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Stranieri – Permesso di soggiorno - Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo – Reddito da lavoro irregolare – Non è computabile.
In sede di rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo non può essere considerato, al fine di integrare il presupposto del reddito, il lavoro irregolare (1).
(1) Ha ricordato il C.g.a. che il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo è disciplinato dalla direttiva 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE che, ad avviso della Corte di giustizia (17 luglio 2014 in C-469/13), deve essere interpretata nel senso che non consente ad uno Stato membro di rilasciare un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo a condizioni più favorevoli di quelle previste nella stessa direttiva. Ciò in quanto l’armonizzazione delle condizioni per il conferimento dello status di soggiornante di lungo periodo favorisce la reciproca fiducia fra gli Stati membri. In tale contesto, il considerando 17 della citata direttiva enuncia che i titoli di soggiorno permanenti o di validità illimitata rilasciati a condizioni più favorevoli rispetto a quelle previste da detta direttiva non danno accesso al diritto di soggiorno in altri Stati membri.
Come risulta infatti da una lettura combinata degli artt. 2, lettera b), e 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/109, un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo riconosciuto da uno Stato membro produce effetti anche sugli altri stati posto che conferisce, in linea di principio, al suo titolare il diritto di soggiornare per più di tre mesi nel territorio di Stati membri diversi da quello che gli ha concesso lo status di soggiornante di lungo periodo. Ne deriva che i requisiti di rilascio del permesso di soggiorno UE di lungo periodo, di cui alla presente controversia, richiedono di essere valutati con un particolare rigore, comunque adeguato a garantire il rispetto della disciplina interna, interpretata alla luce della direttiva UE.
L’art. 5 della direttiva stabilisce, per quanto di interesse nella presente controversia, che gli Stati membri richiedono ai cittadini di paesi terzi di comprovare che dispongono, per sé e per i familiari a carico, di risorse stabili e regolari, sufficienti al sostentamento loro e dei loro familiari, senza fare ricorso al sistema di assistenza sociale dello Stato membro interessato. “Gli Stati membri valutano dette risorse con riferimento alla loro natura e regolarità e possono tenere conto del livello minimo di retribuzioni e pensioni prima della presentazione della richiesta dello status di soggiornante di lungo periodo”.
L’art. 9, d.lgs. n. 286 del 1998, che dispone l’istanza di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, può essere presentata dallo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale.
Detto ciò, la giurisprudenza formatasi nella materia dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato (quindi non direttamente sul permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo) ha in più occasioni ritenuto non spendibile il lavoro irregolare al fine di integrare il presupposto del reddito.
Per una prima impostazione, se l’onere di dimostrare i requisiti reddituali imposto dagli artt. 4 e 5, d.l.gs. n. 286 del 1998 al soggetto istante non è soddisfatto mediante la dimostrazione di concreti e leciti mezzi di sostentamento di cui il richiedente dispone in Italia, non è consentito alla Questura il rilascio o il rinnovo del permesso, considerata anche la ratio della normativa, cioè di permettere il soggiorno sul territorio nazionale solo agli stranieri dotati di mezzi di sostentamento idonei e sufficienti, per consentire loro una vita dignitosa ed evitare che si dedichino ad attività illecite o criminose.
In una diversa prospettiva la giurisprudenza ha in qualche caso (comunque non rappresentativo di un orientamento consolidato) valorizzato positivamente la circostanza della sussistenza di un rapporto di lavoro, atteso l’orientamento della Corte di cassazione circa la liceità del rapporto di lavoro in nero (Cass., sez. lav., 5 novembre 2010, n. 22559).
Peraltro negli ultimi anni sono state peraltro introdotte (art. 5, d.l. 16 luglio 2012, n. 109 e art. 103, d.l. n. 34 del 2020) fattispecie di sanatoria del rapporto di lavoro irregolare a vantaggio di stranieri (che non hanno coinvolto il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo), riguardanti ipotesi di lavoro subordinato (mentre nel caso di specie l’appellante ha prospettato una situazione nella quale fra le parti è intercorso un rapporto di lavoro riconducibile all’associazione in partecipazione).
La presenza di tali disposizioni rende oltremodo incerta la possibilità, riconosciuta solo in qualche caso dalla giurisprudenza citata, di valorizzare in modo generalizzato (quindi al di fuori dall’ambito applicativo di specifiche fattispecie normative) la sussistenza di lavoro irregolare, al fine del rilascio del permesso di soggiorno. “Il mancato versamento dei contributi di legge prova che, se anche il rapporto di lavoro non fosse inesistente, sarebbe un rapporto di lavoro “in nero” che come tale non costituisce un valido presupposto per l’ottenimento di un permesso di soggiorno ordinario. Tanto che si rende necessario, da parte del legislatore, intervenire con periodiche leggi di “sanatoria” che consentono la c.d. “emersione del lavoro irregolare” al fine della regolarizzazione e conseguente rilascio del permesso di soggiorno” (C.g.a. 25 settembre 2020, n. 810).
Da quanto sopra discende che la presenza di un lavoro irregolare (e quindi di un reddito occulto per lo Stato italiano) non è, se non in casi particolari, una condizione utilizzabile al fine di dimostrare la sussistenza del requisito reddituale di cui all’art. 5, d.P.R. n. 286 del 1998.
A diversa conclusione non può giungersi richiamando la giurisprudenza, formatasi sul permesso di soggiorno diverso da quello UE per soggiornanti di lungo periodo, secondo cui nel procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno l'extracomunitario può dimostrare con vari strumenti probatori, ove necessario, il possesso del requisito del reddito minimo proveniente da fonte lecita, anche se si tratta di redditi provenienti da rapporti di lavoro con evasione dei relativi contributi dovuti all'ente previdenziale” (Cons. St., sez. III, 25 luglio 2016, n. 3326), e ciò in quanto il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo richiede una valutazione dei requisiti adeguata a garantire il rispetto delle condizioni stabilite a livello eurounitario, per quanto riguarda il caso di specie la sussistenza di “risorse stabili e regolari”.
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Straniero
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Atto amministrativo – Atto plurimo – Ammissibilità – Limiti.
Edilizia – Sanatoria – Sanatoria ordinaria – Disciplina applicabile – Individuazione.
Edilizia – Sanatoria – Sanatoria del titolo edilizio illegittimo – Esclusione.
La astratta ammissibilità di provvedimenti a contenuto plurimo, caratterizzati da un’unitarietà solo formale, ma non anche sostanziale, in quanto scindibili in molteplici atti di diverso contenuto, indipendenti l’uno dall’altro, deve essere contemperata col divieto di commistione tra profili incompatibili tra di loro (1).
In materia di abusi edilizi la peculiare natura della cd. sanatoria ordinaria, per il rilascio della quale l’Amministrazione è chiamata a svolgere una valutazione vincolata, priva di contenuti discrezionali e relativa alla realizzazione di un assetto di interessi già prefigurato dalla disciplina urbanistica applicabile, non consente l’integrazione con diverse fattispecie previste da altri corpi normativi.
Non è consentito sanare, né legittimare per il tramite di una semplice variante, un vizio del permesso di costruire, stante che nell’uno come nell’altro caso l’avallo postumo ha ad oggetto l’illecito, non il titolo edilizio; per intervenire sul provvedimento, infatti, occorre che l’Amministrazione agisca in autotutela che, ove si concretizzi in una convalida, avente efficacia ex tunc proprio in ragione delle sottese esigenze di economia dei mezzi dell’azione amministrativa e di conservazione, renderebbe legittimo l’intervento ab origine, senza necessità di alcuna sanatoria (2).
