemperanza, ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 c.p.a): in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alle responsabilità dell’autorità individuata dall’art. 42-bis. Pertanto, il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’Amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a., può nominare già in sede di cognizione il commissario ad acta, che provvederà ad esercitare i poteri di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327-2001 o nel senso della acquisizione o nel senso della restituzione del bene illegittimamente espropriato. Qualora, invece, sia invocata solo la tutela (restitutoria e risarcitoria) prevista dal codice civile e non si richiami l’art. 42-bis, il giudice deve pronunciarsi tenuto conto del quadro normativo sopra delineato e del carattere doveroso della funzione attribuita dall’articolo 42bis all’amministrazione. Non sarebbe peraltro ammissibile una richiesta solo risarcitoria, in quanto essa si porrebbe al di fuori dello schema legale tipico previsto dalla legge per disciplinare la materia ponendosi anzi in contrasto con lo stesso. Il che non significa che il giudice possa nondimeno, ove ne ricorrano i presupposti fattuali, accogliere la domanda. A ben vedere, infatti, la domanda risarcitoria, al pari delle altre domande che contestino la validità della procedura espropriativa, consiste essenzialmente nell’accertamento di tale illegittimità e nella scelta del conseguente rimedio tra quelli previsti dalla legge. E’ infatti la legge speciale, nel caso di espropriazione senza titolo valido, a indicare quali siano gli effetti dell’accertata illegittimità: il trasferimento non avviene per carenza di titolo e il bene va restituito. La restituzione può essere impedita dall’amministrazione, la quale è tenuta, nell’esercizio di una funzione doverosa (e non di una mera facoltà di scelta) a valutare se procedere alla restituzione del bene previa riduzione in pristino o all’acquisizione del bene nel rispetto di tutti i presupposti richiesti dall’articolo 42 bis e con la corresponsione di un’indennità pari al valore del bene maggiorato del 10 per cento (e quindi con piena e integrale soddisfazione delle pretese dell’espropriato). Ad ogni modo, l’ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali. Resta poi fermo che la qualificazione delle domande proposte in giudizio passa attraverso l’interpretazione dei relativi atti processuali, rimessa al giudice investito della decisione della controversia nel merito.
Espropriazione per pubblica utilità
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento - Esperienze professionali pertinenti – Limiti.   Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento – Contratto tipico – Teoria della cd. causa concreta – Applicabilità.             L'esercizio dell’avvalimento può essere limitato, in circostanze particolari, tenuto conto dell'oggetto dell'appalto in questione e delle finalità dello stesso; in particolare, ciò può avvenire quando le capacità di cui dispone un soggetto terzo, e che sono necessarie all'esecuzione di detto appalto, non siano trasmissibili al candidato o all'offerente, di modo che quest'ultimo può avvalersi di dette capacità solo se il soggetto terzo partecipa direttamente e personalmente all'esecuzione di tale appalto (1).            Il contratto di avvalimento che trova una sua compiuta definizione nell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016 deve ritenersi “tipico”; l’autonomia contrattuale è condizionata dagli obiettivi fissati dalla norma che le parti contrattuali devono perseguire all’atto della stipula del contratto di avvalimento; da ciò consegue che lo schema contrattuale definito dalla norma contenuta nell’art. 89, d.lgs. n. 50 del 2016 non può essere in alcun modo alterato; è necessario, infatti, che attraverso il contenuto specifico del contratto di avvalimento prescritto dal Codice dei contratti pubblici, si offra alla Stazione appaltante una garanzia di solidità del concorrente oltre che di corretta esecuzione dell’appalto ed in determinati casi, anche di un particolare standard di qualità dell’esecuzione dello stesso; ai fini della valutazione della causa in concreto, il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta, da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal procedimento     (1) Corte giust. Comm. Ue 7 aprile 2016, C-324/14. La tesi in oggetto è fatta propria dal più recente orientamento del Consiglio di Stato (sentenza n. 2019 del 2191); il giudice di appello, pronunciandosi in una fattispecie avente ad oggetto un appalto di servizio mensa, ha ritenuto anche la necessaria esperienza pregressa elemento prescritto “per eseguire l’appalto con un adeguato standard di qualità” (secondo la lettera dell’art. 83, comma 6, del Codice dei Contratti pubblici). Inoltre ha rimarcato che “ Né la nozione di “esperienze professionali pertinenti” può essere riferibile solo a prestazioni che richiedono l’impiego di capacità non trasmissibili, come avviene negli appalti aventi ad oggetto servizi intellettuali o prestazioni infungibili: in disparte la considerazione per cui anche il servizio oggetto dell’appalto in questione richiede competenze professionali specialistiche e l’impiego di figure professionali qualificate, la lettera della norma e soprattutto la ratio dell’istituto non autorizzano affatto una siffatta opzione ermeneutica. Se, infatti, gli operatori economici possono soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale necessari a partecipare ad una procedura di gara “avvalendosi delle capacità di altri soggetti”, ovvero mediante il trasferimento delle risorse e dei mezzi di cui l’ausiliata sia carente, l’ipotesi contemplata dal secondo capoverso dell’articolo 89 contiene una disciplina più stringente e rigorosa, stabilendo che per i criteri relativi alle indicazioni dei titoli di studio e professionali o esperienze professionali pertinenti “tuttavia” (i.e. in deroga al regime ordinario) gli operatori possano avvalersi della capacità di altri soggetti “solo” se (i.e. a condizione che) questi ultimi eseguano direttamente i lavori o i servizi per cui tali capacità sono richiesti (senza operare alcuna distinzione in base alla natura intellettuale o materiale del servizio da espletarsi). Ha rilevato nella fattispecie il Giudice di appello che :” con il contratto di avvalimento in esame si è, infatti, convenuto tra le parti l’obbligo dell’ausiliaria di mettere a disposizione, in relazione all’esecuzione dell’appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, e precisamente: a) i propri manuali tecnico/operativi, le proprie procedure operative, istruzioni operative, schede di registrazione- report inerenti l’organizzazione e conduzione di servizi di ristorazione, i propri protocolli di formazione e addestramento del personale, nonché il know how maturato in tali settori mediante la consegna di tutta la predetta documentazione sopracitata e la previsione di giornate di affiancamento; b) l’interfacciarsi di figure professionali dell’ausiliaria (il Responsabile della produzione, il Responsabile degli acquisti, il Responsabile dell’amministrazione del personale e delle relazioni sindacali) con le corrispondenti figure professionali già presenti all’interno dell’organizzazione dell’ausiliata, al fine di trasferire il proprio know how mediante la previsione di giornate di affiancamento.” Conclusivamente, nel caso di specie, il contratto di avvalimento aveva ad oggetto il prestito del requisito di “esperienza pregressa”, dal che discendeva la necessità dell’impegno dell’ausiliaria ad assumere un ruolo esecutivo nello svolgimento del servizio, e non solo a trasmettere all’ausiliata il Know how e la struttura organizzativa dall’esterno.”   (2) Quanto alla teoria della causa concreta della causa in concreto e la giurisprudenza della Terza sezione civile della Corte di Cassazione. Osserva in proposito il Collegio che va fatto ricorso alla teorica della causa in concreto del contratto, elaborata dalla Terza sezione civile della corte di Cassazione, a partire dalla sentenza del 2006 numero 10.490, che ha inaugurato un nuovo corso nella valutazione dell’elemento causale del contratto. Da tempo la giurisprudenza della Corte di Cassazione ed in particolare la Terza sezione civile è giunta ad un progressivo abbandono della tradizionale teorica della causa come funzione economico sociale del contratto ,ovvero cosiddetta causa in senso astratto, per approdare ad un’interpretazione della causa come funzione economico individuale, superando una visione di carattere puramente oggettivistico. Si è infatti rilevato che nella prospettiva dello Stato autoritario in cui vide luce il codice del 1942, la concezione pubblicistica della causa come funzione economico sociale, inserita in un’ottica tesa a controllare anche le relazioni contrattuali tra privati, identificando causa e tipo ,escludeva la possibilità di esistenza di un contratto tipico con causa illecita. Una siffatta impostazione di stampo estremo oggettivistico ha comportato critiche sin dalla dottrina che si è sviluppata nel clima post costituzionale, ove si proponeva una maggiore attenzione alla funzione concreta della singola e specifica negoziazione. Tuttavia, tranne alcune isolate pronunce in giurisprudenza, la consapevole e matura adesione alla teoria della causa concreta è stata inaugurata solo dopo molto tempo, e segnatamente dalla storica sentenza della Cassazione Terza sezione civile numero 10.490 del 2006, che ha ammesso la possibilità di nullità di un contratto tipico per mancanza di causa concreta. In tal sede si è affermata la nullità per difetto di causa del contratto tipico di consulenza delineato dall’articolo 2222 c.c., stipulato da un soggetto in favore di una società, attività a cui tuttavia lo stesso era tenuto in adempimento dei propri doveri di amministratore della stessa, e per la quale perciva il relativo compenso. La Suprema Corte ha dunque rilevato che di fatto in concreto lo scambio di quella attività di consulenza a titolo oneroso, essendovi il soggetto già tenuto ad altro titolo, era priva di causa , facendo leva proprio sulla causa intesa come “fattispecie causale concreta“, che discende da una “serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio“. Secondo la teorica fatta propria dalla corte di Cassazione la causa in concreto è “sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (aldilà del modello, benché tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragioni concrete) della dinamica contrattuale, si badi e non anche della volontà delle parti. Causa dunque ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga al fine di cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso con i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale“. Tali coordinate ermeneutiche non comportano un ritorno alla concezione soggettiva della causa, per la evidente la necessità di sottolineare l’interesse sociale che il singolo contratto intende perseguire, segnatamente l’insieme degli interessi rilevanti nel complesso dell’operazione economica, con il ripudio della causa del contratto come strumento di controllo della sua utilità sociale, facendosi invece valere la stessa quale elemento di verifica degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare. A riprendere significativamente tale concetto la S.C. è intervenuta con una serie di pronunce merito alla responsabilità da vacanza rovinata (Cassazione terza sezione civile 24 luglio 2007 numero 16.315), ove si è data piena cittadinanza alla finalità nel contratto dello scopo concreto stabilendo che “la finalità turistica o “scopo di piacere “....non è un motivo irrilevante ma si sostanza nell’interesse che lo stesso è funzionalmente rivolto a soddisfare, connotandone la causa concreta e determinando perciò l’essenzialità di tutte le attività e dei servizi strumentali alla realizzazione del preminente scopo vacanziero“. (Fattispecie in cui è stata dichiarata la nullità di un contratto di cd. pacchetto turistico per due settimane all’estero in presenza di un’epidemia in atto nel luogo di destinazione; in tal senso altresì Cassazione sezione terza 20 dicembre 2007 n.26.958). Ancora successivamente la Terza sezione civile (sentenza 20 marzo 2012 numero 4372) individua come essenziale l’offerta di tutte le prestazioni contenute nel pacchetto di viaggio (nella specie esaminando la possibilità di effettuare immersioni subacquee rivelatasi impraticabile durante il periodo del soggiorno del turista in quel luogo), così avendo modo di ribadire che la causa non può più essere intesa in senso astratto, svincolata dalla singola fattispecie contrattuale e si identifica nella funzione economico individuale del singolo specifico negozio. In tal modo si è progressivamente abbandonata la teoria della causa come funzione economico sociale del contratto, con notevoli riflessi anche sui principi costituzionali che danno rilievo all’interesse concretamente perseguito dalle parti ovvero alla cosiddetta ragione pratica dell’affare, calandosi nell’attuale contesto socio economico e nella realtà delle contrattazioni tra privati, spesso tale da coinvolgere anche più generali principi di buona fede ed affidamento. La Suprema Corte ha successivamente accolto la nozione di causa concreta anche al di là dei contratti di viaggio turistico (cfr. Cass.n. 24.769 del 2008 che ha affermato la nullità di contratto di locazione di un fondo sottoposto a vincolo di destinazione ad uso boschivo in quanto ne prevedeva l’utilizzazione in spregio al vincolo stesso e quindi un contrasto della causa concreta del contratto con le norme di legge). Egualmente la pronuncia della Cassazione Sezioni unite n. 26.972 del 2008, intervenendo sul significativo aspetto della categoria del danno esistenziale, ha affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile quando il contratto sia rivolto alla tutela di interessi non patrimoniali, la cui individuazione deve essere condotta accertando la causa concreta del negozio nel senso chiarito dalla storica Cassazione sezione terza n. 10.490 del 2006. Ancora più recentemente in tema di mutuo di scopo (Cassazione sezione I ordinanza numero 26.770 del 2019), si è rilevato che l’utilizzo delle somme erogate per finalità diverse da quelle previste nel contratto (nella specie per ripianamento di pregressa esposizione anziché per l’acquisto di un immobile) comporti la deviazione della causa concreta rispetto a quella specificamente convenuta con conseguente nullità del contratto. La finalità cui l’attribuzione delle somme era preordinata entra dunque nella causa concreta del contratto, per cui l’oggettiva deviazione dallo scopo determina la carenza di causa concreta del contratto, nonostante sia stato adoperato un contratto tipico ( in termini altresì Sez. 1, n. 15929/2018 ). Il principio è stato poi affermato dalle Sez. U, n. 22437/2018, nel contratto di assicurazione per la responsabilità civile con clausole “claims made”. Tale decisione - dopo aver premesso che il modello “claims made” si colloca ormai nell’area della tipicità legale, rifluendo nell’alveo proprio dell’esercizio dell’attività assicurativa, ha ritenuto tuttavia necessario che la clausola “on claims made basis”, con la quale il pagamento dell’indennizzo è subordinato al fatto che il sinistro venga denunciato nel periodo di efficacia del contratto, «rispetti, anzitutto, i “limiti imposti dalla legge”, secondo quella che suole definirsi “causa in concreto” del negozio». In tal senso, hanno precisato le Sezioni Unite, l’indagine è volta ad accertare l’adeguatezza del contratto agli interessi concreti delle parti. Sul punto la sentenza osserva che l’analisi del sinallagma del contratto assicurativo costituisce un adeguato strumento per verificare se ne sia stata realizzata la funzione pratica di assicurazione dallo specifico pregiudizio, e ciò al fine non di sindacare l’equilibrio economico delle prestazioni (profilo rimesso esclusivamente all’autonomia contrattuale), ma di indagare se lo scopo pratico del negozio presenti un arbitrario squilibrio tra rischio assicurato e premio, poiché nel contratto di assicurazioni contro i danni la corrispettività si fonda su una relazione oggettiva e coerente fra rischio assicurato e premio. Particolarmente significativa, per le implicazioni sotto certi aspetti parametrabili al contratto di avvalimento, in quanto diretto a produrre peculiari effetti anche verso terzi, si presenta la recente pronuncia in tema di concordato preventivo (Cassazione civ. sezione I, 8 febbraio 2019 n. 3863) che indica la causa concreta come l’obiettivo specifico perseguito dal procedimento, priva di un contenuto fisso e predeterminabile e dipendente essenzialmente dal tipo di proposta formulata. In tal sede la S.C. ha rilevato come sia essenziale verificare se il contratto sia idoneo ad espletare una funzione commisurata agli interessi che le parti perseguono; tale controllo, operato dal giudice sul regolamento degli interessi voluto dalle parti, ha essenzialmente ad oggetto il rispetto, da parte dei contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale, del principio di conformità all’utilità sociale dell’iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost.. La valutazione di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c., in altri termini, non si esaurisce in una verifica di liceità della causa, ma investe il risultato perseguito con il contratto, del quale deve accertare la conformità ai principi di solidarietà e parità che l’ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati. .(cfr, anche Cassazione civile sezione unite 23 gennaio 2000 n. 13.521 , che ha affermato a fronte della proposta di concordato preventivo, come il controllo del giudice si spinge alla verifica dell’effettiva realizzabilità della causa concreta del procedimento, dipendente dal tipo di proposta formulata, finalizzata da un lato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore e dall’altro all’assicurazione di un soddisfacimento dei creditori, nonché Cassazione civile 18 agosto 2011 numero 17.360, 12 novembre 2009 numero 22.941). L’inserimento dunque nel giudizio di fattibilità del concordato preventivo della categoria della causa in concreto comporta la mancanza di tutela prestata dall’ordinamento al negozio stipulato qualora se ne riscontri la mancanza. Conclusivamente, la Corte di Cassazione, attraverso un filo ininterrotto di pronunce, afferma come la causa in concreto può essere assente in contratti formalmente riconducibili a figure tipiche, ma che non sono in grado di realizzare gli interessi previsti dal tipo legale.
Contratti della Pubblica amministrazione
Informativa antimafia – Controllo giudiziario – Richiesta al giudice ordinario – Mancata previsione di procedere secondo un approccio prospettico-recuperativo – Costituzionalità della norma.            É manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del d.lgs. n. 159 del 2011 nella parte in cui non stabilisce quali siano le modalità per superare l’interdittiva, imponendo all’impresa che ne sia destinataria l’onere di impugnarla nei termini avanti il giudice amministrativo prima di poter rivolgere al giudice ordinario la richiesta di controllo giudiziario ex art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011 e senza specificare la necessità di procedere secondo un approccio prospettico-recuperativo (1).   (1) Orbene, il concorrente scrutinio giurisdizionale opera su versante differenti e non può che accrescere il tasso di effettività delle tutele, inopinatamente oggetto delle doglianze della ricorrente. Invero, la ratio recuperativa appare immanente all’istituto del controllo giudiziario avendo riguardo ai chiari indici normativi che ne delineano la fisionomia: basti por mente al disposto della lettera e) del comma 3 dell’art. 34-bis, d.lgs. n. 159 del 2011 per cui il tribunale stabilisce gli obblighi dell’amministratore giudiziario tra cui quello “di assumere qualsiasi altra iniziativa finalizzata a prevenire specificamente il rischio di tentativi di infiltrazione o condizionamento mafiosi”. La portata risolutiva o meno dell’istituto si consuma, pervero, sugli indirizzi assunti dal diritto vivente in ordine al requisito della “occasionalità” delle condotte agevolatorie contro-indicanti – terreno cruciale ove si confrontano approcci retrospettivo-stigmatizzanti o prospettico-recuperativi: senonché, si tratta di profili che attengono agli indirizzi applicativi dell’istituto nei casi concreti e non investono i dubbi di costituzionalità sollevati dalla ricorrente. 7.6. In ultimo, preme sottolineare il fondamentale monito rivolto dal giudice delle leggi nella ridetta pronuncia in ordine alla puntuale e rigorosa applicazione da parte dell’autorità amministrativa, in primis, e dei giudici amministrativi, in caso di gravame, del carattere provvisorio della misura interdittiva “per scongiurare il rischio della persistenza di una misura non più giustificata e quindi di un danno realmente irreversibile”. La temporaneità intrinseca dell’interdittiva antimafia è la risposta ordinamentale ai dubbi svolti dalla ricorrente sul crinale della legittimità costituzionale del sistema normativo sotto scrutinio: è, dunque, compito irrinunciabile dell’Autorità amministrativa e del giudice amministrativo assicurarne un’applicazione puntuale e rigorosa, tale da garantire l’effettività delle vie ordinamentali per il superamento della situazione di contro-indicazione mafiosa (i.e. richiesta di aggiornamento ex art. 91, co. 5; controllo giudiziario ex art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011). Indi, il dubbio di costituzionalità non coglie nel segno, rispondendo a razionalità in abstracto l’attuale assetto del sistema normativo antimafia sotto tal profilo.