(1) Con la sentenza in esame la Sezione affronta il tema della ammissibilità di un provvedimento a contenuto plurimo che racchiuda in sé una sanatoria e l’avallo di una variante cd. “comune”, escludendola laddove non si addivenga ad una mera sommatoria di atti, ma si pretenda di attingere la finalità ad entrambi in maniera promiscua. Non esiste infatti nessuna pregiudiziale sistematica alla confluenza in un unico provvedimento di due distinte finalità, non essendo ravvisabile alcun principio o norma che la precluda. L’ordinamento contempla, anzi, pacificamente la categoria degli atti a contenuto plurimo, caratterizzati da un’unitarietà solo formale, ma non anche sostanziale, in quanto scindibili in molteplici atti di diverso contenuto, indipendenti l’uno dall’altro. Essa tuttavia non consente la commistione di finalità eterogenee, a maggior ragione avuto riguardo alla tipicità che connota ontologicamente il permesso in sanatoria. L’istituto del cd. accertamento di conformità, o sanatoria ordinaria, nella disciplina dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (ma ancor prima in quella dell’art. 13, l. n. 47 del 1985), concerne la legittimazione postuma dei soli abusi formali, cioè di quelle opere che, pur difformi dal titolo (od eseguite senza alcun titolo), risultino rispettose della disciplina sostanziale sull’utilizzo del territorio, non solo vigente al momento dell’istanza di sanatoria, ma anche all’epoca della loro realizzazione. La sanabilità dell’intervento, in altri termini, presuppone necessariamente che non sia stata commessa alcuna violazione di tipo sostanziale, in presenza della quale, invece, non potrà non scattare la potestà sanzionatorio - repressiva degli abusi edilizi prevista dagli artt. 27 e ss., d.P.R. n. 380 del 2001. Costituisce jus receptum che per il rilascio della sanatoria l’Amministrazione è chiamata a svolgere una valutazione vincolata, priva di contenuti discrezionali e relativa alla realizzazione di un assetto di interessi già prefigurato dalla disciplina urbanistica applicabile. In tale ipotesi, cioè, almeno in linea generale e fatte salve le ipotesi particolari e temporanee di condono che hanno natura eccezionale e che sono state individuate con rigorosa tassatività dalle singole leggi istitutive, senza possibilità di integrazione con diverse fattispecie previste da altri corpi normativi, «l’unico schema applicabile è quello riconducibile all’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001» (Cons. St., A.P., n. 4 del 2009), cui non è equiparabile neppure il procedimento della cd. variante semplificata di cui all’art. 5, d.P.R. n. 447 del 1998, «che è invece orientato ad altra finalità, ovvero quello di semplificare o rendere più celere la modifica dello strumento urbanistico e dunque, da ultimo, favorire l'installazione di strutture produttive, con un meccanismo procedurale analogo a quello previsto dall'art. 19, d.P.R. n. 327 del 2001» (Tar Catanzaro n. 2206 del 2014; Tar Lecce, sez. III, 14 gennaio 2010, n. 146).
(2) Ha chiarito la Sezione che se l’abuso consegue (anche) alla illegittimità del titolo edilizio originario, la sanatoria non può fungere da convalida dello stesso, consentendo nel contempo di correggere l’errore dell’atto e legittimare ex post l’illecito. La convalida, infatti, avendo efficacia ex tunc, renderebbe ultronea la sanatoria, che riguarda i fatti, e non gli atti. D’altro canto, la variante in corso d’opera è ontologicamente incompatibile con un abuso non ancora sanato. Essa infatti si caratterizza come una modalità per adeguare un progetto in itinere prima della chiusura dei lavori e costituisce “parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell’intervento principale”. La relativa categoria concettuale è stata invero prevalentemente ricavata dalla giurisprudenza, laddove ha affermato che le modifiche, sia qualitative che quantitative apportate al progetto originario, possono considerarsi “varianti in senso proprio” soltanto quando quest’ultimo non venga comunque radicalmente mutato nei suoi lineamenti di fondo, sulla base di vari indici quali la superficie coperta, il perimetro, la volumetria nonché le caratteristiche funzionali e strutturali (interne ed esterne) del fabbricato (Cons. St., sez. II, 14 aprile 2020, n. 2381; id. 22 luglio 2019, n. 5130).
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Atto amministrativo
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Demanio – demanio marittimo – concessione – scadenza – opere edilizie – cessione a titolo non oneroso – disciplina – compatibilità europea - quesito.
Vertendosi in tema di interpretazione del diritto comunitario, si ritiene, per la rilevanza degli interessi coinvolti e per la complessità dei valori in gioco, di dover sottoporre al Giudice Comunitario il seguente quesito: - Se gli artt. 49 e 56 TFUE ed i principi desumibili dalla sentenza Laezza (C- 375/14) ove ritenuti applicabili, ostino all’interpretazione di una disposizione nazionale quale l’art. 49 cod. nav. nel senso di determinare la cessione a titolo non oneroso e senza indennizzo da parte del concessionario alla scadenza della concessione quando questa venga rinnovata, senza soluzione di continuità, pure in forza di un nuovo provvedimento, delle opere edilizie realizzate sull’area demaniale facenti parte del complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa balneare, potendo configurare tale effetto di immediato incameramento una restrizione eccedente quanto necessario al conseguimento dell’obiettivo effettivamente perseguito dal legislatore nazionale e dunque sproporzionato allo scopo.
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Demanio
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Covid-19 – Contratti della Pubblica amministrazione - Indagine di mercato finalizzata all’individuazione dei laboratori/consorzi per l’analisi dei tamponi oro-faringei – Mancata inclusione ricorrente - Mancanza di danno – Non va sospeso.
Non va sospesa la determina dell’indagine di mercato finalizzata all’individuazione dei laboratori/consorzi per l’analisi dei tamponi oro-faringei volti all’attività di screening per AA.SS. della Regione Campania nell’ambito della gestione dell’emergenza legata al Covid-19, nella parte in cui non ha incluso la società ricorrente tra gli idonei, non essendo ravvisabile il presupposto della “estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio” attesa la prevedibile lunga durata della situazione di emergenza sanitaria e la conseguente eventuale, ma possibile, reintegrabilità delle sue aspettative.
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Covid-19
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Covid-19 – Esercizi commerciali – Apertura - Limiti ex d. P.C.M. 26 aprile 2020 – Non va sospeso.
Non deve essere sospeso, mancando i presupposti ex art. 56 c.p.a., il d.P.C.M. 26 aprile 2020, nella parte in cui limita la riapertura degli esercizi commerciali in considerazione della diffusione del virus Covid-19 su base territoriale
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Covid-19
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Processo amministrativo – Covid-19 – Tutela cautelare - Decisione cautelare collegiale - Calendarizzata in periodo ricompreso fra il 6 e il 15 aprile 2020 - Differimento della camera di consiglio – Richiesto dal ricorrente che ha ottenuto la tutela monocratica - Art. 84, comma 2, terzo periodo, d.l. n. 18 del 2020 – Esclusione.
Covid-19 – Campania – Misure restrittive della libera circolazione – Ordinanza del Presidente della Giunta regionale n. 15 del 2020 - Violazione – Obbligo di quarantena domiciliare di 14 giorni – Deroga all’obbligo di rimanere a casa per assistere madre malata – Va sospesa.
Deve essere respinta l’istanza di rinvio, ex art. 84, comma 2, terzo periodo, d.l. n. 18 del 2020, della camera di consiglio collegiale calendarizzata il 7 aprile 2019 formulata dalla parte ricorrente, beneficiaria della misura monocratica ex art. 84, d.l. n. 18 del 2020, mirando il combinato disposto del comma 1, u.p., e comma 2, terzo periodo, dell’art. 84 cit. ad evitare rinvii meramente strumentali, esclusivamente volti a conservare l’efficacia del decreto di accoglimento, eccezionalmente riconosciuta fino alla successiva udienza di rinvio, in deroga all’art. 56, comma 4, c.p.a. (1).
Deve essere sospeso il verbale di “Intimazione ad osservare la permanenza domiciliare con isolamento fiduciario, mantenendo lo stato di isolamento per 14 giorni, con divieto di contatti sociali e di rimanere raggiungibile per ogni eventuale attività di sorveglianza”, applicato dalla Legione dei Carabinieri Campania – Compagnia Carabinieri di Salerno in applicazione dell’ordinanza del Presidente della Regione Campania n. 15 del 13 marzo 2020, ad oggetto “ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. Ordinanza, ai sensi dell’art. 32, comma, 3 della legge 23.12.1978 n. 833 e dell’art. 50 Tuel”, adottato nei confronti del ricorrente che è stato fermato mentre andava ad assistere la madre malata, come aveva autocertificato, oltre a produrre documentazione medica di data anteriore all’accertamento, che lo spostamento contestato (che ha determinato l’applicazione della misura della “domiciliazione fiduciaria”) era necessario essendo egli l’unico, allo stato, sì come autodichiarato, in grado di apprestare assistenza all’anziana madre per necessità proprie ed anche in funzione preventiva rispetto a possibili pericolose evenienze (2).