Informativa antimafia
Processo amministrativo – Rito appalti – Rito super accelerato – Abrogazione – Fase transitoria – Applicabilità - Criterio.               L’art. 1, comma 23, d.l. n. 32 del 2019 - nella parte in cui ha previsto che il nuovo regime si applica “ai processi iniziati dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, lungi dal voler ‘resuscitare’ un termine già definitivamente spirato ha inteso consentire l’applicazione dello jus superveniens anche nei processi promossi dopo la sua entrata in vigore ma solo ove tale termine sia ancora pendente, sicché solo in tale ipotesi sarebbe possibile far valere i vizi degli atti di ammissione (non ancora “inoppugnati”) in occasione della contestazione dell’atto finale di aggiudicazione definitiva (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che le previsioni recate dall’art. 120, commi 2-bis e 6-bis, c.p.a. sono state abrogate dall’art. 1, comma 222, d.l. n. 32 del 2019, ed il successivo comma 23 ha chiarito che il nuovo regime si applica “ai processi iniziati dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, ovverosia dopo il 19 giugno 2019.  Nel dirimere fattispecie analoghe, parte della giurisprudenza di primo grado (in un quadro di orientamenti non unitario) ha condivisibilmente osservato che la disposizione transitoria poc’anzi menzionata non può essere intesa come introduttiva di una "sanatoria processuale" idonea a rimettere in termini i concorrenti nell'impugnazione di provvedimenti di ammissione non solo adottati prima di tale data, ma anche già consolidatisi per inutile decorso del termine di impugnazione ex art. 120, comma 2 bis, c.p.a. (Tar Brescia, sez. I, n. 45 del 2020).  Secondo altra interpretazione (Tar Milano, sez. I, ord., n. 831 del 2019) il principio “tempus regit actum” vale a rendere applicabile la disciplina processuale vigente al momento della instaurazione del giudizio, il che escluderebbe ogni rilevanza alle decadenze già maturate, trattandosi di preclusioni derivanti da norme processuali abrogate.  Delle due soluzioni, appare preferibile la prima. La residua vigenza del regime processuale abrogato implica che l’attivazione del giudizio è soggetta ad un onere di tempestiva impugnazione a pena di decadenza nel termine ex art. 120, comma 2 bis, c.p.a., sicché l’inutile decorso di detto termine determina il perfezionarsi di una fattispecie preclusiva, conclusa e non più rivedibile. La struttura bifasica della norma distingue, infatti, in maniera volutamente netta, il giudizio impugnatorio sulle ammissioni/esclusioni e quello sull’aggiudicazione ed esclude che il secondo possa estendersi alla cognizione dei profili propri del primo se non nel rispetto dell’indefettibile presupposto processuale sotteso alla rituale proposizione del ricorso ai sensi del sopra citato art. 120, comma 2-bis. Poiché, dunque, del precedente regime processuale è parte sostanziale la decadenza conseguente al mancato esercizio dell’onere processuale nelle forme innanzi descritte, una volta decorso il termine prefissato non è possibile interpretare la fattispecie come ancora “aperta” e, quindi, attraibile al nuovo regime normativo; né pare sostenibile alcuna deroga per l’ipotesi del ricorso proposto direttamente contro l’aggiudicazione, intervenuta dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina e censurata per asseriti vizi riguardanti i requisiti soggettivi di partecipazione dell’aggiudicatario. Vero è che in questa ipotesi (coincidente con quella qui in esame) il giudizio risulta intrapreso dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 32 del 2019: tuttavia, l’abrogazione del regime processuale di cui all’art. 120, commi 2-bis e 6-bis, c.p.a. ha espunto dal sistema la possibilità di impugnazione diretta dell’ammissione alla gara, sicché, residuando l’aggiudicazione quale unico atto contestabile, la salvezza entro un certo limite temporale del previgente regime processuale non può che intendersi come preclusione della contestazione dell’atto di aggiudicazione per profili afferenti ad atti di ammissione consolidatisi sotto la disposizione abrogata.  Sempre ragionando in termini controfattuali, sembra poco plausibile ipotizzare che il legislatore, a mezzo della norma intertemporale, abbia inteso disciplinare la sola posizione di chi abbia già visto respinto, definitivamente e in epoca anteriore al decreto sblocca cantieri, il proprio ricorso proposto contro l’ammissione del concorrente poi divenuto aggiudicatario. In tale evenienza, la compiutezza della fattispecie e la sua attrazione alla disciplina abrogata conseguono all’avvenuto esperimento del mezzo processuale (principio del ne bis in idem o di consumazione dei mezzi di impugnazione – Cons. Stato, sez. III, n. 6281 del 2018; id., sez. V, n. 1570 del 2014; Cass. civ., sez. lav., n. 7813 del 2014) sicché, ove intesa in questo senso riduttivo, la disposizione del decreto “sblocca cantieri” apparirebbe sostanzialmente superflua.  Viceversa, la possibilità di impugnazione diretta dell’aggiudicazione anche per vizi relativi all’ammissione non tempestivamente dedotti ai sensi della norma abrogata, oltre ad incorrere negli inconvenienti sopra segnalati, creerebbe una immotivata disparità di trattamento rispetto a chi l’azione ex art. art. 120, commi 2-bis e 6-bis c.p.a. l’abbia già esperita senza successo e si veda poi preclusa la possibilità di far valere gli stessi vizi sull’aggiudicazione. Più verosimilmente, dunque, l’art. 1, comma 23, d.l. n. 32 del 2019 – lungi dal voler ‘resuscitare’ un termine già definitivamente spirato – ha inteso consentire l’applicazione dello jus superveniens anche nei processi promossi dopo la sua entrata in vigore ma solo ove tale termine sia ancora pendente, sicché solo in tale ipotesi sarebbe possibile far valere i vizi degli atti di ammissione (non ancora “inoppugnati”) in occasione della contestazione dell’atto finale di aggiudicazione definitiva.  Nel senso della soluzione qui accolta depongono, su un piano più sistematico, oltre al principio di inoppugnabilità degli atti amministrativi, anche quello di inapplicabilità retroattiva dello jus superveniens (entrambi rinvenienti saldi addentellati costituzionali negli artt. 24, 97 e 113 Cost.) nonché l’art. 2 delle disposizioni transitorie del c.p.a. il quale, nel sancire che per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti, sembra dettare un criterio di orientamento coerente con l’impostazione sin qui tracciata (e con quella giurisprudenza del Consiglio di Stato che reputa ragionevole che le scadenze dei termini processuali vengano calcolate con riferimento alla legge vigente alla data di inizio della relativa decorrenza, “perché solo in tal caso l’interessato è in condizione di averne responsabile consapevolezza, senza essere esposto ad un’imprevedibile modifica in itinere”: Cons. Stato, sez. VI, n. 6845 del 2011).​​​​​​​
Processo amministrativo
Militari, forze armate e di polizia - Polizia di Stato – Selezione per assunzione agenti di Polizia – Giudizio di non idoneità per tatuaggio visibile - Legittimità. ​​​​​​​      E’ legittimo il provvedimento di esclusione dal concorso pubblico per l’assunzione di allievi agenti della Polizia di Stato, motivato per l’esistenza sul polso sinistro del candidato di un tatuaggio visibile con l’uniforme in via di rimozione, in quanto da essa non coperto, rappresentativo di pulsanti di un apparecchio riproduttore di suoni (1).  ​​​​​​​(1) Cons. St., sez. IV, 11 dicembre 2020, n. 7920; id. n. 7621 del 2020. 
Militari, forze armate e di polizia
Processo amministrativo – Giudicato – Previo esame consistenza delle opere di urbanizzazione e di una vecchia istanza di concessione ancora pendente - Effetto conformativo – Individuazione.          Qualora sul procedimento di repressione di abuso edilizio si formi un giudicato che imponga all’Amministrazione, prima di disporre la demolizione, di concludere il precedente procedimento amministrativo al fine di valutare l’effettiva consistenza delle opere di urbanizzazione e di una vecchia istanza di concessione ancora pendente, il Comune, prima di procedere alla demolizione, deve dare esecuzione al predetto giudicato, anche se per effetto del decorso di un decennio il privato non possa più agire con l’actio iudicati,  atteso che l’effetto conformativo che da esso discende non si estingue con la prescrizione dell’actio iudicati ed “impedisce” di procedere alla demolizione delle opere prima di aver esaminato le predette questioni  (1).   (1) Il giudicato di annullamento di atti amministrativi produce, normalmente, effetti, oltre che di accertamento, di eliminazione, di ripristinazione e conformativi. In particolare, il vincolo conformativo assume una valenza differente a seconda che oggetto di sindacato sia un’attività amministrativa vincolata o discrezionale: i) nel primo caso esso è pieno nel senso che viene delineata in modo completo la modalità successiva di svolgimento dell’azione amministrativa; ii) nel secondo caso esso ha valenza meno pregnante, in quanto non può estendersi, per assicurare il rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri, a valutazioni riservate alla pubblica amministrazione. Per quanto il giudizio amministrativo verta sul rapporto giuridico al fine di accertare la spettanza delle utilità finali oggetto dell’interesse legittimo, quando l’attività amministrativa è discrezionale, il vincolo giudiziale non può incidere su spazi di decisione, afferenti all’opportunità, attribuiti alla pubblica amministrazione. Nella fase successiva al giudicato, occorre distinguere un momento relativo alla “medesima vicenda amministrativa “e un momento relativo ad una “diversa, ancorché collegata, vicenda amministrativa”. Nel primo caso relativo alla “medesima vicenda amministrativa”, l’azione amministrativa successiva al giudicato, quando l’accertamento non è stato pieno in ragione dell’esistenza di poteri discrezionali, è retta da “regole giudiziali” e da “regole legali”. Ne consegue che: i) una parte di tale azione deve rispettare i vincoli che derivano dal giudicato e, in particolare, il vincolo conformativo; ii) un’altra parte della medesima azione, non oggetto di specifico accertamento giudiziale, deve rispettare i vincoli posti dal principio di legalità. Se l’amministrazione viola la prima tipologia di vincoli di tipo giudiziale, non eseguendo il giudicato o ponendo in essere un’attività di violazione o elusione del giudicato stesso, la tutela si svolge sul piano dell’esecuzione ed è costituita dall’azione di ottemperanza, con la quale si può contestare l’omissione ovvero la nullità degli atti adottati (artt. 112 ss. c.p.a.). Il codice del processo amministrativo ha previsto che tale azione debba essere proposta entro il termine di prescrizione di dieci anni decorrenti dal passaggio in giudicato della sentenza, in quanto ha configurato l’esistenza di un “diritto soggettivo all’esecuzione” sottoposto all’efficacia estintiva propria della prescrizione. Anche l’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato, che per la sua specialità, non soggiace al termine di centottanta giorni previsto per le altre cause di nullità (art. 30 c.p.a.), deve essere proposta nel rispetto del suddetto termine prescrizionale (art. 31, comma 4, c.p.a.). Se l’amministrazione viola la seconda tipologia di vincoli di tipo legale, la tutela si svolge sul piano della cognizione ed è costituita, in presenza di atti amministrativi, dall’azione di annullamento (art. 29 c.p.a.), che deve essere proposta nel termine di decadenza di sessanta giorni (art. 41, comma 2, c.p.a.) ovvero dall’azione di nullità (art. 31, comma 4, c.p.a.), che deve essere proposta nel termine di centottanta giorni. Nel secondo caso relativa alla “diversa vicenda amministrativa”, l’azione amministrativa è retta dalle regole legali e, dunque, deve rispettare il solo principio di legalità, in quanto si tratta di un rapporto differente da quello che è stato oggetto di accertamento giudiziale. Deve, però, ritenersi che, in alcuni casi, quando le due vicende presentano profili di collegamento sostanziale si produce quello che può essere definito “effetto conformativo” di coerenza o razionalità della complessiva azione amministrativa discendente dal giudicato. In particolare, tale effetto, imponendo un obbligo non sottoposto a termine, produce uno svolgimento interno delle situazioni giuridiche coinvolte di tipo preclusivo nel senso che l’amministrazione non può regolare la “vicenda diversa” in contrasto con il complessivo accertamento giudiziale già svolto in ossequio al suddetto canone di coerenza nell’esercizio del potere. La peculiarietà della vicenda amministrativa risiede nel fatto che la forma di tutela si svolge esclusivamente sul piano della cognizione mediante la proposizione di un’azione di annullamento per violazione di legge o eccesso di potere che deve essere proposta nei riportati termini di decadenza. Ne consegue che il suddetto effetto conformativo incide anche, nei sensi indicati, sulla nuova attività amministrativa senza alcun limite temporale se non quello derivante dalla decorrenza del termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto amministrativo che con tale effetto si pone in contrasto. In definitiva, l’effetto conformativo discendente dal giudicato impedisce l’adozione di atti amministrativi che con esso confliggono, anche indipendentemente dalla azionabilità in ottemperanza delle statuizioni della sentenza passata in cosa giudicata e della declaratoria di nullità degli atti adottati. Vengono così a scindersi l’eseguibilità del giudicato (impedita dalla prescrizione dell’actio iudicati) e la persistenza dell’effetto conformativo del medesimo, che comporta, comunque, il dovere dell’amministrazione di non adottare atti che contrastino con l’accertamento giudiziale e il conseguenziale effetto conformativo. Il diritto all’esecuzione del giudicato non è azionabile ma il dovere di tener conto del giudicato nelle ulteriori attività dell’amministrazione permane, con la conseguente possibilità di ritenere annullabile l’atto che non lo consideri. Quanto esposto vale anche in presenza di attività amministrativa di repressione di abusi edilizi. L’attività in esame è, normalmente, vincolata con la conseguenza che il giudice amministrativo accerta il rapporto con la produzione di un vincolo conformativo pieno sulla successiva attività amministrativa. Può accadere, però, in presenza soprattutto di annullamento giudiziale di titoli edilizi già rilasciati ovvero per la complessità della vicenda amministrativa, che la pubblica amministrazione sia titolare di poteri discrezionali, con le conseguenze in ordine al regime dell’attività successiva sopra riportate.  
Processo amministrativo
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi – Servizio trasporto sanitario di soccorso ed emergenza – Convenzione con Associazione di volontariato – Regione Veneto – Art. 5, comma 1, l. reg. n. 26 del 2012 – Obbligo – Esperimento di gara pubblica – Possibilità – Condizione.              Nella Regione Veneto, l’azienda ULSS dispone del potere di gestire in via diretta il servizio di trasporto sanitario di soccorso ed emergenza oppure di avvalersi degli altri soggetti pubblici di cui all’art. 4 della stessa legge; solo quando l’attività di trasporto sanitario di soccorso ed emergenza non può essere assicurato da tali soggetti, le aziende ULSS possono affidarla a titolo oneroso mediante procedure di evidenza pubblica, così come dispone l’art. 5, comma 5, l. reg. n. 26 del 2012, fornendo la motivazione di tale decisione (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che l’ordinamento eurounitario obbliga all’indizione della gara nel caso di affidamento del trasporto sanitario ordinario ad un’associazione di volontariato privata; il regime muta quando il servizio di trasporto ordinario viene svolto in base ad un accordo di cooperazione stipulato tra due enti pubblici per il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico a loro comuni.  La Corte di Giustizia (sez. IX, ord., 6 febbraio 2020, in C- 11/19) ha precisato, infatti, che gli artt. 10, lett. h), e l’art. 12, par. 4, della direttiva 2014/24 devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa regionale che subordina l’aggiudicazione di un appalto pubblico alla condizione che il partenariato tra enti del settore pubblico non consenta di garantire il servizio di trasporto sanitario ordinario nel rispetto dei principi di parità di trattamento, non discriminazione, riconoscimento reciproco, proporzionalità e trasparenza.  Ha anche statuito che tali norme neppure ostano ad una normativa regionale che impone all’amministrazione aggiudicatrice di giustificare la sua scelta di aggiudicare l’appalto per il servizio di trasporto sanitario ordinario mediante gara di appalto, piuttosto che di affidarlo direttamente mediante una convenzione conclusa con un’altra amministrazione aggiudicatrice.  Ne consegue che gli artt. 1, 2, 4 e 5, l. reg. Veneto n. 26 del 2012, letti in combinato disposto con la normativa nazionale (art. 5, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 e art. 15, l. n. 241 del 1990, consente anche nel caso del servizio di trasporto ordinario in ambulanza il ricorso al convenzionamento con enti del settore pubblico ricorrendo all’appalto pubblico quando il partenariato tra tale tipologia di enti (pubblici) non consenta di garantire il servizio di trasporto sanitario.  L’art. 1, l. reg. Veneto n. 26 del 2012 ha conferito “agli enti sanitari e alle associazioni autorizzati ed accreditati la possibilità di concorrere all’espletamento delle attività di trasporto di soccorso e di emergenza intrinsecamente sanitarie”; l’art. 5, comma 1, l. reg. Veneto n. 26 del 2012 che “L’attività di trasporto di soccorso ed emergenza è svolta dalle aziende ULSS, nonché dai soggetti iscritti nell’elenco regionale di cui all’art. 4”; a sua volta il comma 5 di tale disposizione prevede che: “Qualora l’attività di trasporto sanitario di soccorso ed emergenza non possa essere assicurata dai soggetti iscritti all’elenco regionale di cui all’articolo 4, le aziende ULSS possono affidarla, a titolo oneroso a soggetti individuati attraverso procedure concorsuali ad evidenza pubblica, nel rispetto di quanto previsto dalla vigente normativa statale ed europea in materia di contratti pubblici e rispondenti ai requisiti idonei a garantire livelli adeguati di qualità e a valorizzare la funzione sociale del servizio”. ​​​​​​​
Contratti della Pubblica amministrazione
Processo amministrativo – Covid-19 – Udienze senza la presenza degli avvocati -  Art. 84, commi 5 e 6, d.l. n. 18 del 2020 - Rilievo d'ufficio di un profilo di inammissibilità della impugnazione – Ordinanza ex art. 73, comma 3, seconda parte, c.p.a. – Necessità.             Nell' udienza svolta in forma telematica senza la partecipazione dei difensori, ai sensi dell’art. 84, commi 5 e 6, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito nella l.  27 aprile 2020, n. 24, che ha previsto il passaggio “in decisione senza discussione orale”, in caso di rilievo d'ufficio di un profilo di inammissibilità della impugnazione, deve essere fatta applicazione della disposizione dell’art. 73, comma 3, seconda parte, c.p.a., dettata per l’ipotesi in cui la questione emerga dopo il passaggio in decisione, assegnando alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie e riservando la decisione ad altra camera di consiglio.
Processo amministrativo
Accesso ai documenti – Accesso difensivo – Richiesta di dati sensibilissimi – Contemperamento opposti interessi – Fattispecie.                     È legittimo il diniego di accesso ai dati supersensibili contenute in cartelle sanitarie la cui ostensione è stata richiesta per tutelare il diritto di difensa in sede giudiziale ove la documentazione richiesta era dichiaratamente preordinata alla difesa per un’udienza ormai tenutasi, e nell’ambito di un giudizio nel quale il diritto di difesa era ugualmente esplicabile e i dati sanitari oggetto dell’istanza di accesso hanno in parte un carattere risalente, sotto il profilo temporale (1).   (1) Ha chiarito la sezione che dal combinato disposto delle disposizioni dettate dall’art. 24, comma 7, secondo periodo, l. n. 241 del 1990 e dall’art. 60, comma 1, d.lgs. n. 196 del 2003 emerge che l’accesso ai dati supersensibili (quali quelli relativi alla salute) è consentito solo quando esso sia “strettamente indispensabile” per tutelare diritti di pari rango rispetto a quelli dell’interessato, ovvero venga in rilievo un diritto della personalità o altro diritto o libertà fondamentale.  È stato, in particolare, rilevato che “…la tutela dei dati "supersensibili" può essere vinta solo quando risulti provato in concreto dall'istante che la loro acquisizione sia assolutamente indispensabile al fine di tutelare un suo diritto fondamentale, non bastando perciò, in tale particolare ipotesi, la generica enunciazione di esigenze di difesa.   Occorre, in particolare, la dimostrazione di una rigida "necessità" e non della mera "utilità" del documento in questione (Cons. St., sez. VI, 12 gennaio 2011, n. 117)…” (Tar Toscana, sez. II, 26 novembre 2021, n. 1573; v. anche, in fattispecie simile, Tar Napoli, sez. VI, 28 giugno 2021, n. 4418).
Accesso ai documenti
Caccia – Attività venatoria – Divieto – Ordinanza contingibile e urgente - Possibilità             Pur a fronte di una disciplina settoriale che non riconosce in capo al Comune alcuna competenza in materia di attività venatoria, è applicabile la normativa generale, espressione di un potere atipico e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti, come stabilita dagli artt. 50, comma 5, e 54, comma 4, d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), allorquando se ne configurino i relativi presupposti; è pertanto legittima l’ordinanza contingibile e urgente con la quale è istituita una zona di divieto di esercizio dell’attività venatoria (1).       (1) Cons. St., sez. V, 29 maggio 2019, n. 3580; id. 12 giugno 2009, n. 3765; Tar Milano, sez. IV, 8 giugno 2010, n. 1758. Ha ricordato il Tar che la competenza in materia di caccia spetta, ai sensi della legge n. 157 del 1992, allo Stato e alle Regioni (cfr., per queste ultime, in particolare gli artt. 9 e 14), mentre nessuna competenza ordinaria è attribuita sul punto ai Comuni. Pur essendo, quindi, astrattamente utilizzabile, anche nella materia de qua, lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente, è comunque necessario che ne ricorrano i presupposti giustificativi in grado di supportare il legittimo esercizio di tale potere (Cons. St., sez. V, 22 maggio 2019, n. 3316). Difatti, secondo la consolidata giurisprudenza, «il potere sindacale di emanare ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi degli articoli 50 e 54 D. Lgs. n. 267 del 2000 richiede la sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave ed imminente per l’incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva, debitamente motivata a seguito di approfondita istruttoria. In altri termini, presupposto per l’adozione dell’ordinanza extra ordinem è il pericolo per l’incolumità pubblica dotato del carattere di eccezionalità tale da rendere indispensabile interventi immediati ed indilazionabili, consistenti nell’imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato» (Cons. St., sez. V, 16 febbraio 2010, n. 868). Nel caso di specie, dal preambolo del provvedimento impugnato – come pure dalla pregressa ordinanza n. 7/2019, gravata con il ricorso introduttivo – emerge che l’urgenza e la necessità di provvedere sono state rinvenute dal Sindaco in generiche ragioni di pericolo connesse alla tipologia di attività esercitata, ossia la caccia, e agli strumenti che vengono utilizzati per il suo svolgimento, ossia le armi da fuoco (o, comunque, gli strumenti atti a sopprimere la fauna cacciata); tuttavia, il pericolo paventato non rappresenta altro che una conseguenza ordinaria e affatto eccezionale dell’attività venatoria («non è legittimo adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti»: Cons. St., sez. V, 26 luglio 2016, n. 3369), che proprio in ragione delle peculiari modalità di svolgimento è oggetto di minuziosa disciplina da parte del legislatore statale (cfr. in particolare gli artt. 12 e 13 della legge n. 157 del 1992). Peraltro a fondamento del provvedimento impugnato, nemmeno risulta essere stata posta una adeguata attività istruttoria, attraverso la quale sarebbero dovuti emergere gli elementi di fatto rilevanti e in grado di giustificare l’intervento comunale di urgenza, risultando nella specie del tutto insufficiente la circostanza, nemmeno documentata, che vi sarebbero state numerose segnalazioni attestanti la presenza di cacciatori nella zona della Diga di Beauregard (si veda il preambolo dell’ordinanza n. 7/2019). Ne discende che l’assoluta carenza di istruttoria e la generica e apodittica esigenza di tutelare la pubblica incolumità, unitamente alla necessità di garantire un ipotetico ordine pubblico, non possono rappresentare presupposti idonei a fondare l’adozione di una ordinanza contingibile e urgente (Cons. St., sez. V, 29 maggio 2019, n. 3580; 21 febbraio 2017, n. 774; 22 marzo 2016, n. 1189). Del resto, se può ammettersi, come già evidenziato in precedenza, un potere di intervento extra ordinem del Sindaco, pur in presenza di una competenza di altro ente, i presupposti di un tale intervento straordinario devono essere individuati e verificati, nella loro esistenza, in modo rigoroso, rischiandosi altrimenti di derogare all’ordine legale delle competenze in aperta violazione di legge. Con riguardo alle ordinanze sindacali, in generale, è stato osservato che le stesse possono incidere, per la natura delle loro finalità (incolumità pubblica e sicurezza urbana) e per i loro destinatari (le persone presenti in un dato territorio), sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti considerati, determinando una compressione della libertà e della proprietà individuale, che pure costituiscono principi tutelati dalla Carta costituzionale (Corte costituzionale, sentenza n. 115 del 2011). Pertanto, il ricorso allo strumento delle ordinanze contingibili e urgenti deve essere riservato alle sole fattispecie in cui ne ricorrono i presupposti giustificativi, da riscontrare in maniera rigorosa e di cui deve essere data una interpretazione fortemente restrittiva. 3.2. Inoltre, appare illegittimo anche il contemporaneo richiamo all’art. 50 e all’art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico degli Enti locali), trattandosi di due disposizioni aventi un differente spettro di applicazione ed espressione di poteri, sebbene assimilabili, comunque diversi. L’art. 50, in particolare il comma 5, ammette un intervento, connotato dai caratteri della contingibilità e dell’urgenza, del Sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in presenza di «emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale [oppure] in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche». Diversamente, l’art. 54, comma 4, prevede che «il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato provvedimenti contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana». Come risulta dalla semplice esegesi dei predetti testi normativi, in un caso – quello dell’art. 50 – il Sindaco agisce in qualità di rappresentante della comunità locale e si occupa di ambiti in cui vengono in rilievo interessi di tipo territoriale e riguardano materie di competenza (anche) comunale, mentre nell’altro – quello di cui all’art. 54 – il Sindaco agisce in qualità di ufficiale di Governo e in settori, quali l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, che sono di competenza dello Stato, essendo tali materie finalizzate alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso quest’ultimo quale «complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale» (Corte cost., sentenze n. 129 del 2009; n. 290 del 2001).
Caccia
Leggi e decreti – Contrasto con diritto Ue – Conseguenza – Individuazione.   Straniero – Accoglienza – Gravi violazioni delle regole dei centri – Revoca dell’accoglienza – Art. 23, comma 1, lett. e, d.lgs. n. 142 del 2015 – Contrasto con principi eurounitari – Va disapplicata.          Le norme interne degli Stati aderenti all’Unione Europea contrastanti con quelle comunitarie, come interpretate dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, recedono a fronte di queste ultime e, pertanto, devono essere disapplicate sia in sede giudiziaria che dalla pubblica amministrazione.          Come statuito dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 12 novembre 2019, C – 233/18, le sanzioni applicabili a stranieri extracomunitari richiedenti protezione internazionale che siano stati ammessi alle misure di accoglienza, i quali pongano in essere gravi violazioni delle regole dei centri in cui sono ospitati o comportamenti gravemente violenti, non possono consistere nella revoca dell’accoglienza stessa; gli Stati membri possono prevedere altre tipologie di sanzioni con effetti meno radicali, come la collocazione dello straniero in una parte separata del centro anche unitamente ad un divieto di contatto con taluni residenti del centro stesso o il trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio (2).   (1) Nel rapporto tra fonti interne e fonti comunitarie queste ultime assumono prevalenza, nel senso che costituiscono parametro di interpretazione delle prime le quali, ove contrastanti con le seconde, devono essere disapplicate sia dal Giudice che dall’Amministrazione nel caso concreto (Cga 16 maggio 2016, n. 139; Tar Marche 1 agosto 2016, n. 468; Tar Napoli, sez. III, 6 luglio 2016, n. 3394). Nell’ipotesi in cui l’Unione crei posizioni giuridiche, queste devono infatti essere tutelate in modo uniforme in tutti gli Stati membri e, a tal fine, viene garantita la corretta interpretazione delle norme comunitarie ad opera della Corte di Giustizia le cui pronunce devono irrevocabilmente trovare applicazione all’interno degli Stati, i cui ordinamenti si ritraggono dalle materie disciplinate in sede comunitaria con la conseguenza che le norme interne contrastanti con quelle eurounitarie non possono trovare applicazione nel caso concreto.   (2) La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 12 novembre 2019, C – 233/18 ha chiarito che ha statuito che l’art. 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE, alla luce dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni applicabili ad un richiedente in caso di gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza o di comportamenti gravemente violenti, la revoca neanche temporanea dell’accoglienza, e tanto per diverse ragioni. In primo luogo l’applicazione di tale sanzione è incompatibile con l'obbligo, derivante dall'art. 20, paragrafo 5, terza frase, della direttiva, di garantire al richiedente un tenore di vita dignitoso poiché lo priverebbe della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari. Inoltre violerebbe il requisito di proporzionalità stabilito all'art. 20, paragrafo 5, seconda frase, della stessa direttiva in quanto anche le sanzioni più severe non possono privare il richiedente della possibilità di provvedere ai suoi bisogni più elementari. Secondo la Corte, gli Stati membri dell’Unione, se non possono adottare la revoca quale sanzione conseguente alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza, tuttavia possono prevedere altre tipologie di sanzioni che producano effetti meno “radicali” nei confronti del richiedente protezione internazionale come la sua collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, anche unitamente ad un divieto di contatto con taluni residenti del centro stesso, o il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio, ai sensi dell’articolo 18, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2013/33. Analogamente l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, di questa non osta ad una misura di trattenimento del richiedente ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 3, lettera e), della stessa, a condizione che siano soddisfatte le condizioni elencate ai suoi artt. da 8 a 11. Alla luce di quanto statuito dalla Corte segue che deve essere disapplicata nel caso concreto la norma di cui alla lettera e) dell’art. 23, d.lgs. n. 142 del 2015, con conseguente accoglimento dei ricorsi e annullamento dei provvedimenti impugnati. La Sezione si è detta consapevole che in tal modo rischia di crearsi un vuoto normativo in quanto l’ordinamento non prevede alcuna sanzione ulteriore a carico degli stranieri richiedenti protezione internazionale e ammessi alle misure di accoglienza, i quali pongano in essere violazioni gravi delle regole dei centri in cui sono inseriti o comportamenti gravemente violenti; è tuttavia responsabilità del legislatore colmare tale lacuna non potendo questo Giudice esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto comunitario così come fornita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Leggi e decreti
Covid-19 – Green pass – Personale docente e non docente della scuola – Obbligo - Non va sospeso monocraticamente.      Non va sospeso monocraticamente il decreto 6 agosto 2021, n. 257, con cui il Ministero dell'Istruzione che impone al personale docente e non docemte della scuola di accedere ai locali con certificazione verde  (1).    (1) Dello stesso tenore il dec. 30 ottobre 2021, n. 5950 Il decreto ha escluso la violazioni della privacy a danno di chi esibisca per la lettura elettronica il “certificato verde” rilasciato dopo la vaccinazione sono contraddette sia dall’avvenuto pieno recepimento delle indicazioni del Garante della Privacy in proposito, sia dal dato puramente tecnico e non contestato con argomenti credibili, secondo cui la lettura con app dedicata esclude ogni conservazione o conoscibilità del dato identitario personale, salvo l’accertamento della autenticità del certificato verde, elemento essenziale allorché emergono sempre più frequenti casi di falsificazione e di commercio di certificati verdi falsi. ​​​​​​​Il decreto ha altresì chiarito che l’asserita priorità del diritto individuale alla salute quale fondamento del rifiuto di vaccinarsi non può avere valore assoluto, allorché sia posto a confronto con l’eguale diritto di una collettività di persone - nella specie gli studenti - il cui “diritto a scongiurare possibili contagi” ha prevalenza perché espressione di una componente della “salute pubblica” a fronte del diritto del docente, in ogni caso per nulla negato viste le ammissibili misure alternative al vaccino, e di carattere individuale, per di più da parte di chi ha una responsabilità specifica e rafforzata verso i propri studenti, che costituisce componente essenziale della funzione (se non addirittura missione) di ogni docente.
Covid-19
Accesso ai documenti – Accesso difensivo – Istanza generica – Esclusione.               In materia di accesso difensivo ai sensi dell’art. 24, comma 7, l. n. 241 del 1990 si deve escludere che sia sufficiente nell’istanza di accesso un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poiché l’ostensione del documento richiesto passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare; la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990 (1).      (1) L’Alto Consesso ha richiamato quanto aveva già chiarito con le pronunce nn. 19, 20 e 21 del 25 settembre 2020. Ha ricordato che la volontà del legislatore (art. 25, l. n. 241 del 1990) è di esigere che le finalità dell’accesso siano dedotte e rappresentate dalla parte in modo puntuale e specifico nell’istanza di ostensione, e suffragate con idonea documentazione (ad es. scambi di corrispondenza; diffide stragiudiziali; in caso di causa già pendente, indicazione sintetica del relativo oggetto e dei fatti oggetto di prova; ecc.), così da permettere all’amministrazione detentrice del documento il vaglio del nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta sub specie di astratta pertinenza con la situazione “finale” controversa.   In questa prospettiva, e per rispondere ai quesiti sopra ricordati e posti dall’ordinanza di rimessione, questa Adunanza plenaria ha escluso che possa ritenersi sufficiente un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poiché l’ostensione del documento passa attraverso un rigoroso vaglio circa l’appena descritto nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale controversa.  Altra e non meno importante questione, adombrata dall’ordinanza di rimessione, è poi quella afferente alla ricostruzione della disciplina del bilanciamento tra interesse all’accesso difensivo dell’istante e la tutela della riservatezza del controinteressato.   Come questa Adunanza ha però già chiarito nelle richiamate pronunce, l’art. 24, l. n. 241 del 1990 prevede, al riguardo: a) al comma 1, una tendenziale esclusione diretta legale dall’accesso documentale per le ipotesi ivi contemplate; b) al comma 2, un’esclusione demandata ad un regolamento governativo, con cui possono essere individuati casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi, tra l'altro e per quanto qui interessa, nella lettera d) «quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono»; c) al comma 7 un’esclusione basata su un giudizio valutativo di tipo comparativo di composizione degli interessi confliggenti facenti capo al richiedente e, rispettivamente, al controinteressato, modulato in ragione del grado di intensità dei contrapposti interessi ed improntato ai tre criteri della necessarietà, dell'indispensabilità e della parità di rango.   Ebbene, ai fini del bilanciamento tra il diritto di accesso difensivo, preordinato all’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale in senso lato, e la tutela della riservatezza, secondo la previsione dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990, non trova applicazione né il criterio della stretta indispensabilità (riferito ai dati sensibili e giudiziari) né il criterio dell'indispensabilità e della parità di rango (riferito ai dati cc.dd. supersensibili), ma il criterio generale della “necessità” ai fini della “cura” e della “difesa” di un proprio interesse giuridico, ritenuto dal legislatore tendenzialmente prevalente sulla tutela della riservatezza, a condizione del riscontro della sussistenza dei presupposti generali, di cui si è detto, dell’accesso documentale di tipo difensivo.  Se così è, come questa Adunanza plenaria ha già precisato nelle sentenze nn. 19, 20 e 21 del 25 settembre 2020, è chiaro che il collegamento tra la situazione legittimante e la documentazione richiesta, richiesto da questa Adunanza plenaria, impone un’attenta analisi della motivazione che la pubblica amministrazione ha adottato nel provvedimento con cui ha accolto o, viceversa, respinto l’istanza di accesso.  Soltanto attraverso l’esame di questa motivazione è infatti possibile comprendere se questo collegamento, nel senso sopra precisato, esista effettivamente e se l’esigenza di difesa rappresentata dall’istante prevalga o meno sul contrario interesse alla riservatezza nel delicato bilanciamento tra i valori in gioco.  La pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono invece svolgere alcuna ultronea valutazione sulla influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione o allo stesso giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso.  Un diverso ragionamento reintrodurrebbe nella disciplina dell’accesso difensivo e, soprattutto, nella sua pratica applicazione limiti e preclusioni che, invece, non sono contemplati dalla legge, la quale ha già previsto, come si è detto, adeguati criterî per valutare la situazione legittimante all’accesso difensivo e per effettuare il bilanciamento tra gli interessi contrapposti all’ostensione del documento o alla riservatezza.  Certamente, se l’istanza di accesso sia motivata unicamente, ai sensi dell’art. 25, comma 2, l. n. 241 del 1990, con riferimento ad esigenze difensive di un particolare giudizio e il giudice di quella causa si sia già pronunciato sull’ammissibilità o, addirittura, sulla rilevanza del documento nel giudizio già instaurato, la pubblica amministrazione e, in sede contenziosa ai sensi dell’art. 116 c.p.a., il giudice amministrativo dovranno tenere conto di questa valutazione, sul piano motivazionale, ma sempre e solo per valutare la concretezza e l’attualità del bisogno di conoscenza a fini difensivi, nei termini si è detto, e non già per sostituirsi ex ante al giudice competente nella inammissibile e impossibile prognosi circa la fondatezza di una particolare tesi difensiva, alla quale la richiesta di accesso sia preordinata, salvo, ovviamente, il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990.
Accesso ai documenti
Covid-19 – Green pass – Test per la prova di accesso per il corso di laurea Medicina e  Chirurgia/ Odontoiatria – Candidato privo di certificazione verde - Certificazione priva di QR code attestante l’effettuazione di tampone antigenico rapido negativo il giorno precedente il test – Esclusione – Non va sospesa.       Non deve essere sospesa cautelarmente l’esclusione dalla partecipazione al test per la prova di accesso per il corso di laurea Medicina e Chirurgia/ Odontoiatria del concorrente sprovvisto della certificazione verde a nulla rilevando che avesse prodotto certificazione (priva di QR code) attestante l’effettuazione di tampone antigenico rapido negativo il giorno precedente il test (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che ai sensi dell’art. 9 bis, lett i), d.l. 22 aprile 2021, n. 52 a far data dal 6 agosto 2021 è consentito l’accesso ai concorsi pubblici esclusivamente ai soggetti muniti di una delle certificazioni verdi Covid-19, di cui all'art. 9, comma 2. La certificazione verde Covid -19 attesta, tra l’altro, la condizione dell’effettuazione di test antigenico rapido o molecolare, quest'ultimo anche su campione salivare e nel rispetto dei criteri stabiliti con circolare del Ministero della salute, con esito negativo al virus SARS-CoV-2 (art. 9, comma 2, lett. c) del citato decreto). Ha aggiunto che ai sensi dell’art. 13, d.P.C.M. 17 giugno 2021 “la verifica delle certificazioni verdi Covid-19 è effettuata mediante la lettura del codice a barre bidimensionale, utilizzando esclusivamente l'applicazione mobile descritta nell’allegato B, paragrafo 4, che consente unicamente di controllare l'autenticità, la validità e l'integrità della certificazione, e di conoscere le generalità dell'intestatario, senza rendere visibili le informazioni che ne hanno determinato l'emissione.”.  ​​​​​​​Nelle Linee Guida MUR del 16 agosto 2021, pubblicate sul sito web il 25 agosto 2021, (parti integranti del bando per l’ammissione al corso in esame) vi è un espresso richiamo alla suindicata normativa primaria e secondaria in tema di obbligo di certificazione verde e relative modalità di controllo. L’autenticità e la validità delle prescritte certificazioni verdi risultano verificabili unicamente mediante lettura del QR code   
Covid-19
Processo amministrativo – Contraddittorio - Ordinanza contingibile e urgente – Impugnazione - Omessa notifica ad almeno un controinteressato formale e sostanziale – Inammissibilità.      È inammissibile per difetto di contraddittorio il ricorso avente a oggetto l’ordinanza contingibile e urgente adottata dal Sindaco ai sensi dell’art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000, che non sia stato notificato ad almeno uno dei soggetti privati ivi indicati (c.d. elemento formale) e che si presenta come titolare di un interesse qualificato, concreto e attuale, alla conservazione del provvedimento impugnato stesso (c.d. elemento sostanziale) (1).    (1) La Sezione ha chiarito come sia noto il principio giurisprudenziale secondo il quale, in linea di principio, l'ordinanza contingibile e urgente è un provvedimento per sua natura finalizzato alla tutela di interessi generali o diffusi e comunque superindividuali e impersonali, talché è da escludere che nel caso di ricorso proposto per il suo annullamento siano configurabili soggetti controinteressati in senso tecnico nei confronti dei quali occorra a pena di inammissibilità instaurare il contraddittorio; tuttavia tale criterio non si adatta al caso in cui sussista un coinvolgimento degli interessi di natura pubblica nonché l’incidenza su situazioni giuridiche contrapposte all’interno di un rapporto giuridico di esclusiva natura privatistica   Il Codice del processo amministrativo all’art. 27 (“Contraddittorio”) stabilisce infatti che il contraddittorio è integralmente costituito quando l’atto introduttivo è notificato all’amministrazione resistente e, ove esistenti, ai controinteressati (comma 1), mentre il successivo art. 41 (“Notificazione del ricorso e suoi destinatari”) prevede che qualora, come nel caso di specie, sia proposta azione di annullamento “il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, ... ad almeno uno dei controinteressati” chiarendo che quest’ultimo è il soggetto “che sia individuato nell’atto stesso” (comma 2): si tratta del controinteressato in senso formale.  La giurisprudenza equipara, poi, il controinteressato individuato testualmente dall’atto a quello facilmente individuabile in ragione delle indicazioni contenute nell’atto impugnato e riconosce ulteriormente la qualità di controinteressato in senso sostanziale a chi, oltre a essere nominativamente indicato nel provvedimento impugnato o comunque ivi agevolmente individuabile (il c.d. elemento formale), si presenti come portatore di un interesse giuridicamente qualificato alla conservazione dell’atto (c.d. elemento sostanziale), in quanto questo, di norma, gli attribuisce in via diretta una situazione giuridica di vantaggio. Tale interesse deve essere di natura eguale e contraria a quella del ricorrente (da ultimo, Cons. Stato, V, 21 gennaio 2019, n. 495; 17 settembre 2018, n. 5420; 7 giugno 2017, n. 2723; IV, 12 aprile 2017, n. 1701; VI, 11 novembre 2016, n. 4676). ​​​​​​​​​
Processo amministrativo
Covid-19 - Sanità – Gestione domiciliare dei malati di Covid-19 - Linee guida promulgate dall’Aifa e mutuate con la circolare del Ministero della Salute 26 aprile 2021 – Illegittimità.                 Sono illegittime le Linee guida promulgate dall’Aifa e pedissequamente mutuate con la circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui prevedono un lungo elenco delle terapie da non adottare, ponendosi così in contrasto con l’attività professionale come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale (1).   ​​​​​​​ (1) Ha chiarito il Tar che in disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito.   La prescrizione dell’Aifa, come mutuata dal Ministero della Salute, contrasta, pertanto, con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia Covid-19, come avviene per ogni attività terapeutica.  