(1) Ha chiarito il Tar le disposizioni straordinarie di cui all’art. 84, d.l. n. 18 del 2020, recante “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19", hanno introdotto una tutela cautelare temporalmente limitata e derogatoria di quella delineata agli art. 55 e 56 c.p.a. stabilendo, in particolare, che i procedimenti cautelari promossi o pendenti dall’8 marzo 2020 al 15 aprile 2020 sono decisi, anche a prescindere da una specifica istanza di parte in tal senso, con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all'articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020 (cfr. art. 84, comma 1, d.l. n. 18 del 2020).
Tuttavia, in deroga a tali previsioni, limitatamente alle udienze cautelari fissate nel periodo dal 6 aprile al 15 aprile 2020, è prevista la possibilità di trattazione collegiale delle relative istanze cautelari, sia pure eccezionalmente senza discussione orale: a) nell’ipotesi in cui vi sia stata richiesta congiunta di tutte le parti costituite ( art. 84, comma 2, primo periodo); b) ovvero nel caso in cui sia intervenuto decreto monocratico di accoglimento, anche parziale (da intendersi, in assenza di specificazione, sia pronunciato ex art. 84, comma 1, d.l. n. 18 del 2020, ovvero sostitutivo della misura collegiale, che ex art. 56 c.p.a.), salvo che una delle parti su cui incide la misura cautelare depositi istanza di rinvio (cfr. art. 84, comma 2, terzo periodo); in tal caso il decreto accolto, in deroga all’art. 56, comma 4, c.p.a., conserva efficacia fino alla successiva trattazione collegiale (art. 84, comma 1, ultimo periodo);
Ha quindi affermato il Tar che in applicazione delle superiori coordinate, che con riferimento all’istanza cautelare all’esame sussistono i presupposti per la trattazione collegiale, ai sensi dell’art. 84, comma 2, terzo periodo, posto che: è intervenuto decreto monocratico di parziale accoglimento n. 436 del 21 marzo 2020, emanato ex art. 84, comma 1, d.l. n. 18 del 2020; non vi è istanza di rinvio proveniente da alcuna parte incisa dalla misura; le Amministrazioni resistenti hanno spiegato difese, sostenendo la legittimità dei propri atti e instando per il rigetto della misura; non è di ostacolo alla trattazione collegiale l’istanza di rinvio formulata dalla parte ricorrente, beneficiaria della misura monocratica, mirando il combinato disposto del comma 1, u.p., e comma 2, terzo periodo, dell’art. 84 cit. ad evitare rinvii meramente strumentali, esclusivamente volti a conservare l’efficacia del decreto di accoglimento, come visto eccezionalmente riconosciuta fino alla successiva udienza di rinvio, in deroga all’art. 56, comma 4, c.p.a..
(2) Ha chiarito il Tar che la disposta “domiciliazione fiduciaria” presuppone la circolazione senza una delle motivazioni di necessità previste dai D.P.C.M. ovvero dalle ordinanze regionali – consentendo invece l’ordinanza del Presidente della Regione Campania n. 15 del 13 marzo 2020 “esclusivamente spostamenti temporanei ed individuali, motivati … da situazioni di necessità …. correlate ad esigenze primarie delle persone”. Ha aggiunto che le esigenze rappresentate dal ricorrente non erano state adeguatamente valutate
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Covid-19
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Militari, forze armate e di polizia - Procedimenti disciplinari - Sanzioni disciplinari - Engel criteria – Applicabilità – Limiti.
I cd. Engel criteria non si applicano alle sanzioni disciplinari inflitte ai militari (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che alla luce della giurisprudenza eurounitaria, nel valutare la «natura penale di procedimenti e di sanzioni (…) sono rilevanti tre criteri. Il primo consiste nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale ( occorre accertare se le norme che definiscono l’illecito in questione appartengono, secondo il sistema legale del singolo Stato, al campo penale, fiscale, disciplinare o amministrativo); il secondo nella natura dell’illecito; il terzo nel grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere.
Ha aggiunto che in base alla consolidata giurisprudenza costituzionale (cfr. da ultimo Corte cost. n. 240 del 2018), europea (cfr. da ultimo Corte di giustizia europea, sez. II, 8 maggio 2019, C-53718, Mastromartino; Corte europea dei diritti dell’uomo, 4 marzo 2014, Grande Stevens) e di legittimità (cfr. Cass. pen., sez. V, 5 febbraio 2019, n. 5679, Erbetta; sez. V, 10 ottobre 2018, n. 45829, Franconi): a) la principale funzione cui tali principi assolvono – in quanto espressione del divieto di ne bis in idem sostanziale - è quella di impedire che alla medesima persona, in relazione a identica fattispecie, siano inflitte due uguali sanzioni di natura ontologicamente penale; b) la materia di elezione è quella degli illeciti bancari, assicurativi, finanziari, tributari, previdenziali, societari; c) l’identità della fattispecie non si configura, già sul piano astratto, in relazione agli illeciti disciplinari che rilevano solo all’interno dei rispettivi ordinamenti di settore (cfr. Cass. civ., sez. II, 3 febbraio 2017, n. 2927 concernente sanzioni disciplinari inflitte a carico di notaio; Cass. pen., sez. III, 23 marzo 2015, n. 36350, B., relativa a sanzione disciplinare sportiva, qui la Corte ha anche ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione agli artt. 4 del protocollo n. 7 della Convenzione EDU, 117 e 24 Cost.).
Ha aggiunto la Sezione che nella vicenda in esame si controverte esclusivamente della applicazione di una sanzione disciplinare interna all’ordinamento della Polizia di Stato e non si è in presenza della inflizione di due sanzioni per il medesimo fatto. L’impostazione esegetica in commento ha ricevuto un ulteriore recente avallo dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande camera, 22 dicembre 2020, Gestur Jónsson And Ragnar Halldór Hall c. Islanda, che ha virato verso una interpretazione restrittiva delle condizioni richieste per configurare una controversia penale cui applicare i cd. Engel criteria.
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Militari, forze armate e di polizia
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Processo amministrativo – Questione di legittimità costituzionale – Decisione nella fase cautelare – Limiti.
Nella fase cautelare, al fine di conciliare il carattere accentrato del controllo di costituzionalità delle leggi, ove ne ricorrano i presupposti, con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, non può escludersi, quando gli interessi in gioco lo richiedano, una forma limitata di controllo diffuso che consente la concessione del provvedimento di sospensione, rinviando alla fase di merito, al quale il provvedimento cautelare è strumentalmente collegato, il controllo della Corte costituzionale, con effetti erga omnes (1).
(1) Cons. St., A.P., 20 dicembre 1999, n. 2.
Ha chiarito il Collegio che nel caso sottoposto al proprio esame la concessione delle misura cautelare (ammissione con riserva), non comporta la disapplicazione di una norma vigente, ma tende a conciliare la tutela immediata e reale, ancorché interinale, degli interessi in gioco con il carattere accentrato del controllo di costituzionalità delle leggi, e si presenta ad un tempo misura idonea ad evitare il danno grave e irreparabile del ricorrente, consentendogli di partecipare alle prove concorsuali a parità di condizioni con gli altri concorrenti, ed a scongiurare il rischio per l’amministrazione di una invalidazione totale dell’intera procedura concorsuale, rispetto al quale il prospettato pregiudizio organizzativo appare recessivo.
L’ordinanza ha quindi richiamato la sentenza della Cass. civ., sez. un., 18 novembre 2015, n. 23542, che ha ritenuto inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione che - in un giudizio proposto in primo grado innanzi al giudice ordinario il quale, in corso di causa, abbia adottato, a domanda del ricorrente di provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., un provvedimento diretto ad accordare al ricorrente una tutela provvisoria ed interinale nelle more del giudizio incidentale di costituzionalità che contestualmente, con ordinanza di rimessione, abbia sollevato - lamenti l’eccesso di potere giurisdizionale di quel giudice assumendo che la tutela cautelare era preclusa per legge e che il contestuale sollevamento della questione di legittimità costituzionale non autorizzava quel giudice a non applicare la norma della cui legittimità costituzionale dubitava, atteso che nella questione così proposta non è identificabile una questione di giurisdizione ex artt. 37 e 41 c.p.c. che la Corte di cassazione, a sezioni unite, possa essere chiamata a risolvere.
Il Tar ha quindi concluso nel senso della non sussistenza dell’eccesso di potere giurisdizionale nella concessione della chiesta tutela cautelare interinale.
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Processo amministrativo
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1) Ha chiarito la Sezione che in base alla formulazione dell’art. 6, comma 1, l. n. 401 del 1989, nel testo vigente al momento dell’adozione del Daspo impugnato (17 agosto 2018), “Nei confronti delle persone che risultano denunciate o condannate anche con sentenza non definitiva nel corso degli ultimi cinque anni per uno dei reati di cui all'articolo 4, primo e secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, all'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, all'articolo 2, comma 2, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, all'articolo 6-bis, commi 1 e 2, e all'articolo 6-ter, della presente legge, nonché per il reato di cui all'articolo 2-bis del decreto-legge 8 febbraio 2007, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2007, n. 41, e per uno dei delitti contro l'ordine pubblico e dei delitti di comune pericolo mediante violenza, di cui al libro II, titolo V e titolo VI, capo I, del codice penale, nonché per i delitti di cui all'articolo 380, comma 2, lettere f) ed h) del codice di procedura penale, ovvero per aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza, il questore può disporre il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate, nonché a quelli, specificamente indicati, interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni medesime.”.
La norma, nella formulazione ratione temporis vigente, prevede quindi che il Daspo sia adottato nei confronti di chi si rende protagonista di atti violenti “in occasione o a causa di manifestazioni sportive”.
La questione che si pone alla Sezione è se la cerimonia organizzata per presentare i calciatori di una squadra di calcio si possa definire “evento sportivo”.
Per dare una risposta a questo interrogativo appare necessario risalire alla ratio sottesa all’istituto del Daspo. Si tratta di misura preventiva e non sanzionatoria, come pure ha chiarito di recente la Corte europea dei diritti dell’uomo, in via generale, sulle analoghe misure previste dalla legislazione croata (Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. I, 8 novembre 2018, ric. n. 19120/15, Seražin c. Croazia), menzionando tra le altre legislazioni in materia anche quella italiana e pervenendo ad escludere la natura sanzionatoria della misura amministrativa, sulla base dei cc.dd. criterî Engel, sia per l’applicabilità della misura indipendentemente da una condanna penale, sia anche per la finalità prevalente della misura, consistente nella creazione di un ambiente che prevenga comportamenti violenti o pericolosi a protezione dell’ordine pubblico e degli altri spettatori, sia infine per la mancanza di afflittività, non consistendo in una privazione della libertà o in una imposizione di obbligazione pecuniaria (Cons. St., sez. III, 4 febbraio 2019, n. 866).
Occorre ricordare che, ai sensi dell’art. 6, comma 1, l. n. 401 del 1989, il Daspo anche nel nostro ordinamento, non diversamente che in quello croato, può essere altresì disposto nei confronti di chi, sulla base di elementi di fatto, risulta avere tenuto, anche all’estero, una condotta, sia singola che di gruppo, evidentemente finalizzata alla partecipazione attiva ad episodi di violenza, di minaccia o di intimidazione, tali da porre in pericolo la sicurezza pubblica o a creare turbative per l’ordine pubblico.
Anche per il Daspo disposto dal Questore - come per tutto il diritto amministrativo della prevenzione incentrato su una fattispecie di pericolo per la sicurezza pubblica o per l’ordine pubblico - deve valere la logica del “più probabile che non”, non richiedendosi, anche per questa misura amministrativa di prevenzione (al pari di quelle adottate in materia di prevenzione antimafia), la certezza ogni oltre ragionevole dubbio che le condotte siano ascrivibili ai soggetti destinatari del Daspo, ma, appunto, una dimostrazione fondata su “elementi di fatto” gravi, precisi e concordanti, secondo un ragionamento causale di tipo probabilistico improntato ad una elevata attendibilità.
Considerata dunque la ratio sottesa a tale istituto, appare evidente la riconducibilità dell’atto di violenza di cui si è reso protagonista l’appellante, partecipando ad una manifestazione non organizzata con altri tifosi (circa una ottantina) della Spall, alle ipotesi delineate dall’art. 6, comma 1, l. n. 401 del 1989.
Se, infatti, alla base di questa misura è la necessità di evitare che lo sport possa essere l’occasione per dare sfogo ad atti di violenza, certo è che anche la manifestazione non autorizzata, organizzata per presentare i giocatori di una squadra di calcio, sfociata anche in episodi di guerriglia – indipendentemente da parte di chi, questi ultimi, sono stati commessi – rientra nel concetto di “manifestazioni sportive”.
Soccorre a tale proposito l’art. 2 bis, d.l. 20 agosto 2001, n. 336, che al comma 1 ha fornito l’interpretazione autentica del concetto di “manifestazioni sportive”, da intendersi come le “competizioni che si svolgono nell'ambito delle attività previste dalle Federazioni sportive e dagli enti e organizzazioni riconosciuti dal Comitato olimpico nazionale italiano (CONI)”. Gli episodi violenti devono essere commessi nel contesto o nell’ambito di manifestazioni/competizioni sportive, ovvero - se avulsi da detto contesto spazio/temporale - essere, comunque, posti in essere in relazione a detti eventi o possedere elementi di omogeneità con le manifestazioni/ competizioni: in questo senso va, quindi, interpretata la locuzione “a causa di” utilizzata dal comma 1 dell’art. 6, l. n. 401 del 1989. Tale nesso di causalità indubbiamente sussiste nel caso di manifestazione organizzata per presentare i giocatori che saranno protagonisti del campionato di calcio. La condotta di cui si è reso protagonista anche l’appellante trovava, dunque, la sua “causa” nelle prossime competizioni alle quali avrebbe partecipato il sodalizio Spall ponendosi, in tal modo, in (stretta) relazione logica di mezzo a fine con le prossime manifestazioni sportive (così come programmate negli imminenti calendari calcistici), mentre - sotto il profilo oggettivo (uso di modelli comportamentali collettivi) e soggettivo (consistenti gruppi di tifosi organizzati) - essa si è rivelata del tutto omogenea agli episodi che la norma introduttiva del Daspo, della cui applicazione qui si controverte, intende prevenire.
Come di recente chiarito anche dalla Corte di cassazione (sez. III, 16 gennaio 2017, n. 1767), l’espressione "in occasione o a causa di manifestazioni sportive" non deve essere inteso nel senso che gli atti di violenza o comunque le restanti condotte che possano giustificare l’adozione dei provvedimenti di cui all'art. 6, l. n. 401 del 1989 debbano essersi verificati durante lo svolgimento della manifestazione sportiva ma nel senso che con essa abbiano un immediato nesso eziologico, ancorché non di contemporaneità. La ratio della disposizione in questione è, infatti, quella di prevenire fenomeni di violenza, tali da mettere a repentaglio l'ordine e la sicurezza pubblica, laddove questi siano connessi non con la pratica sportiva ma con l'insorgenza di quegli incontrollabili stati emotivi e passionali che, tanto più ove ci si trovi di fronte ad una moltitudine di persone, spesso covano e si nutrono della appartenenza a frange di tifoserie organizzate, perlopiù, ma non esclusivamente, operanti nell'ambito del gioco del calcio. Si tratta di fenomeni per i quali fungono da catalizzatore, spesso con improvvise a incontrollabili interazioni, sia l'andamento agonistico più o meno soddisfacente della compagine per la quale si parteggia ovvero le modalità con cui l'apparato amministrativo ed organizzativo di questa intende condurre il rapporto con la propria tifoseria sia l'eventuale confronto, in una logica elementare in cui la appartenenza ad un gruppo comporta l’ostilità verso altri gruppi, immediatamente intesi come possibili assalitori, con una tifoseria avversa. È, pertanto, evidente che un'eventuale limitazione della portata della norma ora in questione, che ne confinasse l'applicazione alla sola durata della manifestazione sportiva, ridurrebbe di molto l’efficacia dissuasiva della medesima, posto che renderebbe inapplicabile la relativa disciplina ogniqualvolta gli eventi, pur determinati da una mal governata passione sportiva e dalla distorsione del ruolo del tifoso, si realizzino in un momento diverso dal verificarsi del fattore che li ha scatenati.