Covid-19
Animali - Controlli sanitari veterinari - Influenza aviaria – Misure compensative – D.M. 15 gennaio 2000 - Alle sole imprese che non abbiano cessato l’attività alla data di presentazione dell’istanza – Rimessione alla Corte di Giustizia.                       E’ rimessa alla Corte di Giustizia  la questione se l’art. 220 del regolamento (UE)n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento di esecuzione della Commissione del 2 agosto 2019, n. 2019/1323/UE ostino a una normativa nazionale (come quella di cui Decreto ministeriale del 15 gennaio 2020 del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali) intesa ed applicata nel senso di limitare l’accesso alle misure compensative dei danni determinati dall’influenza aviaria alle sole imprese che non abbiano cessato l’attività alla data di presentazione dell’istanza (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che la questione controversa è la corretta interpretazione – e dunque alla definizione del relativo ambito operativo – del disposto di cui all’art. 220 del Regolamento (UE) n. 1308/2013 e delle prescrizioni attuative compendiate nel Regolamento di esecuzione (UE) n. 1323/2019 nelle parti attinenti all’individuazione dei beneficiari dell’aiuto in questione, essendo la fonte di regolazione nazionale dichiaratamente esecutiva di quella eurounitaria. ​​​​​​​Si individuano due differenti e alternative esegesi della disciplina eurounitaria che governa la misura in argomento: anzitutto, quella del privato richiedente, che la configura alla stregua di un indennizzo del danno subito. Nella suddetta prospettiva, l’unico soggetto titolato a poter richiedere l’aiuto in questione è l’imprenditore che ha subito il danno indipendentemente dal fatto che l’azienda sia medio tempore cessata non potendo gli acquirenti richiedere il ristoro di un danno che non hanno sopportato; dall’altro lato, vi è l’opzione esegetica privilegiata dall’Amministrazione a mente della quale la misura in argomento è rigidamente finalizzata a sostenere il mercato, inteso quale insieme di tutti quegli imprenditori che in esso operano in un certo momento e non anche da soggetti che vi operavano prima della previsione della misura di sostegno. ​​​​​​​Non può essere messa in dubbio la necessità di attivazione del subprocedimento di cui all’art. 267 del TFUE atteso che questa Sezione del Consiglio di Stato, quale giudice di ultima istanza, è chiamato a pronunciare su una controversia nazionale in cui vengono dedotte questioni di interpretazione e di corretta applicazione di disposizioni e principi unionali di non univoca lettura. ​​​​​​​E ciò anche in considerazione della declinazione applicativa cui resta soggetto l’obbligo di rinvio pregiudiziale nella giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo cui, al fine di evitare che in un qualsiasi Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme del diritto dell’Unione, qualora non sia previsto alcun ricorso giurisdizionale avverso la decisione di un giudice nazionale, quest’ultimo è, in linea di principio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’art. 267, terzo comma, TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una questione di interpretazione del diritto europeo. ​​​​​​​La cogenza del divisato obbligo patisce eccezione nei soli casi in cui la questione sollevata non sia rilevante o che la disposizione del diritto dell’Unione di cui trattasi sia già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto dell’Unione si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi. ​​​​​​​L’esame della sopra richiamata disciplina eurounitaria non consente, sul piano dell’interpretazione letterale, di isolare espressioni precettive che, in via diretta ed in modo univoco, affermino o escludano che le imprese di allevamento avicolo danneggiate debbano essere in esercizio alla data della domanda e/o del pagamento dell’aiuto. ​​​​​​​E, infatti, le alternative opzioni esegetiche sopra passate in rassegna valorizzano il distinto canone discretivo che impinge negli obiettivi perseguiti dalla legislazione di settore e la coerenza della (diversa) soluzione proposta con la ratio legis.  ​​​​​​​Nella suddetta prospettiva, se la dichiarata finalità di “sostegno al mercato” evincibile dal quadro regolatorio di riferimento sembra avallare l’approdo ermeneutico seguito dal TAR quanto alla natura dell’aiuto, dall’altro lato occorre riconoscere che il dato letterale così ampio della richiamata espressione non consente di escludere, con sufficiente grado di certezza, l’interpretazione alternativa sostenuta dall’impresa appellante. ​​​​​​​E ciò vieppiù in considerazione del fatto che la disciplina europea non sembra richiedere né la presentazione di un progetto di investimento che fornisca la certezza che l’aiuto verrà impiegato nell’attività di impresa e quindi reimmesso nel mercato di riferimento (così da poterlo effettivamente sostenere pro futuro). ​​​​​​​Il contenuto non univoco della disciplina dei requisiti soggettivi di accesso alla misura e l’assenza di meccanismi di verifica del reimpiego del beneficio in azienda determinano, dunque, un’obiettiva incertezza in ordine alla corretta individuazione della natura dell’aiuto e dei suoi presupposti di erogazione quanto ai requisiti di legittimazione dei beneficiari. ​​​​​​​Senza contare che, a ben vedere, la stessa finalità di “sostegno al mercato” potrebbe essere soddisfatta, ancorché indirettamente, anche qualora la natura degli aiuti in questione avesse una valenza di tipo indennitario. La previsione di misure di compensazione di natura riparatoria a favore degli imprenditori attivi al tempo del danno e non necessariamente anche al tempo della domanda, infatti, potrebbe costituire una garanzia per i consumatori che, in presenza di epizoozie, avrebbero così la certezza del rispetto delle misure sanitarie da parte degli operatori del settore. In altri termini, l’erogazione di indennizzi agli operatori che hanno subito danni per aver rispettato le ordinanze sanitarie preordinate a fronteggiare le epizoozie potrebbe avere effetti positivi sull’intero mercato rafforzando, da un lato, la convinzione nelle imprese esistenti che il rispetto delle misure sanitarie non sia per loro produttivo di danni irreparabili e, dall’altro, la fiducia dei consumatori nei confronti degli operatori del settore. ​​​​​​​Ha ancora chiarito la Sezione che la finalità primaria dichiarata nella legislazione eurounitaria di voler sostenere il mercato dovrebbe di per sé escludere, in apice, dalla platea dei possibili beneficiari gli operatori economici che abbiano cessato l’attività prima della domanda.  ​​​​​​​L’obiettivo perseguito evoca, infatti, con immediatezza, ai fini qui in rilievo, l’insieme delle imprese attive nel singolo settore produttivo, nella specie quello delle carni di pollame in Italia, anche in ragione della necessità che alla concessione della misura si agganci l’effetto cd. di incentivazione nel senso cioè di favorire la genesi di iniziative supplementari idonee a implementare la tenuta ovvero lo sviluppo del settore, iniziative che i suddetti operatori non svolgerebbero senza l’aiuto ovvero svolgerebbero solo in modo limitato.  ​​​​​​​Né il suindicato principio può patire eccezione in ragione del regime di presunzione che governa gli aiuti connessi ad eventi eccezionali in quanto, in tali circostanze, è l’esperienza maturata che consente, unitamente al criterio di ragionevolezza, di ritenere in re ipsa, nel caso di imprese attive, la strumentalità funzionale della misura rispetto agli obiettivi generali di sostegno del mercato siccome volta a neutralizzare i costi dei danni subiti come diretta conseguenza dell’evento eccezionale. ​​​​​​​Diversamente opinando, e proprio nel caso di anticipata cessione dell’azienda, si verificherebbe, a voler privilegiare una funzione meramente riparatoria della misura, l’effetto distorsivo di dover escludere dalla platea dei legittimati i soggetti cessionari e, dunque, proprio gli attuali titolari dell’azienda, vale a dire coloro che concorrono a comporre, nel loro insieme, il mercato da sostenere. ​​​​​​​Nondimeno, trattandosi di una scelta di politica economica (quali categorie includere o escludere da una determinata misura economica) essa dovrebbe emergere dalla lettera delle norme in modo chiaro e univoco al fine di orientare in modo coerente le determinazioni applicative. In mancanza, e a fronte di un’esplicita e reiterata sollecitazione dell’appellante, si ritiene necessario per tutte le ragioni già esposte acquisire indicazioni nomofilattiche sulle sovraordinate disposizioni del diritto eurocomunitario.
Animali
Processo amministrativo - Rito appalti - Modifiche all’art. 120 ex art. 4, d.l. n. 76 del 2020 – Quando iniziano ad applicarsi.                  Le modifiche introdotte dall’art. 4, d.l. 16 luglio 2020, n. 76, all’art. 120 c.p.a., hanno natura processuale e sono applicabili, secondo il generale principio del tempus regit actum, alle controversie soggette al c.d. rito appalti chiamate in decisione nelle udienze cautelari calendarizzate in una data successiva alla loro entrata in vigore (1).                         (1) Ha chiarito la Sezione che la disposizione dell’art. 120, commi 6 e 9, c.p.a., è stata di recente modificata dall’art. 4 del decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, rubricato “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale” (pubblicato sulla GURI n. 178 del 16 luglio 2020 – Serie Generale ed entrato in vigore il giorno 17 luglio 2020) che ha introdotto nuove regole processuali nel c.d. rito appalti, alcune delle quali hanno come destinatari tutti gli operatori del diritto ed altre invece in particolare il giudice. Sotto il primo profilo viene in rilievo il nuovo comma 6 dell’art. 120 del c.p.a. secondo cui “Il giudizio è di norma definito, anche in deroga al comma 1, primo periodo dell’articolo 74, in esito all’udienza cautelare ai sensi dell’articolo 60, ove ne ricorrano i presupposti e, in mancanza, viene comunque definito con sentenza in forma semplificata ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente”. Sotto il secondo profilo viene in rilievo il nuovo comma 9 del medesimo articolo ai sensi del quale “Il giudice deposita la sentenza con la quale definisce il giudizio entro quindici giorni dall’udienza di discussione. Quando la stesura della motivazione è particolarmente complessa, il giudice pubblica il dispositivo nel termine di cui al primo periodo, indicando anche le domande eventualmente accolte e le misure per darvi attuazione, e comunque deposita la sentenza entro trenta giorni dall’udienza”.  La riforma legislativa ha carattere ordinamentale ed è ispirata dalla finalità di ottenere il rilancio dell’economia attraverso l’ulteriore contrazione dei tempi di definizione dei contenziosi amministrativi indicati nell’art. 120, comma 1, c.p.a., (riguardanti le “procedure di affidamento, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse, relativi a pubblici lavori, servizi o forniture, nonché i provvedimenti dell'Autorità nazionale anticorruzione ad essi riferiti, sono impugnabili unicamente mediante ricorso al tribunale amministrativo regionale competente“) per i quali era (ed è) già prevista una disciplina processuale ispirata alla medesima ratio e che si pone parzialmente in deroga alle ordinarie regole del codice del processo amministrativo.  Le previsioni normative introdotte dall’art. 4, d.l. 16 luglio 2020, n. 76, hanno dunque natura processuale e sono applicabili, secondo il generale principio del tempus regit actum, alle controversie soggette al c.d. rito appalti chiamate in decisione nelle udienze cautelari calendarizzate in una data successiva alla loro entrata in vigore.  In applicazione delle coordinate ermeneutiche sopra tracciate, il giudizio viene quindi “di norma definito”, ai sensi dell’art. 120 c.p.a., ratione termporis vigente, in esito all’odierna udienza cautelare, ricorrendo nella specie i presupposti di legge previsti dall’art. 60 c.p.a.. ​​​​​​​
Processo amministrativo
Covid-19 – Misure di contenimento del contagio – Dispositivi di protezione personale – Obbligo per gli alunni durante le lezioni – D.P.C.M. 14 gennaio 2021 – Illegittimità.   ​​​​​​​         E’ illegittimo il d.P.C.M. 14 gennaio 2021 nella parte in cui impone l’uso delle mascherine  a scuola anche in situazione di rispetto delle distanze previste dalla normativa emergenziale Civid-19 e senza prevedere alcuna misura al fine di garantire che un minore, pur privo di patologie conclamate, possa essere esonerato dall’uso della mascherina in classe ove risenta di cali di ossigenazione o di altri disturbi o difficoltà; tale d.P.C.M. si discosta dalle risultanze del Comitato Tecnico Scientifico (CTS) senza motivare e senza richiamare evidenze istruttorie di diverso avviso, in ipotesi ritenute prevalenti rispetto al parere tecnico-scientifico del CTS (1).    (1) V. Tar Lazio, sez. I, 19 febbraio 2021, n. 2102. Il Tar preliminarmente precisa che il ricorso è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse della domanda di annullamento di tutti gli atti impugnati, che hanno cessato di produrre i loro effetti. Cionondimeno, il Tar verifica la legittimità del d.P.C.M., essendo stata formulata riserva di azione risarcitoria, sebbene in modo generico, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a..   Quanto al d.P.C.M. 2 marzo 2021, la Sezione ha già evidenziato l’effetto di formale legificazione delle misure in contestazione (cfr. Tar Lazio, sez. I, 28 maggio 2021, n. 6307) e, dunque, la loro non sindacabilità trattandosi di atti non amministrativi.  
Covid-19
Contratti della Pubblica amministrazione – Cessione di azienda – Cessione di ramo di azienda – Debiti – Assunzione – Limiti.       In caso di cessione di ramo d’azienda, ove la cedente sia in amministrazione straordinaria, la cessionaria, salva diversa convenzione tra le parti, non assume i debiti dell’azienda ceduta maturati in qualunque momento antecedente al trasferimento, nemmeno di natura tributaria (1).    (1) Ha ricordato il C.g.a. che l’art. 63, comma 5, d.lgs. n. 270 del 1999 stabilisce che, salva diversa convenzione, è esclusa la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, anteriori al trasferimento. L’art. 2560 c.c., rubricato “debiti relativi all’azienda ceduta”, dispone che “l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. Nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori”. Pertanto, secondo la disposizione civilistica, chi aliena l’azienda non è liberato dai debiti, ma ne risponde anche l’acquirente se si tratta di azienda commerciale e se essi risultano dai libri contabili obbligatori. In presenza di questi elementi, quindi, tra alienante ed acquirente si configura una responsabilità solidale verso i terzi per i debiti aziendali, tramite un accollo cumulativo ex lege. Nella cessione di un’azienda commerciale disciplinata dal codice civile, quindi, la regola è costituita dalla responsabilità solidale tra cedente e cessionario per i debiti pregressi, salvo l’eventuale consenso dei creditori alla liberazione dell’alienante. Ne consegue che il cessionario, in via solidale o, eventualmente, esclusiva, risponde sempre dei debiti dell’azienda ceduta maturati anteriormente al trasferimento. Un sistema diverso è stabilito per le procedure concorsuali, dove la regola è opposta, vale a dire che il cessionario dell’azienda o del ramo di azienda non è responsabile dei debiti anteriori al trasferimento, salva diversa convenzione.  In tal senso, l’art. 105, comma 4, del R.D. n. 267 del 1942 (legge fallimentare) dispone che, “salva diversa convenzione, è esclusa la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento”. Analogamente, per quanto di maggiore interesse in questa sede, l’art. 63, comma 5, del d.lgs. n. 270 del 1999, in caso di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, prevede che, “salva diversa convenzione, è esclusa la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, anteriori al trasferimento”. Il C.g.a. ha ritenuto di optare per un’interpretazione sistematica della disposizione che, come d’altra parte emerge dalla stessa lettera della legge, porta a comprendere nel perimetro di esclusione della responsabilità solidale del cessionario dell’azienda o del ramo d’azienda tutti i debiti maturati antecedentemente al trasferimento, non solo quelli venuti in essere durante la gestione commissariale. L’obiettivo della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, come emerge dall’art. 1, d.lgs. n. 270 del 1999, è la conservazione del patrimonio produttivo mediante la prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali, sicché essa si distingue dalle soluzioni liquidatorie delle altre procedure concorsuali (il fallimento, il concordato preventivo e la liquidazione coatta amministrativa) che non tengono in considerazione rilevanti interessi, privati e pubblici e la cui funzione è semplicemente quella di tutelare l'interesse dei creditori a soddisfarsi sul patrimonio dell'imprenditore insolvente. L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, quindi, è l’istituto previso nell’ordinamento del diritto fallimentare che riguarda la grande impresa commerciale insolvente e la sua ratio riposa nell’esigenza di creare una procedura concorsuale idonea a conciliare interessi differenti, quali, da un lato, il soddisfacimento dei creditori dell’imprenditore insolvente, dall’altro, il salvataggio del complesso produttivo e la conservazione dei posti di lavoro. La finalità, in definitiva, è quella di evitare soluzioni liquidatorie che non tengano conto dei rilevanti interessi pubblici e privati, alla conservazione e al risanamento dell’impresa. Di talché, è consequenziale ritenere che, al fine di tendere alla realizzazione degli obiettivi indicati, la vendita dell’azienda o del ramo d’azienda debba essere appetibile per i potenziali acquirenti, il che ha indotto il legislatore ad escludere la regola della solidarietà passiva per i debiti contratti anticipatamente al trasferimento. In altri termini, una tale responsabilità costituirebbe un elemento fortemente dissuasivo alla partecipazione di potenziali interessati all’acquisto dei complessi aziendali tramite vendita competitiva. Inoltre, si creerebbe una incompatibilità tra la responsabilità dell’acquirente cessionario per i debiti aziendali risultanti dalle scritture contabili ed il principio della par condicio creditorum, in quanto si dovrebbe riconoscere all’acquirente dell’azienda un diritto di regresso verso la massa passiva o, finanche, uno sconto sul prezzo delle attività aziendali vendute, con conseguenze pregiudizievoli per l’intera massa e, in particolare, per i creditori il cui credito non risulti dalle scritture contabili. La questione, invero, era stata in passato molto dibattuta con riferimento alla responsabilità solidale per i debiti tributari, atteso che l’art. 14, comma 1, d.lgs. n. 472 del 1997 stabilisce che il cessionario è responsabile in solido, fatto salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente ed entro i limiti di valore dell’azione o del ramo d’azienda, per il pagamento dell’imposta e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti, nonché per quelle già irrogate e contestate nel medesimo periodo anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore. La solidarietà tributaria, quindi, attiene ai debiti per imposte e sanzioni che, in genere, restano in capo al cedente. Pertanto, costituisce oggetto di discussione se tale norma, prevalga anche sulla norma prevista per le cessioni delle aziende in amministrazioni straordinaria la quale, come visto, all’art. 63, comma 5, del d.lgs. n. 270 del 1999, esclude la responsabilità solidale del cessionario in caso di cessione di azienda (o di ramo di azienda). Il C.g.a., trattandosi di due norme qualificabili entrambe come “speciali” rispetto all’art. 2560, comma 2, c.c., ha ritenuto che, in base al criterio cronologico, debba avere comunque prevalenza la norma contenuta nell’art. 63, comma 5, del d.lgs. n. 270 del 1999. La questione, in ogni caso, è stata risolta dall’art. 16, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 158 del 2015, che ha introdotto il comma 5-bis all’art. 14, d.lgs. n. 472 del 1997, stabilendo che, salva l’applicazione del comma 4 (casi di cessione attuata in frode ai crediti tributari), la disposizione sulla responsabilità in solido non trova applicazione quando la cessione avviene nell’ambito, tra l’altro, di una procedura concorsuale. La deroga ha natura di norma interpretativa, per cui si applica anche agli atti posti in essere prima del 1° gennaio 2016, ovvero prima della sua entrata in vigore. Sul tema Sul tema, alla conclusione della retroattività della norma di cui al comma 5-bis dell’art. 14, d.lgs. n. 472 del 1997, è pervenuta la stessa Agenzia delle Entrate con la risposta ad interpello n. 21 del 6 dicembre 2019. D’altra parte, come già evidenziato, esistono plurime ragioni che ostano all’applicazione della solidarietà nei confronti delle cessioni di azienda perfezionate nell’ambito delle procedure concorsuali. La materia delle procedure concorsuali è governata dal principio di parità di trattamento, dall’accertamento unitario del passivo in forza di regole comuni e dalla distribuzione dell’attivo nel rispetto del titolo di preferenza riconosciuto a ciascun creditore. In altri termini, le procedure concorsuali hanno elementi comuni, nel senso che sono procedure generali e collettive, coinvolgono tutto il patrimonio dell’impresa, non singoli beni, e devono assicurare la par condicio creditorum, ovvero la parità di trattamento di tutti i creditori, vale a dire che, come tutti i creditori hanno fatto affidamento sulla prosperità dell’impresa, tutti devono subire le conseguenze della crisi in modo paritario. I creditori assistiti da una garanzia, di fonte legale o negoziale, quindi, partecipano ai riparti secondo l’ordine gerarchico del rispettivo titolo di prelazione, ma possono agire per il residuo nei confronti del garante o del condebitore solidale, per cui si può concretamente prospettare un’alterazione dell’ordine gerarchico se un creditore di grado minore gode di un titolo ulteriore rispetto a quelli di grado superiore. ​​​​​​​La sovrapposizione del titolo di preferenza con un beneficio di altra natura produrrebbe un’irrazionalità sul piano endoconcorsuale, ancorché derivante da una previsione legislativa, perché determinerebbe la distinzione tra crediti della stessa natura, di titolarità del medesimo creditore ed assistiti dallo stesso titolo di prelazione. 