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Sport
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Processo amministrativo - Giudizio di ottemperanza – Commissario ad acta – Nomina – Su richiesta dell’Amministrazione – Esclusione.
L’esatta e completa esecuzione del provvedimento giurisdizionale regiudicato integra dovere primario dell’Amministrazione cui quest’ultima non può sottrarsi, con la conseguenza che l’Amministrazione resistente nel giudizio di ottemperanza non può chiedere al Giudice competente ex artt. 112-114 c.p.a. la nomina del commissario ad acta che provveda in sua vece; peraltro, ove si consideri che, ai sensi della lett. d dell’art. 114 c.p.a. (“ove occorra”) la nomina del commissario ad acta, sebbene prassi consolidata da sempre seguita, integra una semplice facoltà del Giudice (che potrebbe decidere in teoria di provvedere direttamente) l’istanza predetta è inaccoglibile anche in quanto collidente sotto il profilo sistematico con l’art. 34 comma 2 c.p.a. (1).
(1) Ha chiarito il C.g.a. che il commissario ad acta ha il compito di dare attuazione, in sostituzione dell’amministrazione inadempiente, al decisum contenuto in sentenza.
Quindi, la nomina è funzionale a rimediare all’inadempienza dell’amministrazione, che non può scientemente sottrarsi ai propri obblighi, decidendo di non adempiere ed accollando tale compito ad un soggetto che rappresenta la longa manus del giudice, organo del giudizio di ottemperanza.
Il potere sostitutivo implica, infatti, la surroga ex lege dell'amministrazione inadempiente ad opera del commissario ad acta, il quale acquisisce la natura di organo straordinario della stessa amministrazione.
Dunque sarebbe priva di causa la nomina del Commissario in carenza di rituale richiesta da parte del soggetto interessato all’esecuzione della decisione, e tanto meno a seguito richiesta da parte dell’amministrazione che decida di non svolgere i propri compiti, in spregio ai principi di economicità e buon andamento dell'azione amministrativa.
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Processo amministrativo
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Militari, forze armate e di polizia – Missioni di pace – Missioni di pace Onu - rivalutazione periodi contributivi ai fini della buonuscita e pensionistici – Esclusione.
I militari impiegati in missioni fuori area in teatri operativi in missioni di pace Onu non hanno diritto alla rivalutazione dei relativi periodi contributivi prevista per i combattenti, tanto ai fini della buonuscita che ai fini pensionistici (1).
(1) Cons. Stato, sez. IV, n. 5172 del 2014
Come chiarito dal giudice delle leggi (n. 240 del 2016) la previsione dettata dalla l. 11 dicembre 1962, n. 1746 trova origine in un preciso fatto storico (uccisione di numerosi militari italiani impegnati in Kindu, ex Congo Belga) e in un contesto storico-normativo in cui la partecipazione delle nostre forze armate a missioni dell’Onu in zone di conflitto risultava sfornita di adeguata disciplina specifica.
Negli anni successivi la proliferazione di questa tipologia di missioni ha indotto l’adozione di norme specifiche (d.l. n. 1 del 2000, convertito in l. n. 44 del 2000; d.l. n. 451 del 2001, convertito in l. n. 15 del 2002; d.l. n. 3 del 2005, convertito in l. n. 37 del 2005; d.l. n. 273 del 2005, convertito in l. n. 51 del 2006) ivi inclusa una disciplina di carattere generale dettata dal d.lgs. n. 145 del 2016. Le specifiche disposizioni regolanti le singole missioni contengono, tra l’altro, specifiche previsioni di favore in tema di trattamento economico, previdenziale, indennitario e assicurativo.
In definitiva, la creazione di uno specifico quadro normativo per ogni singola missione, corredato di altrettanto specifici benefici economici di varia natura, ha fatto cadere l’esigenza di supplire ad un vero e proprio vuoto normativo che era stata colmata con la l. n. 1746 del 1962; nell’ambito di ogni specifica disciplina delle missioni Onu il legislatore ha poi individuato se e quali provvidenze già previste per le campagne di guerra estendere ai militari ivi impegnati.
Per contro, e da un punto di vista sistematico, nella legislazione risalente il concetto di “combattente” è sempre stato dal legislatore riferito ai partecipanti a vario titolo al secondo conflitto mondiale. Addirittura il giudice delle leggi ha osservato che, come emerge nei lavori preparatori del codice dell’ordinamento militare, con riferimento all’art. 1858 cod. ord. mil. che richiama l’art. 18, d.P.R. n. 1092 del 1973, invocato dai ricorrenti, venne esplicitato che, pur trattandosi di norma non più attivata in favore dei militari appartenenti a contingenti inviati in missione all’estero, restava opportuno il suo mantenimento in ragione dei possibili rischi connessi al verificarsi di una crisi internazionale. Infine la l. n. 108 del 2009, nel prevedere esplicitamente l’estensione ai militari impegnati in missioni specifiche previsioni dettate per il tempo di guerra, non ha incluso il menzionato art. 18, d.P.R. n. 1092 del 1973.
In definitiva, nell’articolato quadro delle varie campagne internazionali, il legislatore ha di volta in volta previsto benefici specifici e/o selezionato quali benefici già previsti per i “combattenti” della guerra mondiale estendere ai militari ivi impegnati. Né l’equiparazione delle missioni Onu a missioni di guerra a determinati fini e nell’ambito del diritto internazionale vincola il legislatore ad estendere in tutto e per tutto i benefici previdenziali e retributivi previsti per il secondo contesto al primo; sul punto il giudice delle leggi ha esplicitamente osservato come, a tacer d’altro, in un vero scenario di guerra la normativa consentirebbe il richiamo alle armi e l’arruolamento di non professionisti cui, a legislazione vigente, spetterebbe solo il compenso giornaliero simbolico del cosiddetto “soldo”, oltre al beneficio previdenziale di cui qui si chiede l’estensione, e non certo l’articolato compendio di benefici economici di vario genere previsti per i professionisti impegnati nella campagne Onu.
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Militari, forze armate e di polizia
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Contratti della Pubblica amministrazione - Soccorso istruttorio – Offerta - Sottoscrizione - Mancanza di una delle sottoscrizioni dell’offerta – Sussiste.
Contratti della Pubblica amministrazione – Aggiudicazione – Silenzio della stazione appaltante - Conseguenza – Individuazione.
Ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, il difetto parziale di sottoscrizione deve considerarsi suscettibile di sanatoria mediante soccorso istruttorio e, come tale, non costituisce causa di immediata esclusione del concorrente interessato; la vicenda, infatti, non integra alcune delle ipotesi in cui il soccorso istruttorio è vietato dalla legge e, in particolare, non quella dei “vizi dell’offerta”, essendo la stessa compiutamente formulata e sottoscritta da uno degli amministratori della società, il che è sufficiente a comprovarne la riconducibilità a quest’ultima.
Ai sensi del comma 1 dell’art. 33, d.lgs. n. 50 del 2016, l’inutile decorso del termine di trenta giorni refluisce sulla formazione del silenzio assenso sull’approvazione della proposta di aggiudicazione, ma non sul perfezionamento dell’aggiudicazione, per la quale occorre una manifestazione di volontà espressa della pubblica amministrazione, mediante un provvedimento espresso.
(2) Ha chiarito il Tar che con il principio di invarianza della soglia di anomalia, di cui all’art. 95, comma 15, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, la legge intende evitare che, in un tal caso, la stazione appaltante debba retrocedere la procedura fino alla determinazione della soglia di anomalia delle offerte, cioè della soglia minima di utile al di sotto della quale l’offerta si presume senz’altro anomala
La cristallizzazione della soglia consegue alla sola adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, prima restando integro il potere della stazione appaltante di rivederla, pur dopo la fase di ammissione degli operatori economici. Lo sbarramento dell’art. 95, comma 15, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50. non si può applicare nel caso in cui il concorrente abbia tempestivamente impugnato l’atto di ammissione, nelle forme e nei termini di cui all’art. 120, comma 2 bis, c.p.a..