Contratti della Pubblica amministrazione
Processo amministrativo – Prove – Giurisdizione esclusiva - Accertamento del credito – Onere della prova – E’ dell’Amministrazione l’onere di provare la causa pretendi del diritto di credito              Nell’ambito della giurisdizione esclusiva, il giudice amministrativo conosce dei diritti connessi all’esercizio del potere e delle relative azioni a loro tutela, ivi inclusa, in particolare, quella di accertamento negativo del credito che implica una inversione dell’onere della prova in ordine alla sussistenza del diritto di cui si domanda l’adempimento; non è, pertanto, il ricorrente debitore a dover dimostrare l’insussistenza del credito vantato dall’Amministrazione nei suoi confronti, ma è quest’ultima a dover allegare e provare la causa pretendi del diritto di credito al quale corrisponde l’obbligazione di cui si pretende l’adempimento (1).      (1) Ha chiarito la Corte di Cassazione (Sez. un., n. 13533 del 2001; n. 24568 del 2013; n. 14965 del 2012; n. 12108 del 2010; n. 20870 del 2019) secondo cui in tema di riparto dell'onere della prova ex art. 2697 c.c., l'onere di provare i fatti costitutivi del diritto grava sempre su colui che si afferma titolare del diritto e intende farlo valere, anche ove sia convenuto in giudizi di accertamento negativo promosso dalla controparte per contestare la esistenza di quel diritto. ​​​​​​​
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Principio di sinteticità – Istanza autorizzazione al superamento limiti dimensionali - Memoria dell’appellata per riproporre motivi non esaminati dalla appellata ordinanza cautelare di primo grado – Diniego.  ​​​​​​​        Deve essere respinta l’istanza di autorizzazione al superamento di limiti dimensionali depositata dalla parte appellata in relazione alla memoria di costituzione e risposta in corso di deposito, istanza motivata dalla necessità di riproporre motivi non esaminati dalla appellata ordinanza cautelare di primo grado che ha accolto la domanda di sospensione in primo grado, e ciò in quanto l’onere di riproposizione espressa di domande ed eccezioni di primo grado, da parte dell’appellato vittorioso in primo grado, ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a. riguarda il solo caso di appello su sentenza e non si estende al caso di appello su ordinanza cautelare, dove, proseguendo il giudizio in primo grado, nessuna decadenza consegue alla omessa riproposizione in appello con memoria di tutti i motivi del primo grado (1).    (1) Ha aggiunto il decreto che la valutazione che il giudice di secondo grado compie in caso di appello su ordinanza cautelare è necessariamente sintetica e complessiva e, da un lato, non esige l’esame puntuale di tutti i motivi del ricorso di primo grado, mentre, dall’altro lato, va compiuta esaminando direttamente il fumus boni iuris e il periculum in mora in relazione al ricorso di primo grado valutato sinteticamente e complessivamente, e accessibile telematicamente d’ufficio insieme a tutto il fascicolo di primo grado, a prescindere da una analitica riproposizione di tutti i motivi mediante memoria ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a.. 
Processo amministrativo
Pubblica amministrazione – Ministeri – Ministero dell'economia e delle finanze – Nuovo regolamento di organizzazione – Adeguamento entro il 30 settembre 2020.                 Ai sensi degli artt. 16 ter, comma 7, d.l. 26 ottobre 2019, n. 124 e 116, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, l'organizzazione del Ministero dell'economia e delle finanze, compresa quella degli uffici di diretta collaborazione, è adeguata entro il 30 settembre 2020 (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che le modifiche al regolamento si sono rese necessarie, ad avviso del Ministero richiedente, per adeguare il d.P.C.M. n. 103 del 2019, che aveva approvato il regolamento in vigore, alle disposizioni di legge nel frattempo sopravvenute (art. 16 ter, d.l. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito, con modificazioni, dalla l. 19 dicembre 2019, n. 157; l. 27 dicembre 2019, n. 160 e d.l. 9 gennaio 2020, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla l. 5 marzo 2020, n. 12), avente ad oggetto il potenziamento dell'amministrazione finanziaria, nonché introduce ulteriori modifiche formali e di coordinamento volte a rendere l'assetto organizzativo coerente con l'impianto normativo vigente nel rispetto delle attribuzioni del Dicastero. Il parere - in relazione alla possibilità di introdurre regolamenti di organizzazione tramite decreti del Presidente del Consiglio dei ministri - ha premesso che l’art. 4 bis, d.l. 12 luglio 2018, n. 86, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2018, n. 97 (come modificato dall'art. 16 ter, comma 7, d.l. n. 124 del 2019), per semplificare ed accelerare il riordino dell'organizzazione dei Ministeri, ha disposto che fino al 30 giugno 2019 i regolamenti di organizzazione dei Ministeri,  ivi inclusi quelli degli uffici di diretta collaborazione, possono essere adottati con d.P.C.M., su proposta del Ministro competente, di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e con il Ministro dell'economia e delle finanze, previa delibera del Consiglio dei ministri. È altresì disposto che i decreti previsti siano soggetti al controllo preventivo di  legittimità della Corte dei conti ai sensi dell'art. 3, commi da 1 a 3, l. 14 gennaio 1994, n. 20 e al parere del Consiglio di Stato. La legge ha inoltre previsto che, a decorrere dalla data di efficacia di ciascuno dei decreti, cessa di avere vigore, per il Ministero interessato, il regolamento di organizzazione vigente. Con specifico riferimento poi al Ministero richiedente, l'art. 16 ter, comma 7, d.l. 26 ottobre 2019, n. 124 ha previsto che l'organizzazione del Ministero dell'economia e delle finanze, compresa quella degli uffici di diretta collaborazione, è adeguata entro il 30 giugno 2020. Tale termine è stato infine prorogato al 30 settembre 2020 dall’art. 116, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, data quest’ultima a decorrere dalla quale – a meno che vi siano ulteriori modifiche normative – troverà nuovamente applicazione quanto stabilito dall’art. 17,  l. 23 agosto 1988, n. 400.
Pubblica amministrazione
Informativa antimafia – Disciplina – Valutazione conseguente alla  mancanza di mezzi di sostentamento – Art. 92, d.lgs. n. 159 del 2011 – Esclusione – Mancata rimessione alla Corte costituzionale – Erroneità della sentenza di primo grado – Esclusione – Condizione.              Non è erronea la sentenza del giudice di primo grado che non avrebbe valutato la sospensione e/o rimessione alla Corte cost. dell'art. 92, d.lgs. n. 159 del 2011, che in materia di interdittive antimafia preclude al Prefetto la possibilità di escludere le decadenze ed i divieti previsti, nel caso di mancanza dei mezzi di sostentamento all'interessato ed alla sua famiglia; ed invero, in assenza di precisi dati a riguardo, non vi sono elementi per ritenere inficiato il provvedimento interdittivo che – al contrario – appare giustificato dalla motivata necessità di prevenire il pericolo del fenomeno mafioso, i cui aspetti di perniciosità sono stati da ultimo evidenziati dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 26 marzo 2020, n. 57 quanto alle conseguenti lesioni della libera concorrenza, nonché della dignità e libertà umana (1).    (1) V. l’ordinanza del Tar Reggio Calabria 11 dicembre 2020, n. 732, che ha rimesso la questione alla Corte costituzionale    Ha ricordato la Sezione che l’avvenuta interdizione determina un’incapacità giuridica ex lege ad essere titolare di rapporti giuridici con la pubblica amministrazione. Il legislatore, infatti, vieta alle amministrazioni di stipulare, approvare o autorizzare contratti o subcontratti, autorizzare, rilasciare o, comunque, consentire concessioni ed erogazioni di denaro a favore di operatori economici, nei confronti dei quali sussista una causa di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67 o un tentativo di infiltrazione mafiosa, di cui all’art. 84, comma 4, ed all’art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011 (art. 94, d.lgs. 159/2011). Secondo la giurisprudenza consolidata, l’incapacità in parola ha natura parziale in quanto limitata ai rapporti giuridici con la pubblica amministrazione e temporanea in quanto può cessare o per effetto dell’annullamento (amministrativo o giudiziario del provvedimento de quo) o per effetto di un successivo provvedimento del Prefetto, che attesta il venir meno delle condizioni ostative precedentemente riscontate, nel senso di precludere all’imprenditore (persona fisica o giuridica) la titolarità della posizione soggettiva, che lo renderebbe idoneo a ricevere somme dovutegli dalla pubblica amministrazione, anche a titolo risarcitorio in relazione ad una vicenda sorta dall’affidamento (o dal mancato affidamento) di un appalto (Cons. Stato, Ad. plen. N. 3 del 2018).
Informativa antimafia
Straniero – Permesso di soggiorno – Provvedimento amministrativo – Sopravvenienze         Di regola, la legittimità del provvedimento impugnato va vagliata al momento della sua adozione, sulla scorta del principio del tempus regit actum, essendo irrilevanti le circostanze sopravvenute. Nella specifica materia dell’immigrazione, il giudizio amministrativo, come giudizio sulla situazione giuridica soggettiva e non solo sull’atto impugnato, impone la valutazione degli elementi che si sono effettivamente concretizzati nelle more tra l’istanza presentata, il suo esame da parte dell’amministrazione ed il giudizio dinanzi al giudice, specie quando emergano elementi per il riconoscimento di altro titolo di soggiorno, perché, se è vero che questi ultimi non possono incidere sulla legittimità formale dell’atto, possono comunque incidere sulla situazione giuridica dell’interessato, che può essere irrimediabilmente compromessa dalla loro pretermissione, con pregiudizio a diritti fondamentali della persona umana. L’amministrazione, pertanto, nell’esercizio del suo potere, deve tenere in debito conto le circostanze sopravvenute che, anche se non conoscibili perché non esistenti al momento dell’adozione dell’atto, comunque hanno modificato la situazione giuridica dell’interessato e possono, nel rispetto della normativa vigente e in concorrenza degli ulteriori indefettibili presupposti, condurre ad una nuova valutazione ed un differente esito procedimentale (1, 2).   (1) Ha precisato la Sezione che tale soluzione trova conforto in una prospettiva del processo amministrativo inteso come giudizio meramente impugnatorio in cui al centro della valutazione del Giudice sta solo la legittimità dell’atto al momento della sua adozione. In questa prospettiva, il sindacato di legittimità dell’atto si limita alla verifica della ragionevolezza e della proporzionalità della decisione dell’amministrazione secondo quanto conosciuto dalla stessa al momento in cui aveva maturato la propria determinazione. Questa impostazione, legata alla qualificazione del giudizio amministrativo come meramente impugnatorio, non sempre risulta adeguata alla funzione assegnata al giudice amministrativo dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo e alla luce della successiva giurisprudenza sovranazionale e interna. Ciò tanto più nelle ipotesi in cui oggetto del giudizio sono diritti fondamentali della persona umana che possono trovare tutela nel quadro di un idoneo bilanciamento con i valori essenziali della sicurezza e della sostenibilità dei flussi migratori. Da tempo la giurisprudenza ha dato atto della trasformazione del processo amministrativo “da giudizio amministrativo sull’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata” (cfr. Adunanza Plenaria, 2011, n. 3). È proprio in questi casi in cui il bene della vita da tutelare ha natura personale che oggetto della valutazione giudiziale non può essere solo il provvedimento in sé poiché essa deve necessariamente avvolgere la situazione giuridica soggettiva che fa da sfondo alla vicenda procedimentale. Se a ciò si aggiungono gli ultimi approdi sull’inesauribilità del potere amministrativo e la specifica funzione riconosciuta al giudicato amministrativo e al giudizio di ottemperanza, diventa chiaro che il giudice amministrativo non può più limitarsi ad una valutazione di tipo statico, ancorata al provvedimento impugnato ma dovrà operare una valutazione di tipo dinamico – fermi restando il potere discrezionale dell’amministrazione competente e il divieto assoluto di sindacato esteso al merito – al fine di evitare il concretizzarsi di un pregiudizio per la situazione giuridica sostanziale. Sul punto occorre rilevare che è vero che, come sottolineato dal giudice di prime cure, la valutazione discrezionale e ponderata di pericolosità sociale compiuta dall’Amministrazione può basarsi anche su elementi e condotte non ancora necessariamente cristallizzate in un provvedimento di condanna, ma è altresì vero che la sopravvenuta pronuncia di assoluzione, specie laddove essa intervenga, come è nel presente caso di maltrattamenti, con formula piena, impone una rimeditazione della decisione amministrativa alla luce di un quadro che risulta ormai completamente diverso in punto di fatto e di diritto completamente, quadro che impatta in maniera decisiva sulla situazione giuridica dell’appellante. (2) Per gli stessi principi, cfr. anche la coeva: ​​​​​​​Cons. St., sez. III, sent., 1 giugno 2022, n. 4471 - Pres. ed Est. Corradino
Straniero
Paesaggio – Tutela – Vincolo paesaggistico – Aree boscate – Presupposto – Individuazione.    Urbanistica – Piano paesaggistico territoriale – Bosco – Individuazione.                        Il vincolo paesaggistico ex lege per le aree boscate presuppone a monte la sussistenza in natura del bosco, così come definito dal legislatore, e a valle, in ragione della natura del vincolo, il provvedimento certativo adottato dall'autorità amministrativa competente che ne attesti, con efficacia ex tunc, l'effettiva esistenza (1).             E’ legittimo il Piano paesaggistico territoriale (PPTR)  che classifica una intera area come “bosco” includendo in tale classificazione anche particelle sulle quali sono stati realizzati fabbricati, previo rilascio del permesso di costruire, e ciò in quanto tali particelle non possono essere considerate avulse dall’intero contesto; né la zonizzazione come bosco è contraddetta dalla parziale assenza di vegetazione boschiva, atteso che dal combinato disposto degli artt. 3 e 4, d.lgs. n. 34 del 2018 e 149, d.lgs. 42 del 2004 si evince l’assimilazione al bosco sia delle aree forestali temporaneamente prive di copertura arborea e arbustiva, sia delle radure e di tutte le altre superfici di estensione inferiore a 2.000 mq che interrompono la continuità del bosco (1).    (1) La Sezione ha ricordato che sulla nozione di bosco vi è un orientamento consolidato nella giurisprudenza nazionale. Infatti, ormai da anni, si ritiene che la nozione di "bosco", richiamata ai fini della tutela paesaggistica è, in principio, nozione normativa perché fa espresso riferimento alla definizione oggi dettata dagli artt. 3 e 4, d.lgs. n. 34 del 2018, postulanti la presenza di un terreno di una certa estensione, coperto con una certa densità da vegetazione forestale arborea e - tendenzialmente almeno - da arbusti sottobosco ed erbe.  In particolare, il giudice amministrativo ha affermato che un bosco rappresenta un sistema vivente complesso insediato in modo tale da essere in grado di autorigenerarsi, così dissipando del tutto l'idea che per bosco debba intendersi l'insieme monocultura di alberi destinati, ad esempio, alla produzione di legname (Cons. Stato, sez. IV, 4 marzo 2019 n. 1462). Anche la giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. Corte cost. n. 201 del 2018) rammenta che l'art. 149, d.lgs. 42 del 2004 ha escluso dall'ambito di applicazione dell'autorizzazione paesaggistica proprio le attività, quali il taglio colturale, che rappresentano attività di gestione e di manutenzione ordinaria della aree boscate. Ciò a riprova del fatto che la nozione di bosco non è in alcun modo riducibile a quella di un insieme di alberi (Cons. Stato, sez. VI, 2 dicembre 2019, n. 8242). Sempre in tema di definizione di bosco, accanto alla nozione normativa di bosco, la giurisprudenza fa riferimento ad una nozione sostanziale perché la finalità di tutela del paesaggio, sottesa alla nozione di bosco, implica il rispetto della ragionevolezza e della proporzionalità in relazione a tale finalità, con la conseguenza che foreste e boschi sono presunti di notevole interesse e meritevoli di salvaguardia perché elementi originariamente caratteristici del paesaggio, cioè del “territorio espressivo di identità” (Cons. Stato, sez. V, 10 agosto 2016 n. 3574); il che equivale a dire che la nozione normativa di bosco, per la giurisprudenza, deve essere affiancata da una nozione sostanziale perché essa è finalizzata all’apposizione del vincolo di tutela paesaggistica.  La Corte di Cassazione, in sede penale, con sentenza sez. III, 17 ottobre 2019, n. 9402, ha poi aggiunto che solo le Regioni possono, nell'ambito della potestà legislativa concorrente in subiecta materia, integrare per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate aree; conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall’art. 142, d.lgs. n. 42 del 2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali.  Il vincolo paesaggistico ex lege per le aree boscate presuppone, dunque, a monte la sussistenza in natura del bosco, così come definito dal legislatore, e a valle, in ragione della natura del vincolo, il provvedimento certativo adottato dall'autorità amministrativa competente che ne attesti con efficacia ex tunc l'effettiva esistenza. ​​​​​​​
Paesaggio
Processo amministrativo – Procura alle liti – Cancellazione dell’avvocato dall’albo - Interruzione del giudizio.    Processo amministrativo – Procura alle liti – Cancellazione dell’avvocato dall’albo – Omessa interruzione del giudizio – Conseguenza.    Processo amministrativo – Perenzione – Opposizione – Conseguenza – Non equivale a riassunzione.                   Processo amministrativo – Contraddittorio – Lesione del diritto di difesa – Conseguenza.          Ai sensi dell’art. 301 c.p.c., la cancellazione dell’avvocato dall’albo, anche a domanda, integra una causa di interruzione del giudizio, determinando la simultanea perdita per il difensore dello ius postulandi dal lato attivo e passivo e l’obbligo per il giudice di rilevarla a tutela del diritto di difesa della parte colpita dall’evento interruttivo (1).              L’attività processuale posta in essere dopo il decesso o l’impedimento del difensore, senza che sia stata dichiarata l’interruzione del giudizio, è invalida e ridonda in una ipotesi di nullità della sentenza per difetto funzionale del contraddittorio tale da integrare una delle tassative cause di rinvio della causa al giudice di primo grado previste dall’art. 105, comma 1, c.p.a. (2).              L’opposizione a decreto di perenzione emanato nel corso del giudizio di primo grado, non può essere considerata, quoad effectum, utile ai fini della riassunzione del giudizio medesimo; a tanto si oppone la considerazione della diversa natura giuridica, del diverso contenuto e dei differenti presupposti dei due atti processuali di parte e, conseguentemente, della loro non sovrapponibilità anche ai fini di cui all’art. 32, comma 2, c.p.a.; l’opposizione ha, infatti, natura di mezzo di impugnazione di un provvedimento del giudice capace di passare in giudicato, mentre gli atti di impulso di parte, strumentali alla riattivazione del processo entrato in una fase di stasi ope legis, presuppongono la conoscenza legale della esistenza dell’evento interruttivo o sospensivo (3).              La gravità del vizio che investe gli atti processuali lesivi del diritto di difesa, al punto da imporre la regressione del giudizio, è tale da derogare al principio per cui le cause di nullità della sentenza si convertono in motivi di impugnazione; trattandosi di questioni che attengono alla regolare costituzione e prosecuzione del rapporto processuale, possono essere delibate d’ufficio per la prima volta direttamente in sede di appello con le uniche eccezioni che si tratti di questione di giurisdizione e competenza, ovvero che vi sia stata una statuizione espressa coperta dalla forza del giudicato interno.    (1) Cons. Stato, sez. IV, n. 1249 del 2018, sez. III, n. 925 del 2016; Cass. civ., sez. un, n. 3702 del 2017.  Ha chiarito la Sezione che la declaratoria di estinzione del giudizio per omessa o tardiva riassunzione o prosecuzione presuppone la conoscenza legale dell’evento interruttivo, secondo le forme tipizzate (art. 80, commi 2 e 3, c.p.a., cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 8112 del 2020; n. 4587 del 2018), e deve avere ad oggetto anche la cancellazione del difensore del comune dall’albo.     (2) Cons. Stato, Ad. plen., n. 15 del 2018; id. n. 14, n. 11 e n. 10 del 2018. (3) Cons. Stato, sez. IV, n. 8112 del 2020. (4) Cons. Stato, Ad. plen., n. 15 del 2018; id. n. 4 del 2018.​​​​​​​
Processo amministrativo
Militari, forze armate e di polizia – Procedimenti disciplinari - Sanzione disciplinare di corpo – Per adesione ad associazione sindacale non autorizzata – Legittimità della sanzione.              E’ legittima la sanzione disciplinare di corpo della “consegna” di sette giorni irrogata ad un carabiniere per aver aderito ad una associazione sindacale non autorizzata (1).    (1) La Corte costituzionale, con sentenza 13 giugno 2018, n. 120, ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, d.lgs. n. 66 del 2010 (Codice dell’ordinamento militare) in quanto prevede che «I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali», invece di prevedere che «I militari possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale alle condizioni e con i limiti fissati dalla legge; non possono aderire ad altre associazioni sindacali».  In particolare, come già rilevato dalla Sezione, la Corte costituzionale:  a) ha ribadito che la costituzione di associazioni fra militari è subordinata al previo assenso ministeriale, come stabilito dall’art. 1475, comma 1, d.lgs. n. 66 del 2010: “si tratta di una condizione di carattere generale valida a fortiori per quelle a carattere sindacale, sia perché species del genere considerato dalla norma, sia per la loro particolare rilevanza”; b) ha evidenziato che il carattere democratico di tali associazioni e la relativa neutralità rivestono importanza “fondamentale”, alla luce dei principi desumibili dagli articoli 39, 52, 97 e 98 Cost.; c) ha precisato che il preventivo scrutinio ministeriale “comporta, in particolare, l’esame dell’apparato organizzativo, delle sue modalità di costituzione e di funzionamento” e che, nell’ambito di tale scrutinio, “spiccano per la loro rilevanza il sistema di finanziamento e la sua assoluta trasparenza”; d) ha ribadito il “divieto di esercizio di sciopero”, giustificato “dalla necessità di garantire l’esercizio di altre libertà non meno fondamentali e la tutela di interessi costituzionalmente rilevanti”; e) ha precisato che, benché sia indispensabile, “con riguardo agli ulteriori limiti, … una specifica disciplina legislativa, … tuttavia, per non rinviare il riconoscimento del diritto di associazione, nonché l’adeguamento agli obblighi convenzionali, questa Corte ritiene che, in attesa dell’intervento del legislatore, il vuoto normativo possa essere colmato con la disciplina dettata per i diversi organismi della rappresentanza militare e in particolare con quelle disposizioni (art. 1478, comma 7, d.lgs. n. 66 del 2010) che escludono dalla loro competenza «le materie concernenti l’ordinamento, l’addestramento, le operazioni, il settore logistico-operativo, il rapporto gerarchico-funzionale e l’impiego del personale». Tali disposizioni infatti costituiscono, allo stato, adeguata garanzia dei valori e degli interessi prima richiamati”.  La Corte costituzionale, come già rilevato dalla Sezione, ha quindi ritenuto costituzionalmente legittimo l’art. 1475, comma 2, del Codice militare nella parte in cui vieta ai militari l’adesione ad associazioni sindacali costituite al di fuori dell’organizzazione militare, con un ragionevole bilanciamento tra le esigenze istituzionali delle Forze Armate e quelle di tutela sindacale dei militari.  Il Ministero della difesa, per dare tempestiva attuazione alla citata sentenza della Consulta, ha emanato la circolare 21 settembre 2018 (“Sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2018. Procedure per la costituzione di associazioni professionali tra militari a carattere sindacale”), con la quale, in coerenza con le indicazioni della Corte, ha tra l’altro previsto che tali associazioni dovranno necessariamente avere l’assenso del Ministro della difesa ai sensi dell’art. 1475, comma 1, del codice di ordinamento militare. 