Un diverso orientamento, che non considerasse tale potere di intervento in autotutela a procedura ancora aperta, da parte dell’amministrazione, e di esclusione dei concorrenti in qualunque momento della gara (art. 80, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016), creerebbe un irrigidimento non conforme ai principî costituzionali ed europei, prima ancora che alle disposizioni del codice, determinando una cristallizzazione della soglia insensibile a qualsivoglia illegittimità riscontrata in corso di gara persino dalla stessa stazione appaltante.
I detti principi vanno mantenuti adesso che la nuova normativa c.d. “sblocca cantieri”, ha abrogato i commi 2 bis e 6 bis dell’art. 120 c.p.a., posto che nel caso di specie è intervenuto comunque un contenzioso procedimentale proprio in merito alla legittimità o meno di un’esclusione incidente sulla determinazione della soglia di anomalia.
In altri termini, la cristallizzazione non è intervenuta proprio per effetto di tale contenzioso procedimentale, anteriore alla definitiva aggiudicazione.
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Paesaggio - Tutela – Puglia – Deroga delle prescrizioni dei piani paesaggistici e del P.P.T.R. – Art. 6, comma 2, lett. c-bis, l. reg. Puglia n. 14 del 2009 - Violazione art. 117, comma secondo, lett. s), Cost.,- Rilevanza e non manifesta infondatezza
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, lett. c-bis, l. reg. Puglia n. 14 del 2009, in relazione all’art. 117, comma secondo, lett. s), Cost., nella parte in cui rimette(va) ai Comuni – prima dell’espressa abrogazione disposta dall’art. 1, l. reg. Puglia n. 3 del 2021 - mediante motivata deliberazione di consiglio comunale, “l’individuazione di ambiti territoriali nonché di immobili ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico ai sensi del Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), approvato con Deliberazione di G.R. n. 176 del 2015, nei quali consentire, secondo gli indirizzi e le direttive del PPTR, gli interventi di cui agli artt. 3 e 4 della presente legge, purché gli stessi siano realizzati, oltre che alle condizioni previste dalla presente legge, utilizzando per le finiture, materiali e tipi architettonici legati alle caratteristiche storico-culturali e paesaggistiche dei luoghi”, in deroga al divieto posto dal precedente comma 1, lett. f, del medesimo art. 6 (1).
(1) Ha affermato la Sezione che l’art. 145, d.lgs. n. 42 del 2004 reca la disciplina del “Coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione”. I principi cardine ai quali detto coordinamento si ispira sono: a) il riconoscimento in capo all’organo ministeriale del potere di individuare le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio; b) il rilievo nazionale e accentrato dell’esercizio del potere in questione, con precipue finalità di indirizzo della pianificazione e di direzione ai fini del conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e agli Enti locali; c) il principio del coordinamento dei piani paesaggistici rispetto agli altri strumenti di pianificazione territoriale e di settore, nonché rispetto a piani, programmi e progetti nazionali e regionali di sviluppo economico; d) l’espressa inderogabilità delle previsioni contenute nei piani paesaggistici di cui agli artt. 143 e 156 del medesimo Codice da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico; l’espressa cogenza delle previsioni medesime rispetto agli strumenti urbanistici degli Enti territoriali minori (comuni, città metropolitane e province); l’espressa prevalenza delle stesse sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici e sulle normative di settore; e) l’obbligo di conformazione e di adeguamento degli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale degli Enti locali minori alle previsioni dei piani paesaggistici, secondo le procedure previste dalla legge regionale
Sulla base di queste disposizioni e sotto lo specifico profilo della non manifesta infondatezza della questione, è dunque possibile concludere che: a) secondo la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, la tutela del paesaggio costituisce competenza riservata alla potestà legislativa esclusiva statale e limite inderogabile alla disciplina che le Regioni possono dettare nelle materie di loro competenza; b) il Codice definisce - con efficacia vincolante per tutti gli enti territoriali (sia le Regioni, sia gli Enti locali minori) e anche per gli enti pubblici operanti secondo specifiche normative di settore - i rapporti tra le prescrizioni del piano paesaggistico e le prescrizioni di carattere urbanistico ed edilizio, secondo un modello di prevalenza delle prime, non alterabile nemmeno ad opera della legislazione regionale; c) la summenzionata previsione della legge regionale n. 14 del 2009, nella parte in cui prevedeva - prima della sua espressa abrogazione e ratione temporis ancora applicabile all’istanza edilizia all’esame - la derogabilità delle prescrizioni dei piani paesaggistici e in particolare di quelle contenute nel P.P.T.R. della Puglia, appare porsi in contrasto con l’art. 145, comma 3, del Codice, quale norma interposta in riferimento all’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., suscitando il relativo dubbio di legittimità costituzionale. 24. A questo proposito, la Sezione segnala di avere sollevato (con ordinanza 12 gennaio 2021, n. 392, coeva alle analoghe ordinanze nn. 389, 390 e 391 emesse nella medesima data) sostanzialmente analoga questione di legittimità costituzionale in riferimento, questa volta, all’art. 12-bis, commi 2, 3 e 4, della legge della Regione Campania n. 19 del 28 dicembre 2009, in relazione all’art. 117, comma secondo, lett. s), della Costituzione, il quale, introducendo, con efficacia vincolante, disposizioni atte a disciplinare i rapporti tra piano paesaggistico e prescrizioni di carattere urbanistico ed edilizio, parrebbe incidere anch’esso su materie di competenza statale. 25. Si evidenzia, infine, che la necessità che le Regioni rispettino in modo rigoroso il riparto di competenze delineato dalla Costituzione in materia di protezione dell’ambientale e del paesaggio, è stata ribadita, di recente, dalla sentenza della Corte costituzionale n. 74 del 21 aprile 2021, che ha dichiarato (nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 26 e 36 della legge della Regione Puglia 30 novembre 2019, n. 52 - Assestamento e variazione al bilancio di previsione per l'esercizio finanziario 2019 e pluriennale 2019-2021, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri) la incostituzionalità delle summenzionate norme perché violative – sebbene in fattispecie diversa rispetto a quella oggetto dell’odierno giudizio - della materia della protezione dell’ambiente, sotto il profilo della incidenza sui presupposti del rilascio della autorizzazione paesaggistica. Anche la presente controversia si caratterizza per il fatto che, in buona sostanza, la norma regionale sospettata di incostituzionalità consente al comune di incidere sui presupposti del rilascio della autorizzazione paesaggistica in deroga alle previsioni di tutela stabilite dal Codice e dal piano paesaggistico
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Paesaggio
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Giurisdizione – Leggi e decreti – Legge-provvedimento – Impugnazione dinanzi al giudice amministrativo – Difetto assoluto di giurisdizione.
È inammissibile, per difetto assoluto di giurisdizione, il ricorso con il quale si impugni in via diretta dinanzi al giudice amministrativo un atto avente forza di legge, chiedendone l’annullamento previa rimessione alla Corte costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale, sul presupposto che nella specie si tratti di una legge-provvedimento (1).
(1) Ha chiarito la Sezione, con riferimento alle “leggi-provvedimento”, che se è vero che la Corte, al fine di assicurare piena tutela alle situazioni soggettive degli amministrati che si assumano lese da una norma di legge a contenuto sostanzialmente provvedimentale, assume un approccio ampio sulla rilevanza delle questioni di costituzionalità (e, quindi, come sottolineato anche dal Comune odierno appellante, anche sui rapporti tra giudizio di costituzionalità e giudizio a quo), ciò nondimeno deve escludersi l’impugnabilità diretta della legge-provvedimento dinanzi al giudice amministrativo, dovendo il giudizio di costituzionalità conservare il proprio carattere incidentale, e quindi muovere pur sempre dall’impugnazione di un atto amministrativo (sulla cui qualificazione in termini di lesività e impugnabilità, a sua volta la giurisprudenza amministrativa adotta un approccio peculiare rispetto ai comuni principi proprio in quanto trattasi di atti direttamente applicativi di una legge- provvedimento, v. Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2008, n. 4933).