Militari, forze armate e di polizia
Processo amministrativo - Covid–19 – Udienza – Istanza discussione da remoto – Termine – Udienza di merito per la trattazione di incidenti camerali – Comunicazione di segreteria trasmessa dopo la scadenza dei termini per il deposito delle memorie di replica – Individuazione.            L’istanza di discussione da remoto deve essere presentata nei termini previsti per gli affari cautelari – id est, almeno cinque giorni liberi prima dell’udienza e sempre che l’avviso di udienza sia comunicato prima di tale termine - quando, in relazione ad affari di merito, sono fissate d’ufficio udienze per la trattazione di incidenti camerali quali proroghe termini, correzioni di errori materiali, interruzioni, e la comunicazione di segreteria venga trasmessa alle parti dopo la scadenza dei termini per il deposito delle memorie di replica (1).    (1) Ha chiarito il C.g.a. che, ai sensi dell’art. 4, d.l. n. 28 del 2020, per gli affari di merito l’istanza di discussione da remoto va depositata entro il termine per le memorie di replica; tuttavia tale termine non può, oggettivamente, essere osservato quando, in relazione ad affari di merito, vengono fissate d’ufficio udienze per la trattazione di incidenti camerali quali proroghe termini, correzioni di errori materiali, interruzioni, e la comunicazione di segreteria venga trasmessa alle parti dopo la scadenza dei termini per il deposito delle memorie di replica. In tal caso soccorre l’applicazione analogica della regola prevista per gli affari cautelari, secondo cui l’istanza di discussione va presentata almeno cinque giorni liberi prima dell’udienza (e sempre che l’avviso di udienza sia comunicato prima di tale termine).
Processo amministrativo
Covid-19 – Vaccino – Fase sperimentale – E’ conclusa.      I vaccini attualmente disponibili per l’infezione da Covid-19 non sono in fase di sperimentazione (1).  (1) Ha chiarito la Sezione che i quattro prodotti ad oggi utilizzati nella campagna vaccinale sono stati invece regolarmente autorizzati dalla Commissione, previa raccomandazione dell’EMA, attraverso la procedura di autorizzazione condizionata (c.d. CMA, Conditional marketing authorisation), disciplinata dall’art. 14-bis del Reg. CE 726/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio e dal Reg. CE 507/2006 della Commissione. Si tratta di un’autorizzazione che può essere rilasciata anche in assenza di dati clinici completi, “a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari”. Il carattere condizionato dell’autorizzazione non incide sui profili di sicurezza del farmaco (dal sito dell’ISS, che richiama a sua volta quello dell’EMA: “una autorizzazione condizionata garantisce che il vaccino approvato soddisfi i rigorosi criteri Ue di sicurezza, efficacia e qualità, e che sia prodotto e controllato in stabilimenti approvati e certificati in linea con gli standard farmaceutici compatibili con una commercializzazione su larga scala”), né comporta che la stessa debba essere considerata un minus dal punto di vista del valore giuridico, ma impone unicamente al titolare di “completare gli studi in corso o a condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio è favorevole”. La CMA è, peraltro, uno strumento collaudato e utilizzato già diverse volte prima dell’emergenza pandemica, come attesta il report disponibile sul sito istituzionale dell’EMA, relativo ai primi dieci anni di utilizzo della procedura: nel periodo di riferimento – dal 2006 al 2016 – sono state concesse ben 30 autorizzazioni in forma condizionata, nessuna delle quali successivamente ritirata per motivi di sicurezza (https://www.ema.europa.eu/documents/report/conditional-marketing-authorisation-report-ten-years-experience-european-medicines-agency_en.pdf).  Anche in questa forma, l’autorizzazione si colloca a valle delle usuali fasi di sperimentazione clinica che precedono l’immissione in commercio di un qualsiasi farmaco, senza alcun impatto negativo sulla completezza e sulla qualità dell’iter di studio e ricerca. Al contrario, la ricerca del vaccino contro il Covid-19, divenuta una priorità assoluta per tutte le potenze mondiali, ha potuto beneficiare di ingenti risorse umane ed economiche, di procedure valutative rapide e ottimizzate (c.d. rolling review), della partecipazione di un elevatissimo numero di volontari “circa dieci volte superiore a quello di studi analoghi per lo sviluppo di altri vaccini” (si vedano le FAQ dell’Aifa, prodotte sub doc. 7 dall’amministrazione).  ​​​​​​​​​​​​La “sperimentazione” dei vaccini si è dunque conclusa con la loro autorizzazione all’immissione in commercio, all’esito di un rigoroso processo di valutazione scientifica e non è corretto affermare che la sperimentazione sia ancora in corso solo perché l’autorizzazione è stata concessa in forma condizionata. L’equiparazione dei vaccini a “farmaci sperimentali”, dunque, è frutto di un’interpretazione forzata e ideologicamente condizionata della normativa europea, che deve recisamente respingersi. 
Covid-19
Processo amministrativo - Giudizio di ottemperanza – Provvedimento art. 42-bis T.U. delle espropriazioni - Competenza esclusiva dell’Organismo straordinario di liquidazione.       Rientra nella competenza esclusiva dell’Organismo straordinario di liquidazione di un comune il potere di emanare un provvedimento art. 42-bis T.U. delle espropriazioni in conseguenza di un giudicato di ottemperanza (1).    (1) Cfr. Cons. St., A.P., n. 15 del 2020.  Qualora l’Organismo straordinario di liquidazione non sia stato coinvolto nel giudizio di ottemperanza di primo grado e penda l’appello (anche in relazione alla mancata integrazione del contraddittorio), può essere nominato un Commissario ad acta, atteso che il ricorso di secondo grado non comporta, di per sé, un effetto sospensivo della sentenza di primo grado, tanto più ove, come nel caso che ne occupa, non sia stata nemmeno richiesta in sede cautelare la sospensione dell'esecuzione della stessa. Da quanto sopra consegue anche una differente portata nei poteri del giudice dell’esecuzione, che devono essere opportunamente calibrati, al fine di non determinare l’irreversibilità degli effetti dell’esecuzione di sentenza. ​​​​​​​Per tale ragione, parte ricorrente è onerata di prestare una cauzione, anche fideiussoria, avente ad oggetto l’intero importo così come quantificato nella parte motiva della sentenza da ottemperare ed i cui effetti cesseranno all’esito del giudizio di appello, ove pure favorevole. 
Processo amministrativo
Giustizia amministrativa - Ricorso primo grado - Decorrenza del termine per impugnare – Deposito di atti in giudizio   In ordine alla questione della decorrenza del termine per impugnare, dal deposito in diverso giudizio, dei medesimi atti oggetto di successivo autonomo ricorso, valgono le seguenti considerazioni: a) le ripetute indicazioni contenute negli atti giudiziari integrano quelle presunzioni gravi, precise e concordanti che, ai sensi dell’art. 2729 c.c., consentono di provare il fatto ignoto attraverso fatti noti; b) non rileva, al fine di escludere la conoscenza della parte, la circostanza che gli atti giudiziari siano direttamente conosciuti dal solo difensore nel processo, dovendo presumersi che gli atti siano stati direttamente portati a conoscenza della parte, atteso che, secondo regole di comune esperienza, il difensore dialoga con la parte che rappresenta processualmente sulle questioni rilevanti per la controversia, essendo a ciò tenuto, per altro, in base agli obblighi scaturenti dal mandato. (Nella fattispecie in esame, il Consiglio di Stato reputa corretta la statuizione di parziale tardività del ricorso, con riferimento all’impugnazione della delibera di approvazione dello schema di convenzione e della allegata convenzione, atteso che i provvedimenti impugnati erano conosciuti dal ricorrente, dal momento temporale della loro produzione in giudizio). (1) Responsabilità civile - Pubblica amministrazione - Danno da lesione di interessi legittimi – Onere della prova  ​​​​​​In merito alla questione della prova rigorosa della esistenza del danno da parte del danneggiato, si osserva che: a) in relazione al danno-conseguenza si pone la questione di individuare e quantificare i danni derivanti dalla lesione dell’interesse legittimo, e dunque di imputare all’evento dannoso causalmente correlato al fatto illecito, sul piano della causalità materiale, i pregiudizi patrimoniali da reintegrare per equivalente monetario, conseguenze “dirette e immediate” dell’evento sul piano della causalità giuridica; b) il danno-conseguenza è disciplinato con carattere di generalità sia per la responsabilità da inadempimento contrattuale che da fatto illecito (in virtù dell’art. 2056 c.c.) dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c.; c) una volta ricondotta la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi al principio del neminem laedere positivizzato nell’art. 2043 c.c., deve escludersi che, nella individuazione e quantificazione del danno, possa operare il limite rappresentato dalla sua prevedibilità, invece operante solo per la responsabilità da inadempimento ex art. 1225 c.c., con l’eccezione del caso di dolo; d) ai sensi dell’art. 1223 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c., il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) «in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta», con ciò dovendosi escludere il risarcimento di quei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi; e) in questo ambito, resta fermo l’onere di allegazione e prova da parte del danneggiato (artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a.), poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c. opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.); f) la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull’ammontare del danno; g) le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente tecnico d’ufficio. (2)
Giustizia amministrativa
Covid-19 – Aiuti economici – Cd. “Patrimonio Destinato” – Regolamento del Ministro dell'economia e delle finanze – Parere della Sezione normativa del  Consiglio di Stato.      Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di Regolamento del Ministro dell'economia e delle finanze recante "Requisiti di accesso, condizioni, criteri e modalità degli interventi del Patrimonio Destinato", ai sensi dell'art. 27, comma 5, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2020, n. 77 (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che l'art. 27, comma 1, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2020, n. 77, autorizza la costituzione da parte di Cassa Depositi e Prestiti s.p.a. di un patrimonio destinato all'attuazione di "interventi e operazioni di sostegno e rilancio del sistema economico-produttivo italiano in conseguenza dell'emergenza epidemiologica da Covid-19 ". Diversamente dal modello civilistico, il Patrimonio Destinato non è costituito mediante segregazione di una parte del patrimonio di Cassa Depositi e Prestiti s.p.a. ma di beni specificamente conferiti dal Ministero dell'economia e delle finanze. Si tratta quindi di un fondo interamente pubblico, la cui gestione è affidata a Cassa Depositi e Prestiti s.p.a. che non assume alcun rischio in ordine alla sua operatività. L’art. 27, d.l. n. 34 del 2020 cit. ha previsto che in via preferenziale il Patrimonio Destinato effettui i propri interventi mediante sottoscrizione di prestiti obbligazionari convertibili, la partecipazione ad aumenti di capitale, l'acquisto di azioni quotate sul mercato secondario in caso di operazioni strategiche. ​​​​​​​La disciplina di rango legislativo impone altresì di tenere in considerazione l'incidenza dell'impresa con riferimento allo sviluppo tecnologico, alle infrastrutture critiche e strategiche, alle filiere produttive strategiche, alla sostenibilità ambientale e alle altre finalità di cui al comma 86 dell'art. 1, l. 27 dicembre 2019, n. 160, alla rete logistica e dei rifornimenti, ai livelli occupazionali e del mercato del lavoro. 
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Energia elettrica – Fonti rinnovabili - Accordi titolari di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili - Oneri di carattere esclusivamente economico – Sanatoria accordi dichiarati nulli in sede giurisdizionale -  Violazione artt. 3, 24, 41, 97, 101, 102, 111, 113, e 117, comma 1, Cost – Rilevanza e non manifesta infondatezza Sono rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 953, l. 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), in relazione agli artt. 3, 24, 41, 97, 101, 102, 111, 113, e 117, comma 1, Cost., nonché in relazione ai principi generali della materia della produzione energetica da fonti rinnovabili sanciti dagli artt. 6 della direttiva 2001/77/CE e 12 d.lgs. n. 387 del 2003, e agli obblighi internazionali di cui agli artt. 1, del 1° Protocollo addizionale, 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e 2 del protocollo di Kyoto dell’11 dicembre 1997; la norma sembra infatti avere una portata generalizzata di sanatoria rispetto ad accordi che abbiano imposto ai titolari di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili oneri di carattere esclusivamente economico, e di cui è stata dichiarata la nullità in sede giurisdizionale nonchè porsi in violazione dei principi di ragionevolezza e della libertà di iniziativa economica nella misura in cui tramuta il rapporto autorizzatorio previsto per l’attività di produzione di energia elettrica (e, per quanto rileva, per quella da fonti rinnovabili), costituente una libera attività di impresa, in un rapporto di tipo concessorio, che costituisce ex novo posizioni soggettive in capo al concessionario a fronte del pagamento di un canone (1). (1) Analoghe questioni sono state rimesse con ord., 27 gennaio 2020, nn. 678 e 679. La questione era stata già rimessa dalla Sezione con ord. 27 dicembre 2019, n. 8822. Ha chiarito la Sezione che il comma 953 dell’art. 1, l. n. 145 del 2018 sembra avere, tuttavia, una portata generalizzata di sanatoria rispetto ad accordi che abbiano imposto ai titolari di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili oneri di carattere esclusivamente economico, e di cui è stata dichiarata la nullità in sede giurisdizionale, che non ne consente un’interpretazione conforme alla Costituzione. Essa infatti non distingue, da un lato, tra accordi stipulati per individuare misure compensative a carattere non meramente patrimoniale a carico del titolare di impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili, secondo quanto previsto dalle più volte citate linee guida ministeriali in materia; e dall’altro lato accordi contenenti misure di carattere meramente patrimoniale. Ha aggiunto la Sezione che l’effetto di sanatoria si desume, inoltre, dai dossier del 7 dicembre e del 10 dicembre 2018 relativi alla legge di bilancio per il 2019, redatti dagli uffici del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati. La norma ha dunque previsto, come si ricava dalla sua formulazione letterale, l’irripetibilità delle somme già versate dai gestori di impianti energetici ed acquisite ai bilanci comunali in base ad accordi sottoscritti prima dell’entrata in vigore delle linee guida nazionali; per altro verso non pare possano escludersi dal suo ambito di applicazione le somme ancora non versate e da corrispondere per la residua durata della convenzione. Dalla sua formulazione («i versamenti restano acquisiti nei bilanci degli enti locali, mantenendo detti accordi piena efficacia»), si desume infatti che dalla piena efficacia degli accordi deriva, anzitutto, l’irripetibilità dei versamenti di somme in esecuzione di essi, coerentemente peraltro con il principio di carattere generale per cui ogni spostamento patrimoniale deve essere assistito da una legittima causa giuridica (art. 2041 cod. civ.). In secondo luogo, si deve ritenere che tale conservazione dell’efficacia riguardi anche gli accordi che non hanno avuto ancora esecuzione, con il pagamento delle somme previste a favore degli enti locali, i quali possono pertanto agire per l’adempimento degli obblighi assunti dai gestori di impianti energetici;   Quanto alla non manifesta infondatezza, ha osservato la Sezione che un primo profilo di illegittimità della norma censurata si ravvisa rispetto al parametro della ragionevolezza ricavabile dall’art. 3 Cost., perché eccedendo dalle esigenze connesse all’obiettivo legittimo di adeguare per il futuro gli accordi contenenti misure compensative di carattere meramente patrimoniale secondo quanto previsto dalle linee guida nazionali in materia, essa dispone per il passato la sanatoria generalizzata di accordi contrari alle medesime linee guida e al sovraordinato art. 12, comma 6, d.lgs. n. 387 del 2003. Inoltre, la clausola di revisione contenuta nel secondo periodo della disposizione non prevede alcun termine, né strumenti per superare il rifiuto o il dissenso eventualmente manifestato da una delle parti dell’accordo, con il conseguente rischio che l’assetto originariamente prefigurato dalle parti contraenti, pur affetto da illiceità, rimanga inalterato. Ed infatti, anche a voler ritenere configurabile un’ipotesi di nullità derivante da “ius superveniens”, a rapporto validamente instaurato, ciò dovrebbe tradursi in una perdita di ulteriore efficacia dell’atto (id est: in un arresto della sua funzione negoziale) che confligge con il mantenimento di efficacia degli accordi sancito dalla disposizione sopravvenuta. L’effetto complessivamente derivante dalla norma censurata è, dunque, quello tipico di una sanatoria indiscriminata, per cui il gestore dell’impianto elettrico rimane vincolato al pagamento di somme in esso previste, prive di finalizzazione ambientale ai sensi dell’allegato 2 alle linee guida nazionali, senza che contemporaneamente sia realizzato l’obiettivo di adeguare gli accordi al principio di ordine imperativo per cui l’autorizzazione unica per impianti di produzione energetica alimentati da fonti rinnovabili non può essere subordinata né prevedere misure di compensazione di carattere meramente patrimoniale, ai sensi degli artt. 12, comma 6, d.lgs. n. 387 del 2003 e 1, comma 5, l. n. 239 del 2004 (negli stessi termini si è già espressa la stessa Corte costituzionale, nella sentenza del 1° aprile 2010, n. 124). Dalla nullità degli accordi che contemplino siffatte misure discende poi come conseguenza automatica l’improduttività degli effetti del negozio ex tunc che invece la norma di legge di bilancio censurata ha inteso fare salvi in assenza di una plausibile esigenza di ordine imperativo, sì che il mantenimento dell’efficacia statuito dall’art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2019 finisce anche per vanificare gli effetti connaturati alla categoria giuridica della nullità. La norma censurata appare, pertanto, anche lesiva del diritto di azione sancito dall’art. 24 Cost.. Nel prevedere la conservazione dell’efficacia degli accordi, essa vanifica infatti l’utilità pratica dell’impugnativa contrattuale, ivi compresa la nullità ai sensi degli artt. 1418 cod. civ. e seguenti, prevista per reagire contro manifestazioni di volontà contrattuale aventi contenuti contrastanti con norme imperative, ai sensi del comma 1 della medesima disposizione. Nel caso degli accordi previsti dall’art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2018 la pronuncia giurisdizionale dichiarativa della nullità sarebbe inutiliter data, perché da un lato, come da essa espressamente previsto, le somme versate in esecuzione dello stesso non potrebbero essere ripetute dal solvens, gestore dell’impianto elettrico; ed inoltre avvalendosi della conservazione dell’efficacia parimenti affermata dalla norma censurata l’ente locale potrebbe agire per il pagamento delle somme ulteriormente dovute. Un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale è dato dalla violazione dei principi della separazione dei poteri (in relazione agli artt. 3, 97, 101, 102, 113 Cost.) e del giusto processo sanciti dagli artt. 111 Cost. e 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in relazione all’art. 117, comma 1, della medesima Carta fondamentale. La disposizione in questione, eccedendo dalle esigenze connesse all’obiettivo legittimo di rivedere gli accordi contenenti misure compensative di carattere meramente patrimoniale secondo quanto previsto dalle linee guida nazionali in materia, in conformità con la normativa euro-unitaria e i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale, persegue invece l’intento di definire in via legislativa i contenziosi pendenti, interferendo sugli esiti dei giudizi in corso e sulle pronunzie degli organi giurisdizionali, in violazione dei principi di terzietà e imparzialità del giudice. Di conseguenza, l’intervento normativo pare presentare profili di irragionevolezza, in violazione dell’art. 3 Cost., laddove vanifica il potere giurisdizionale già esercitato (con la declaratoria di nullità degli accordi contrastanti con il divieto di misure compensative a contenuto meramente economico ad opera delle sentenze dei giudici di primo grado), in assenza di plausibili motivi di interesse generale e senza che ciò risultasse necessario in ragione di oscillazioni giurisprudenziali, alterando in modo imprevedibile rapporti pregressi tra le parti sì da rendere inutile e privo di effettività il diritto alla tutela giurisdizionale. La sanatoria generalizzata introdotta con la legge di bilancio per il 2019 altera, infatti, la parità delle parti nel processo, anche quelli in corso, privando una parte dei rimedi di legge a sua disposizione e vanificando l’utilità delle pronunce giurisdizionali favorevoli eventualmente conseguite, ma non ancora definitive, quand’anche con esse si sia accertato il contrasto dell’accordo con i principi di ordine imperativo regolatrici del settore della produzione energetica da fonti rinnovabili. Sotto il profilo da ultimo evidenziato emerge un ulteriore profilo di contrasto della norma censurata con il vincolo posto al legislatore ordinario dal sopra citato art. 117, comma 1, Cost. al rispetto degli obblighi internazionali, nel caso di specie assunti dall’Italia con il protocollo di Kyoto dell’11 dicembre 1997 della convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici -che funge da norma interposta e, quindi, da parametro mediato di costituzionalità-, di cui il decreto legislativo n. 387 del 2003 costituisce attuazione nell’ordinamento giuridico interno, per il tramite della direttiva 2001/77/CE del 27 settembre 2001 (sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità). Il contrasto è ravvisabile nel fatto che gli obiettivi stabiliti a livello internazionale con il citato protocollo, di promozione, sviluppo e maggiore utilizzazione di forme energetiche rinnovabili in funzione dell’abbattimento delle emissioni inquinanti (art. 2), rispetto ai quali il principio di gratuità delle autorizzazioni in materia è strumentale, potrebbe essere vanificato da una sanatoria generalizzata rispetto ad accordi aventi l’effetto di rendere tali titoli amministrativi onerosi per ragioni estranee alla salvaguardia dell’ambiente, così da scoraggiare gli operatori economici dal mantenere i propri investimenti nel settore delle energie rinnovabili. L’art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2018, nella misura in cui consente il mantenimento di efficacia degli accordi che prevedano misure compensative meramente patrimoniali, presenta, dunque, profili di irragionevolezza e arbitrarietà in quanto non prende in considerazione né l’interesse degli operatori privati incisi dalla sanatoria né quelli pubblici alla promozione e al sostegno della produzione di energia da fonte rinnovabile (tutelati, già anteriormente all’emanazione delle linee guida nazionali di cui al citato decreto ministeriale, da norme imperative, quale l’art. 12, comma 6, d.lgs. n. 387 del 2003, in coerenza con i principi eurounitari di riferimento), non operando alcun bilanciamento con l’interesse alla conservazione delle risorse acquisite ai bilanci degli enti locali. Per la ragione da ultimo evidenziata la norma appare anche in contrasto con la libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost., in relazione ai principi generali regolatori del settore economico relativo alla produzione di energia da fonti rinnovabili, ricavabili dagli artt. 6 della citata direttiva 2001/77/CE - secondo cui gli Stati membri sono tra l’altro tenuti a «ridurre gli ostacoli normativi e di altro tipo all’aumento della produzione di elettricità da fonti energetiche rinnovabili», a «razionalizzare e accelerare le procedure all’opportuno livello amministrativo» e «garantire che le norme siano oggettive, trasparenti e non discriminatorie…» - e 12, d.lgs. n. 387 del 2003, in virtù del quale la produzione di energia da fonti rinnovabili è soggetta ad un regime amministrativo di tipo autorizzatorio, subordinato all’accertamento dei presupposti di legge e non sottoposto a misure di compensazione di carattere pecuniario La disposizione in questione sembra porsi infine in contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 1, del 1° Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e 6 della CEDU, in quanto determina, in modo imprevedibile ed in violazione dei principi di legalità e proporzionalità (tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito), una lesione del diritto di proprietà degli operatori economici che hanno realizzato e messo in esercizio gli impianti da fonti rinnovabili (nella misura in cui osta al soddisfacimento di un credito avente consistenza di valore patrimoniale e base normativa nel diritto nazionale e nell’ordinamento sovranazionale) e, quindi, anche del loro legittimo affidamento ad ottenere la restituzione degli importi versati in esecuzione di accordi di cui si contesta la validità e, comunque, a non dover più corrispondere alcuna somma per la residua durata della convenzione (ove ne sia accertata la nullità per contrasto con norme imperative).  
Energia elettrica
Covid-19 – Sanità – Case di cura – Attività di assistenza sanitaria che non rivestono carattere di urgenza e di indifferibilità – Ordinanza regionale che dispone la sospensione temporanea – Non va sospesa.            Non va accolta l’istanza, proposta da una casa di cura, di sospensione cautelare monocratica del decreto monocratico del Tar che ha, a sua volta, respinto l’istanza cautelare monocratica dell’ordinanza del presidente della Giunta regionale con cui, in relazione al d.P.C.M. 26 aprile 2020, si è disposto che “fino al 17 maggio, sono sospese le attività di assistenza sanitaria che non rivestono carattere di urgenza e di indifferibilità”, atteso che le esigenze di continuità dei servizi di assistenza sanitaria non urgenti e indifferibili pertengono ad un interesse pubblico generale di cui è portatrice l’Amministrazione regionale e non il singolo operatore privato (1).   (1) La Sezione ha pronunciato sull’istanza di sospensione del decreto monocratico del Tar Molise 9 maggio 2020, n. 104
Covid-19
Informativa antimafia – Destinatari – Soggetto persona fisica – Limiti.         È illegittima l’informazione interdittiva applicata ad una persona fisica non imprenditore, non rinvenendosi nel Codice antimafia, il riferimento all’adozione di informazioni interdittive antimafia nei confronti della persona fisica slegata da qualsivoglia attività imprenditoriale (1).      (1) Ha chiarito il Tar che l’accertamento antimafia sulla persona fisica (direttore tecnico, dipendente, socio ed amministratore) è pur sempre funzionale ad una valutazione di permeabilità criminosa dell’impresa individuale o societaria cui la medesima è collegata e che abbia chiesto una licenza, una concessione, un’autorizzazione o di contrattare con la P.A. ovvero, come nel caso concreto, l’iscrizione ad un Albo. Depongono in tal senso elementi di carattere testuale e logico-sistematico: a) la definizione di informativa antimafia interdittiva, emergente dal tenore letterale del menzionato art. 84 c.a.m. che, rispetto alla comunicazione, “presenta un quid pluris individuabile nella valutazione discrezionale da parte del Prefetto del rischio di permeabilità mafiosa capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell'impresa…interdicendole l’inizio o la prosecuzione di qualsivoglia rapporto con l’Amministrazione o l’ottenimento di qualsiasi sussidio, beneficio economico o sovvenzione” (cfr. parere n. 1060 del 12 maggio 2021 dell’Adunanza Generale del Consiglio di Stato); b) l’elenco tipizzato dei soggetti sottoposti a verifica antimafia indicato nell’art. 85 c.a.m a seconda che i destinatari dell’interdittiva siano un’impresa individuale (comma 1) ovvero associazioni, imprese, società, consorzi e raggruppamenti temporanei di imprese (comma 2). La sottoposizione a verifica antimafia di una persona fisica, quindi, deve essere necessariamente funzionale a significare eventuali condizionamenti criminosi nei confronti di un’impresa individuale o societaria organizzati dalla mafia, onde prevenire il rischio di inquinamento dell’economia legale; ed infatti, per la ditta individuale si richiede la sottoposizione a verifica del titolare o del direttore tecnico o dei familiari conviventi; per le società, associazioni, consorzi, etc., la platea di soggetti sottoposti a verifica è estesa ad altre categorie di persone, quali i soci, i legali rappresentanti, i membri dei collegi sindacali, etc… oltre a tutti i familiari conviventi. Ciò sta a significare che le informazioni antimafia interdittive, attestanti la sussistenza di possibili tentativi di infiltrazione mafiosa, riguardano specificamente soggetti che sono ascrivibili alla categoria degli “operatori economici”, comprensiva delle persone giuridiche (società, imprese, associazioni) ovvero a quella delle ditte individuali, laddove la ditta coincide con la persona fisica. Non si rinviene, invece, nella normativa, il riferimento all’adozione di informazioni interdittive antimafia nei confronti della persona fisica slegata da qualsivoglia attività imprenditoriale. ​​​​​​​La ratio va ricercata nella funzione assolta dall’accertamento antimafia sulla persona fisica che è quella di misurare il grado di probabile inquinamento mafioso dell’impresa in cui essa risulta inserita o collegata al punto da impedire a quest’ultima di avere rapporti con la P.A. o di ottenere “iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati”. 
Informativa antimafia
Covid-19 – Sanità – Strutture private - Lazio -  Autorizzazione ad eseguire tamponi per la rilevazione della positività al Covid-19 – Diniego – Non va sospeso.       Nella Regione Lazio i centri diagnostici privati non possono eseguire i tamponi perché le attività di analisi e tracciatura sono state affidate dalla Regione, in esclusiva, al servizio diagnostico pubblico tramite la rete d'eccellenza Coronet Lazio (1). (1) Il decreto ha sospeso Tar Lazio, sez. III quater, ord., 15 giugno 2020, n. 4350   Ha chiarito il decreto che il fondamento comune, di tutti i provvedimenti – di natura e finalità diverse – sin qui adottati da autorità politiche governative, nazionali, territoriali e tecniche, è stato, ed è anche nel caso in esame, quello di assicurare, secondo il principio di massima precauzione, la salute dei cittadini, in quanto valore costituzionale primario e non negoziabile, tanto da comprimere – nei limiti e modi di volta in volta ritenuti indispensabili – anche l’esercizio di diversi diritti o libertà dei cittadini, primo fra tutti il diritto alla libera circolazione; Ha aggiunto il decreto che nella fase di sommaria delibazione il parametro cui la valutazione di legittimità si deve conformare non può che essere anzitutto il diritto alla salute, e alla luce di questo si devono esaminare ulteriori, e diverse, posizioni di interesse e diritto anch’esse costituzionalmente rilevanti, quale la libera iniziativa economica privata in regime di piena concorrenza; Ha ancor chiarito che la più importante esigenza avvertita in questa fase della emergenza sanitaria appare, nella campagna di sottoposizione a , quella di aumentare il numero dei  e di ridurre al massimo i tempi per la effettuazione; Risulta agli atti, senza convincenti smentite, che il sistema CORONET Lazio ha aumentato, come i dati statistici settimanali mostrano, in modo esponenziale nelle settimane il numero assoluto dei test e la percentuale /numero dei cittadini, nonché ha ridotto, fino a due giorni, il tempo occorrente per il test. Ciò, se comparato al trend di contagi fortunatamente decrescente della Regione Lazio, offre argomenti a favore della tesi per cui la contestata rete CORONET è idonea a gestire, tracciare, elaborare la sottoposizione a test senza che l’auspicato contributo privato sia di decisiva utilità per il conseguimento degli obiettivi generali stabiliti. L’esistenza di falsi positivi e negativi, deve condurre a un impegno sempre più forte per ridurne la percentuale, il che – senza che sia stato opposto un argomento decisivamente convincente – appare realizzabile meglio e in più breve tempo se il sistema dei test – primo, secondo tampone e eventuale approfondimento – sia concentrato in una rete di presidi per lo più pubblici, di grandi dimensioni, ovvero sedi di corsi universitari, con la guida – di assoluta e indiscussa affidabilità – all’ISMI Spallanzani. La fruizione della rete CORONET viene sottolineata anche come strumento indefettibile per la cd. “tracciatura” dei flussi di dati, allo scopo essenziale di ricerca precoce di eventuali nuovi focolai, di elaborazione dei dati raccolti e successiva trasmissione al Ministero della Salute per poi alimentare la banca dati dell’O.M.S.. Il valore dei processi di standardizzazione e ripetitività su larga scala e grandi numeri dei  stessi, appare esso stesso uno dei mezzi per la riduzione dei falsi, per la rapida successione del secondo tampone eventualmente necessario, in un quadro di presidi sanitari omogenei rispetto ai quali una apertura ai privati potrà essere semmai il risultato – come per i test di immunità è avvenuto – di un percorso rimesso a valutazione e sulla base di acquisizioni che certo in questa sede non è possibile delineare. In altri termini, il valore aggiunto che, per il CORONET Lazio, può giustificare, ad oggi, la contestata limitazione, è il pregio indubbio di un sistema in cui si centralizzano, con una canalizzazione governata in entrata e in uscita, in un circuito omogeneo e di elevato valore scientifico pubblico, la raccolta degli esiti, la ripetizione e gli ulteriori approfondimenti ove occorrenti, la tracciatura, la comunicazione “unitaria” ad enti nazionali e internazionali, e ciò partendo dal dato iniziale della identità dei Kit e della elaborazione con le macchine utilizzate, a fini di omogeneità dei parametri di riferimento e di “affinamento dei risultati” per ridurre la percentuale di falsi positivi e negativi; - è innegabile la estrema delicatezza della ragione per la quale il soggetto pubblico ha ritenuto di assumere la responsabilità della gestione consequenziale ai risultati, talvolta di falso positivo o negativo – derivanti dai , giacché appunto le conseguenze – ad esempio di confinamento personale - incidono su ulteriori posizioni di diritto e libertà individuale, la cui discendenza da un falso risultato è sembrata, alla Regione, doversi assumere come effetto, non voluto e da correggere, di una azione nell’ambito della rete più qualificata possibile di presidi sanitari con la direzione dell’ISMI Spallanzani, pur senza – come la Regione afferma – negare la reputazione e la piena credibilità di strutture private operanti con successo in molte altre aree dell’analisi di test di laboratorio; In conclusione, la materia in esame comporta una valutazione generale positiva della coerenza e ragionevolezza delle soluzioni adottate dalla ordinanza presidenziale, nella circostanza in cui la stessa decisione è maturata, tanto che – malgrado le abili difese dell’appellata e i suggestivi riferimenti alla funzione ausiliaria del privato nella moltiplicazione dei  e dunque nella lotta al COVID 19 – l’atto si sottrae alle censure formulate in primo grado e apprezzate dal primo giudice, per l’assorbente e decisiva, conclusiva ragione che l’interesse della parte privata a partecipare ad una rete da cui oggi è esclusa o a partecipare ad un libero mercato di servizio volontario ai pazienti privati per la effettuazione dei  ha carattere recessivo rispetto alla necessità di precauzione avanzata anti COVID mediante un sistema – il CORONET – che certamente è peculiare, forse migliorabile in futuro con decisioni impossibili da prefigurare oggi
Covid-19
Covid-19 - Calabria – Quarantena a chi trasgredisce all’obbligo di circolare senza giustificato motivo – Ordinanza Presidente della Giunta regionale - Mancata adozione atto applicativo – Non va sospesa.             Non deve essere sospesa l’ordinanza del Presidente della Giunta regionale della Calabria n. 12 del 20 marzo 2020 nella parte in cui ha imposto – nell’ipotesi di trasgressione dell’obbligo di circolare senza giustificato e documentato motivo, alla luce della potenziale esposizione al contagio – la misura immediata della “quarantena” obbligatoria per il periodo di giorni 14, mancando l’atto applicativo delle disposizioni emanate con portata generale dal Presidente della Giunta (1).   (1) Ha chiarito il decreto che il procedimento impositivo, a carico del ricorrente, della misura “immediata” della quarantena obbligatoria non sembra essersi concluso atteso che lo stesso, secondo quanto previsto al punto 10 della ordinanza n.12 del 20 marzo 2020 del Presidente della Giunta Regionale della Calabria, presuppone che l’applicazione della misura al trasgressore degli obblighi elencati nell’ordinanza medesima avvenga <<attraverso il Dipartimento di Prevenzione dell’ASP territorialmente competente, con le modalità già previste dai precedenti provvedimenti regionali, richiamati nella presente ordinanza>>. Infatti dette modalità sono quelle indicate al punto 4 di cui all’ordinanza del Presidente della G.R. della Calabria n.3 dell’8 marzo 2020 (inizialmente previste solo per l’applicazione delle misure di prevenzione indicate in quest’ultima ordinanza) e cioè la comunicazione da parte dei dipartimenti di prevenzione delle ASP <<al Sindaco, quale Autorità Sanitaria Locale>> della <<prescrizione di quarantena obbligatoria presso il domicilio dei singoli soggetti interessati, per l’emanazione del provvedimento di competenza>> (punto n. 3) che trova conferma nell’allegato 1 all’ordinanza del Presidente della G.R. n. 4 del 10 marzo 2020 che illustra il ruolo dei Dipartimenti di Prevenzione, chiamati a svolgere compiti di sorveglianza attiva nel corso della quarantena/isolamento domiciliare.