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Giurisdizione
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Commercio – Catering – Veneto - Presso somministratore di alimenti e bevande – Possibilità.
Nella Regione Veneto, nel silenzio della l. reg. n. 29 del 2007, recante la disciplina dell'esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande, il committente può scegliere liberamente il luogo in cui fruire del servizio di catering, ivi compresi i locali nella disponibilità di chi fornisce il servizio (1).
(1) La Sezione è chiamata a valutare se il tratto distintivo del catering rispetto alla somministrazione ordinaria di alimenti e bevande (ristorazione) sia in alternativa: a) l’effettuazione del servizio in luogo diverso dai locali di produzione degli alimenti o da locali a essi attigui, unitamente alla individuazione di una collettività predefinita ex ante quale beneficiaria del servizio; b) la sola individuazione di una collettività o gruppo predefiniti ex ante, con svolgimento del servizio in luogo non aperto al pubblico in quanto riservato ai soli soggetti individuati dal committente. Nel secondo caso sarebbe consentita l’attività di catering anche qualora il committente indichi quale proprio domicilio per lo svolgimento delle attività di suo interesse un locale nella disponibilità del soggetto che fornisce il servizio di catering. La Sezione ritiene utile precisare che la delimitazione è tutt’altro che agevole o netta, nella ricerca di un punto di equilibrio che, secondo la legge, componga le esigenze sanitarie e di sicurezza con quelle della libera iniziativa economica privata.
Si consideri poi che il divieto della fornitura del catering presso locali nella disponibilità del soggetto fornitore del servizio, ove prescelto dal committente, non è previsto dalla legge regionale del Veneto né risulta ragionevole o imposto da un’inferenza logica conseguente alle espresse disposizioni legislative. Neppure, in fatto, l’utilizzazione di un diverso locale scelto dal committente offre necessariamente maggiori garanzie quanto alla tutela della salute e alla qualità dei servizi. In definitiva non pare supportato da solide ragioni, testuali o logiche, la scelta di consentire al committente di scegliere liberamente il luogo in cui fruire del servizio di catering, con la sola eccezione dei locali nella disponibilità di chi fornisce il servizio.
L’elemento distintivo rispetto alla somministrazione di alimenti e bevande di cui all’art. 3, comma 1, lettera a), l. reg. Veneto n. 29 del 2007 è uno: l’essere tale servizio rivolto esclusivamente al consumatore stesso, ai familiari e alle persone da lui invitate, secondo la specifica e distinta definizione contenuta nel medesimo art. 3, comma 1, lettera e). Si aggiunga che in tal modo è privilegiata un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 41 Cost. e del principio della libertà dell’iniziativa economica privata. La Sezione è peraltro consapevole del fatto che, al fine di evitare che abbiano a verificarsi fenomeni elusivi tali da presentare come catering attività in realtà poste in essere con i caratteri sostanziali propri della somministrazione di alimenti e bevande tout court, ci si debba attenere scrupolosamente al precetto contenuto nella stessa legge regionale, laddove, all’art. 3, comma 1, lettera h), individua con adeguata precisione il domicilio del consumatore. Esso consiste nella privata dimora del consumatore/committente, nonché nel luogo in cui egli/ella si trova per motivi di lavoro o di studio o per lo svolgimento di cerimonie, convegni e attività similari. L’attività di catering deve quindi essere riconducibile a tali categorie. La corrispondenza tra la situazione di fatto e le astratte fattispecie legislative non potrà di conseguenza che essere oggetto di puntuale scrutinio.
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Commercio
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Energia elettrica – Benefici – Incentivi concessi per legge – Per conversione fotovoltaica – Riduzione o ritardo – Art. 26, commi 2 e 3, d.l. n. 91 del 2014 – Rimessione alla Corte di Giustizia Ue
E’ rimesso alla Corte di Giustizia Ue la questione se il diritto dell’Unione europea osti all’applicazione di una disposizione nazionale, come quella di cui all’art. 26, commi 2 e 3, d.l. n. 91 del 2014, come convertito dalla l. n. 116 del 2014, che riduce ovvero ritarda in modo significativo la corresponsione degli incentivi già concessi per legge e definiti in base ad apposite convenzioni sottoscritte dai produttori di energia elettrica da conversione fotovoltaica con il Gestore dei servizi energetici s.p.a., società pubblica a tal funzione preposta; in particolare, se tale disposizione nazionale sia compatibile con i principi generali del diritto dell’Unione europea di legittimo affidamento, di certezza del diritto, di leale collaborazione ed effetto utile; con gli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; con la direttiva n. 2009/28/CE e con la disciplina dei regimi di sostegno ivi prevista; con l’art. 216, par. 2, TfUE, in particolare in rapporto al Trattato sulla Carta europea dell’energia (1).
(1) Analoghe questioni sono state rimesse dalla sez. III ter del Tar Lazio con ordd. 7 febbraio 2020, nn. 1662, 1664 e 1665. LINK
Ha chiarito la Sezione che l’art. 26, d.l. n. 91 del 2014 rischia di porsi in contrasto con alcuni principi generali dell’ordinamento dell’Unione europea, che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, costituiscono le fondamenta del sistema giuridico dell’Unione.
In tale prospettiva, è possibile sospettare un contrasto dell’art. 26, d.l. n. 91 del 2014 con i principi generali del legittimo affidamento e della certezza del diritto, in quanto l’intervento normativo nazionale ha modificato unilateralmente le condizioni giuridiche sulle cui basi le imprese ricorrenti avevano impostato la propria attività economica (per l’evidenziazione del principio, tra le tante, Corte di giustizia sent. 21 febbraio 2008, Netto Supermarkt GmbH & Co. OHG, causa C-271/06; sent. 10 settembre 2009, Plantanol GmbH & Co. KG, causa C-201/08).
La modifica legislativa non interviene solo sulla disciplina generale applicabile all’impresa (come nel caso Plantanol riguardante la variazione di uno specifico regime fiscale) ma incide, variandole in senso sfavorevole e prima del termine di scadenza, sulle relative convenzioni individualmente stipulate con la società pubblica Gse per la determinazione degli incentivi.
Come è noto il principio dell’affidamento è stato declinato, nel campo dei rapporti economici, in relazione al criterio dell’operatore economico “prudente e accorto” ovvero quell’operatore che sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi (punto 53 della menzionata sent. C. giust. 10 settembre 2009, in causa C-201/08, Plantanol); nella fattispecie questo Tribunale si chiede se la prevedibilità della modifica peggiorativa possa conseguire a una diversa valutazione degli interessi gioco da parte del legislatore (volta nelle parole stesse della Corte costituzionale a garantire “la maggiore sostenibilità dei costi correlativi a carico degli utenti finali dell’energia elettrica”), in assenza di circostanze eccezionali che la giustifichino e a fronte di convenzioni stipulate tra la parte pubblica e l’operatore che hanno prestabilito la misura dell’incentivo per un periodo ventennale.
Per le stesse ragioni la disposizione nazionale si porrebbe in contrasto anche con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, segnatamente, con gli articoli 16 (libertà d’impresa) e 17 (diritto di proprietà) in quanto altera le misure di sostegno economico già accordate, determinando un’ingerenza nel diritto a impostare e condurre la propria attività economica sulla base di posizioni contrattuali predeterminate e riducendo il diritto a percepire le misure di sostegno economico già accordate.
L’art. 26, d.l. n. 91 del 2014 presenta possibili profili di incompatibilità anche con il diritto dell’Unione europea derivato, in particolare con le direttive adottate al fine di armonizzare le normative nazionali relative alla produzione di energia da fonti rinnovabili, nell’ottica del progressivo sviluppo di una politica energetica comune e maggiormente integrata.
La direttiva 2009/28/CE, nel porre la disciplina per la promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, impone agli Stati membri l’obbligo di adottare misure efficaci al fine del raggiungimento della propria quota di energia da fonti rinnovabili (art. 3, par. 2) e, tra dette misure, indica in particolare i regimi di sostegno (art. 3, par. 3, lett. a).
Nell’evidenziare il ruolo dei regimi nazionali di sostegno alla produzione di energia rinnovabile, la direttiva in esame ne sottolinea anche i necessari caratteri di stabilità e certezza giuridica.