Covid-19
Società – Credito di impresa - Pegno mobiliare non possessorio – Registro – Schema di Regolamento – Parere del Consiglio di Stato.             Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di Regolamento concernente la disciplina del Registro dei pegni mobiliari non possessori, in attuazione della predetta fonte normativa primaria (1)     (1) Nel parere è stato preliminarmente ricordato che la regolamentazione delle operazioni da effettuare presso il registro dei pegni non possessori, gli obblighi a carico di chi le effettua, nonché le modalità di accesso al suddetto registro è stata demandata, dall’art. 1, comma 6, d.l. 3 maggio 2016, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla l. 30 giugno 2016, n. 119, a un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze da adottarsi di concerto con il Ministro della giustizia.  Tra le misure legislative introdotte negli ultimi anni a sostegno dell’accesso al credito delle imprese, è contemplato anche il cosiddetto pegno mobiliare non possessorio.  Il cit. art. 1, d.l. n. 59 del 2016 ha recepito a livello legislativo un istituto nato nella prassi, confermata poi dalla giurisprudenza (v. Cass. civ, sentenza 1 luglio 2015, n. 13508), i cui tratti caratteristici erano già rinvenibili nell'istituto del pegno “rotativo”, un pegno tipico, cui accede una clausola, c.d. “di rotatività”, che consente la sostituzione dell’oggetto del pegno senza effetti novativi sull'originaria costituzione della garanzia.  Si tratta di una possibilità riservata agli imprenditori iscritti al Registro Imprese, che potranno garantire un finanziamento con un pegno sui beni mobili destinati all’esercizio di impresa.  È prevista l’attivazione dello strumento in questione previa iscrizione in un apposito registro informatico tenuto dall’Agenzia delle Entrate, da istituirsi secondo apposito decreto ministeriale.  Esso rappresenta una nuova forma di garanzia diversa rispetto all’ordinario pegno regolato dal codice civile ed è stata introdotta al fine di incentivare i finanziamenti alle imprese e all’attività d’impresa, agevolando nel contempo il recupero del credito da parte del finanziatore/creditore.  Tale nuova forma di garanzia è connotata da profili di peculiarità e settorialità, in quanto retta da una disciplina derogatoria rispetto alle ordinarie regole codicistiche in materia di pegno.  Il pegno “ordinario” (art. 2786 cod.civ.) costituisce, infatti, una forma di garanzia del credito inerente a beni mobili e si caratterizza per lo spossessamento che subisce il debitore, il quale si priva del bene che passa nella disponibilità del creditore pignoratizio. Il contratto (di natura reale) si perfeziona senza formalità ma con la consegna materiale al creditore della cosa o del documento, in caso di titoli al portatore o rappresentativi (e non di semplici documenti di legittimazione), dei quali il creditore acquisisce la detenzione.  La datio rei (momento perfezionativo del contratto) risponde a due ordini di ragioni: la prima, a tutela del creditore, affinché non si rischi che il debitore, restando nella disponibilità del bene, lo venda o comunque lo deteriori, così inficiando la garanzia del credito (tutela della garanzia patrimoniale); la seconda, a tutela dell’affidamento dei terzi, che in questo modo non rischiano di acquistare un bene gravato da pegno senza saperlo: l’impossessamento del bene da parte del creditore svolge la funzione di pubblicità in senso lato, avvertendo i terzi del fatto che il bene è a disposizione del creditore a garanzia del suo credito.  Rispetto al pegno regolato dal codice civile, il nuovo strumento disciplina una (atipica) forma di “pegno”, pur sempre mobiliare, ma che si caratterizza per la mancanza dello spossessamento, in quanto prevede che il bene resti nella disponibilità del debitore.  Le parti stipulano un accordo mediante il quale, per il solo effetto del consenso, la parte debitrice costituisce un pegno su un proprio bene mobile, a garanzia di un credito concesso dalla parte creditrice direttamente al debitore o a un terzo, senza che intervenga lo spossessamento del bene in favore del creditore.  Il mancato spossessamento del bene in favore del creditore rappresenta la peculiarità dell’istituto: il creditore beneficia del pegno su di un determinato bene mobile, senza tuttavia entrarne materialmente in possesso. Da qui, la denominazione di “pegno non possessorio”.  In mancanza di spossessamento, ovvero in mancanza della datio rei, l’iscrizione del contratto nel registro svolge la funzione di garanzia sia nei rapporti interni tra creditore e debitore sia nei rapporti esterni verso terzi (possibili acquirenti e altri creditori), i quali sono avvertiti circa il fatto che il bene è a disposizione del creditore a garanzia di un suo credito.  Il mancato spossessamento giustifica anche la formalità dell’atto scritto, richiesta dalla fonte primaria a pena di nullità.  L’ulteriore formalità dell’atto pubblico, della scrittura privata autenticata o accertata giudizialmente, del contratto sottoscritto digitalmente ai sensi dell’art. 24, d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, o di altro provvedimento dell’autorità giudiziaria, seppure non richiesto dalla fonte primaria e previsto in via regolamentare (articolo 3, comma 4, del decreto), appare coerente con il sistema di “pubblicità” dei vincoli cartolari gravanti sui beni mobili e immobili, tenuto conto delle responsabilità che incombono sul conservatore del registro.  L’iscrizione conferisce pubblicità al “pegno” e lo rende efficace (opponibile) verso i terzi.  La parte contrattuale costituente il pegno dev’essere un imprenditore iscritto nel registro delle imprese (requisito formale): la norma perimetra, infatti, il proprio ambito soggettivo di applicazione a questa esclusiva categoria di soggetti.  Sotto il profilo oggettivo, il credito così garantito dev’essere, inoltre, “inerente l’esercizio d’impresa”.  Ulteriore peculiarità dell’istituto in esame è la possibilità, normativamente prevista, che le parti stipulino il c.d. patto di rotatività. Ed invero, ai sensi dell’art. 1, comma 2, d.l. n. 59 del 2016, “ove non sia diversamente disposto nel contratto, il debitore o il terzo concedente il pegno è autorizzato a trasformare o alienare, nel rispetto della loro destinazione economica, o comunque a disporre dei beni gravati da pegno. In tal caso il pegno si trasferisce, rispettivamente, al prodotto risultante dalla trasformazione, al corrispettivo della cessione del bene gravato o al bene sostitutivo acquistato con tale corrispettivo, senza che ciò comporti costituzione di una nuova garanzia”.  Sul piano delle tutele, il creditore pignoratizio potrà promuovere, in funzione di custodia utile del bene, azioni conservative o inibitorie nel caso di abuso nell'utilizzo dei beni da parte del debitore o del terzo concedente il pegno.  Nel caso in cui si verifichi un evento che determina l’escussione del pegno, il creditore nel rispetto delle formalità previste dalla legge (in particolare comma 7) può:  - vendere il bene, trattenendo il corrispettivo che corrisponde alla garanzia e restituendo l’eccedenza;  - escutere i crediti oggetto di pegno fino a concorrenza della somma garantita;  - ove previsto dal contratto e iscritto nel registro, locare il bene oggetto di pegno, imputando i canoni fino a concorrenza della somma garantita;  - ove previsto dal contratto e iscritto nel registro, appropriarsi dei beni oggetto di garanzia: deve essere esplicitato nel contratto, che deve anche prevedere criteri e modalità di valutazione del bene. ​​​​​​​
Società
Paesaggio – Tutela – Interventi di recupero aree compromesse e trasformazione del territorio per lo sviluppo sostenibile delle aree – Individuazione - Criterio.            Ai fini della tutela essenziale del paesaggio le norme di piano non sono soltanto il metro per la valutazione e per la conformazione dei piani e programmi di governo del territorio e delle relative attività d'esecuzione, come ben evincesi, d’altro canto, proprio dagli artt. 146 e ss., d.lgs. n. 42 del 2004, sulla vigilanza ed i controlli per le vicende inerenti ai beni culturali e del paesaggio; esse costituiscono altresì, perché lo dice l’art. 143, comma 1, lett. g) e h), il metodo per l’individuazione sia degli interventi (di competenza operativa comunque altrui) di recupero e riqualificazione delle aree compromesse o degradate, sia delle misure necessarie per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione del territorio per lo sviluppo sostenibile delle aree coinvolte  (1).  (1) C.g.a., sez. giur., 27 settembre 2012, n. 811. ​​​​​​​
Paesaggio
Processo amministrativo – Ricorsi elettorali – Istanza misure monocratiche cautelari – Rito ex art. 129 c.p.a. – Inammissibilità.               È inammissibile l’istanza di misure cautelari monocratiche nel procedimento elettorale ex art. 129 c.p.a., connotato da un rito particolarissimo e iper-accelerato per la definizione dei procedimenti elettorali aventi a oggetto l’esclusione di liste e candidati, nel quale l’udienza di merito si tiene entro tre giorni dal deposito dell’appello e la sentenza che definisce il giudizio è pubblicata nello stesso giorno (1).   (1) Ha chiarito il decreto che il legislatore, fissando i predetti termini, ha voluto strutturare un rito peculiarissimo, nel quale non v’è spazio, né tempo, per la pronunzia di misure cautelari – in quando esse sono destinate a essere integralmente surrogate dall’immediatezza della definitiva decisione di merito – in ragione delle peculiari esigenze di rapidità estrema (che, lungi dall’esser proprie di questa specifica controversia, come si deduce nell’atto di appello, sono invece comuni assolutamente a tutti i ricorsi elettorali anteriori ai comizi) le quali tuttavia si coniugano anche con l’esigenza di certezza e stabilità della decisione assunta, che può e deve essere garantita unicamente dalla rapidissima formazione del giudicato in un momento ben anteriore al giorno delle elezioni. ​​​​​​​Il legislatore, fissando i predetti termini, ha voluto strutturare un rito peculiarissimo, nel quale non v’è spazio, né tempo, per la pronunzia di misure cautelari – in quando esse sono destinate a essere integralmente surrogate dall’immediatezza della definitiva decisione di merito – in ragione delle peculiari esigenze di rapidità estrema (che, lungi dall’esser proprie di questa specifica controversia, come si deduce nell’atto di appello, sono invece comuni assolutamente a tutti i ricorsi elettorali anteriori ai comizi) le quali tuttavia si coniugano anche con l’esigenza di certezza e stabilità della decisione assunta, che può e deve essere garantita unicamente dalla rapidissima formazione del giudicato in un momento ben anteriore al giorno delle elezioni.
Processo amministrativo
Giurisdizione - Istituti di credito - Certificazione dei crediti – Ritiro – Impugnazione - Giurisdizione del giudice amministrativo.                         Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia proposta da una Banca avente ad oggetto il ritiro in autotutela della certificazione del credito rilasciata ai sensi degli artt. 9, commi 3-bis e 3-ter, d.l. 29 novembre 2008, n. 185, 7, d.l. 8 aprile 2013, n. 35 e 37, d.l. 24 aprile 2014, n. 66, e ciò in quanto la finalizzazione al soddisfacimento di un interesse pubblico e la procedimentalizzazione dell'attività certificatoria, per come delineata da una disciplina di carattere pubblicistico posta a suo fondamento, caratterizza in chiave autoritativo-provvedimentale l'attività amministrativa in questione (1).   (1) Ha chiarito il C.g.a. che si deve escludere che il carattere vincolato dell'attività svolta denoti ipso facto l'assenza, in capo alla P.A., di una posizione di supremazia, nonché la conseguente natura paritetica degli atti adottati dalla stessa P.A. nel rapporto con l'amministrato.  ​​​​​​​La circostanza che il potere amministrativo sia vincolato - e cioè che il suo esercizio sia predeterminato dalla legge nell'an e nel quomodo - non trasforma il potere medesimo in una categoria civilistica, assimilabile ad un diritto potestativo, ove l'Amministrazione eserciti una funzione di verifica, controllo, accertamento tecnico dei presupposti previsti dalla legge, quale soggetto incaricato della cura di interessi pubblici generali, esulanti dalla propria sfera patrimoniale: il potere vincolato, dunque, resta comunque espressione di "supremazia" o di "funzione", con il corollario che dalla sua natura vincolata derivano conseguenze non sul piano della giurisdizione, ma su quello delle tecniche di tutela (si pensi al potere del giudice in sede di giudizio sul silenzio di pronunciarsi, ai sensi dell'art. 31, comma 3, c.p.a., sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio). ​​​​​​​Del resto, che l'attività della P.A., per il solo fatto di essere vincolata, non cessi di essere attività autoritativa e di tradursi in atti aventi natura non già paritetica, bensì provvedimentale, sottoposti alla giurisdizione del G.A., emerge con chiarezza da molteplici istituti del diritto amministrativo.  ​​​​​​​Data la premessa, il C.g.a. conclude nel senso che l'individuazione del giudice munito di giurisdizione sia, anche nel caso in questione, ancorata all'ordinario criterio della causa petendi, ovverosia della posizione giuridica soggettiva per la quale viene attivata la tutela giurisdizionale, il che impone la determinazione della natura dell'atto adottato dall'amministrazione, sussistendo la giurisdizione del G.A. laddove si tratti di un atto di esercizio di poteri autoritativi funzionale al perseguimento dell'interesse pubblico. ​​​​​​​Ebbene, il potere certificativo in questione ha natura pubblicistica essendo espletato dall’amministrazione in virtù della posizione di “supremazia” che la stessa riveste nell’ordinamento quale soggetto istituzionalmente preposto alla tutela di interessi pubblicistici. ​​​​​​​L'attribuzione alla cognizione del giudice amministrativo della legittimità del rilascio della certificazione in questione, e dello speculare provvedimento di ritiro in autotutela, deriva dalla natura di atto soggettivamente ed oggettivamente amministrativo, emesso nell'esercizio di poteri autoritativi e che non si esaurisce in una mera operazione contabile che culmina nella certificazione del credito, essendo, invece, dal punto di vista logico e semantico, espressione di un motivato giudizio critico. ​​​​​​​Non si tratta di attività meramente ricognitiva di documentazione, di una manifestazione di scienza e conoscenza i cui presupposti, contenuti ed effetti siano integralmente predeterminati dalla legge, poiché sottesi all’emissione del provvedimento in questione sono i poteri di verifica dell’esistenza e regolarità dell’obbligazione, del mancato intervento di cause di estinzione del debito, di modo che la corrispondente posizione dei privati interessati non risulta essere di diritto, in quanto nell’esercizio di tale potestà amministrativa di carattere autoritativo l’amministrazione non agisce iure privatorum, e correlativamente, il privato non è titolare di un diritto soggettivo.
Giurisdizione
Processo amministrativo – Covid-19 – Istanza di discussione da remoto – Art.4, comma1, d.l. n.28 del 2020 – Proposta dal ricorrente che ha chiesto termini a difesa – Reiezione. Deve essere respinta l’istanza – presentata dal ricorrente che ha chiesto termini a difesa - di discussione mediante collegamento da remoto, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, secondo periodo, del d.l. n. 28 del 2020, ferma restando la possibilità di ripresentarla per l’eventuale udienza successiva (1).   (1) Il decreto ha respinto la richiesta di discussione orale da remoto, pur ritenendo che l’opposizione depositata dal comune non presenti argomenti che inducano a escludere la discussione, chiarendo che risulta superfluo prevedere la discussione orale da remoto al fine di valutare l’istanza di rinvio per termini a difesa. Il decreto, con riferimento alla dichiarazione del comune che, in caso di discussione da remoto, si sarebbe proceduto mediante collegamento Skype o Zoom, ha precisato che l’eventuale udienza da remoto in una data successiva avverrà mediante sistema di collegamento audiovisivo da remoto della piattaforma Microsoft Teams in uso presso la Giustizia amministrativa, ai sensi dell’art 3, comma 2, dell’Allegato 3 al DPCS 134/2020, restando preclusi altri sistemi di collegamento.
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Interesse a ricorrere - Atto “meramente confermativo” e atto “di conferma in senso proprio” – Differenza anche ai fini della necessità della impugnazione.      Ai fini della valutazione dell’impatto di un nuovo provvedimento, adottato nelle more di un processo amministrativo, sulla persistenza dell’interesse a ricorrere e sulla necessità di una sua impugnativa occorre verificare la natura dello stesso, se atto “meramente confermativo” o atto “di conferma in senso proprio” (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che gli atti “meramente confermativi” sono quegli atti che, a differenza degli atti “di conferma”, si connotano per la ritenuta insussistenza, da parte dell’amministrazione, di valide ragioni di riapertura del procedimento conclusosi con la precedente determinazione; mancando detta riapertura e la conseguente nuova ponderazione degli interessi coinvolti, nello schema tipico dei c.d. “provvedimenti di secondo grado”, essi sono insuscettibili di autonoma impugnazione per carenza di un carattere autonomamente lesivo (Cons. Stato, sez. V, 4 ottobre 2021, n. 6606; id. 8 novembre 2019, n. 7655; id. 17 gennaio 2019, n. 432; id., sez. III, 27 dicembre 2018, n. 7230; id., sez. IV, 12 settembre 2018, n. 5341; id., sez. VI, 10 settembre 2018, n. 5301; id., sez. III, 8 giugno 2018, n. 3493; id., sez. V, 10 aprile 2018, n. 2172; id. 27 novembre 2017, n. 5547; id., sez. IV, 27 gennaio 2017, n. 357; id. 12 ottobre 2016, n. 4214; id. 29 febbraio 2016, n. 812).  In pratica, l’atto meramente confermativo ricorre quando l’amministrazione si limita a dichiarare l’esistenza di un suo precedente provvedimento, senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (Cons. Stato, sez. V, 22 giugno 2018, n. 3867); esso si connota per la sola funzione di illustrare all’interessato che la questione è stata già delibata con precedente espressione provvedimentale, di cui si opera un integrale richiamo. Tale condizione, quale sostanziale diniego di esercizio del riesame dell’affare, espressione di lata discrezionalità amministrativa, lo rende privo di spessore provvedimentale, da cui, ordinariamente, la intrinseca insuscettibilità di una sua impugnazione (Cons. Stato, sez. IV, 3 giugno 2021, n. 4237; id. 29 marzo 2021, n. 2622).  Di contro, l’atto di conferma in senso proprio è quello adottato all’esito di una nuova istruttoria e di una rinnovata ponderazione degli interessi, e pertanto connotato anche da una nuova motivazione (Cons. Stato, sez. VI, 13 luglio 2020, n. 4525; id., sez. II, 24 giugno 2020, n. 4054; id., sez. VI, 30 giugno 2017, n. 3207; id., sez. IV, 12 ottobre 2016, n. 4214; id. 29 febbraio 2016, n. 812; id. 12 febbraio 2015, n. 758; id. 14 aprile 2014, n. 1805).  In particolare, non può considerarsi “meramente confermativo” di un precedente provvedimento l’atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al primo provvedimento, giacché solo l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fase considerata, può condurre a un atto “propriamente confermativo”, in grado, come tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione (Cons. Stato, sez. V, 7 maggio 2021, n. 3579).
Processo amministrativo