Essa riconosce infatti la necessità di “creare la stabilità a lungo termine di cui le imprese hanno bisogno per effettuare investimenti razionali e sostenibili nel settore delle energie rinnovabili” (cons. n. 8), affermando inoltre che “la principale finalità di obiettivi nazionali obbligatori è creare certezza per gli investitori” (cons. n. 14) e che “uno strumento importante per raggiungere l’obiettivo fissato dalla presente direttiva consiste nel garantire il corretto funzionamento dei regimi di sostegno nazionali […] al fine di mantenere la fiducia degli investitori” (cons. n. 25).
La disposizione nazionale in questione – il citato art. 26 d.l. n. 91/2014 – incidendo in senso sensibilmente peggiorativo sui regimi di sostegno in atto, che dovrebbero essere caratterizzati da stabilità e costanza, non solo colpisce economicamente gli investitori, ma rischia di recare pregiudizio agli obiettivi di politica energetica della direttiva 2009/28/CE, frustrandone l’effetto utile e compromettendo il risultato prescritto dalla direttiva stessa.
Principi analoghi, in merito alla certezza dell’investimento, vengono richiamati nel Trattato sulla Carta europea dell’energia, sottoscritto il 17 dicembre 1994 dalla Comunità europea (da considerare quindi quale “parte integrante dell’ordinamento comunitario”; v. Corte di giustizia sent. 30 aprile 1974, Haegeman, causa C-181/73).
Infatti, ai sensi dell’art. 10 della Carta europea dell’energia, ogni parte contraente “incoraggia e crea condizioni stabili, eque, favorevoli e trasparenti per gli investitori […] gli investimenti godono inoltre di una piena tutela e sicurezza e nessuna Parte contraente può in alcun modo pregiudicare con misure ingiustificate e discriminatorie la gestione, il mantenimento, l’impiego, il godimento o l’alienazione degli stessi” (art. 10, par. 1).
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Energia elettrica
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Contatti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Giustificazioni della non anomalia – Rese in sede giudiziaria – Tardività.
Sono tardive le giustificazioni della non anomalia dell’offerta rese dal concorrente soltanto in sede giudiziaria (1).
(1) La Sezione dà atto della possibilità, riconosciuta dalla giurisprudenza, di giustificare la non anomali dell’offerta e richiama principi pacificazione riconoscoiuti dal giudice di appello.
Ha ricordato che la disposizione dell’art. 95, comma 10, del Codice dei contratti pubblici, laddove impone di indicare “i propri costi della manodopera” nell’offerta economica, fissa un obbligo dichiarativo a pena di esclusione che riguarda il singolo “operatore” ed ha ad oggetto i “propri” costi della manodopera, ossia i costi da sostenersi effettivamente da quest’ultimo per garantire l’esecuzione dell’appalto. Le uniche deroghe a tale obbligo sono quelle previste dalla stessa disposizione (forniture senza posa in opera, servizi di natura intellettuale, affidamenti ai sensi dell’art. 36, comma 2, lett. a), nessuna delle quali ricorrente nel caso di specie.
La portata escludente dell’inosservanza dell’obbligo in parola da parte del singolo operatore economico fissato dalla richiamata disposizione nazionale è stata ritenuta conforme ai principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza - quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE - dalla sentenza della Corte di Giustizia, sez. IX, 2 maggio 2019, in causa C-309/18.
Ha affermato il Giudice eurounitario che i predetti principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale secondo la quale la mancata indicazione separata dei costi della manodopera, in un'offerta economica presentata nell'ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta l'esclusione della medesima offerta senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell'ipotesi in cui l'obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione della gara d'appalto, sempreché tale condizione e tale possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta documentazione.
Nei suoi principali snodi valutativi detta sentenza ha evidenziato che: a) l'obbligo di indicare separatamente gli oneri per la sicurezza aziendale in sede di offerta discende chiaramente dal combinato disposto dell'art. 95, comma 10, del Codice dei contratti pubblici e dell'art. 83, comma 9, del medesimo, il quale non consente la regolarizzazione di carenze concernenti l'offerta tecnica o economica; b) pertanto, qualsiasi operatore economico ragionevolmente informato e normalmente diligente si presume a conoscenza dell'obbligo in questione; c) la regola opera anche nell'ipotesi in cui l'obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione della gara d'appalto, sempreché tale condizione e tale possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta documentazione; d) nondimeno, nei casi in cui il bando di gara contenga bensì un espresso rinvio alle norme del Codice dei contratti pubblici, ma si accompagni alla predisposizione di modelli dichiarativi ad uso obbligatorio concretamente privi di spazio fisico per l'indicazione separata dei costi della manodopera, debba demandarsi al giudice del merito la verifica della "materiale impossibilità" di evidenziare, nel rispetto della prescrizione normativa, i costi in questione, legittimandosi - in presenza di circostanze idonee a "generare confusione" in capo agli offerenti - l'eventuale attivazione del soccorso istruttorio.
In applicazione dei suindicati postulati anche sul versante interno non residuano dubbi sulla piena predicabilità dell’automatismo espulsivo correlato al mancato scorporo nell'offerta economica dei costi inerenti alla manodopera e ciò a prescindere da una espressa previsione, in tal senso, della lex specialis di gara (Cons. Stato, A.P., 2 aprile 2020, nn. 7 e 8; id., sez. V, 8 gennaio 2021, n. 283; id. 10 febbraio 2020, n. 1008; id. 24 gennaio 2020, n. 604).
La ratio dell’obbligo dell’indicazione separata dei costi della manodopera è esplicitata nell’ultimo periodo dello stesso art. 95, comma 10, secondo il quale “le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell’aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto dall’art. 97, comma 5, lett. d)”, vale a dire il rispetto dei minimi salariali retributivi del personale indicati nelle tabelle di cui all’art. 23, comma 16.
Si tratta, all’evidenza, della finalità di tutela delle condizioni dei lavoratori cui si accompagna, a determinate condizioni, la finalità di consentire alla stazione appaltante la verifica della serietà dell’offerta economica, in particolare, in presenza di offerte anormalmente basse.
La gravità della conseguenza giuridica dell’espulsione dalla gara segnala, sul piano sostanziale, la rilevanza dei beni giuridici tutelati attraverso l’imposizione della prescrizione normativa, che intende garantire la tutela del lavoro sia sotto il profilo della applicazione dei contratti collettivi (e, quindi, della tutela della retribuzione dei lavoratori secondo l’art. 36 Cost.), sia sotto il profilo della salute e della sicurezza dei lavoratori (art. 32 Cost., ma anche secondo e terzo comma dell'art. 36 Cost., in cui si fissano la durata massima della giornata lavorativa ed il diritto al riposo settimanale nonché alle ferie annuali, che individuano altrettante condizioni necessarie e rilevanti anche per la tutela della salute dei lavoratori).
L’indicazione del costo della manodopera (così come degli oneri per la sicurezza aziendale) svolge, in realtà, una duplice funzione: non solo ai fini dell’eventuale giudizio di anomalia (che ha come unico scopo la verifica della congruità dell’importo indicato dall’offerente come costo del personale, da effettuare ai sensi dell’art. 97, comma 5, lett. d), del Codice dei contratti, e con i limiti posti dal comma 6 della medesima disposizione), ma, prima ancora, in sede di predisposizione dell’offerta economica per formulare un’offerta consapevole e completa sotto tutti i profili sopra evidenziati (Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 2020, n. 4140).
Tali principi, ormai granitici nella giurisprudenza del giudice amministrativo, portano ad escludere che l’onere di indicazione degli oneri della manodopera possa ritenersi assolto con l’indicazione del costo standardizzato già riportato nelle tabelle ministeriali, atteso che, come correttamente affermato da Formula nei propri scritti difensivi, si finirebbe per implicitamente accettare che nessuna impresa adempia più realmente a tale obbligo, essendo più agevole riservare il calcolo ad una fase successiva all’aggiudicazione, anche al fine di calibrarne l’ammontare ad eventuali esigenze di copertura di voci contestate.
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Edilizia – Oneri di costruzione – Obbligo – Esenzione ex art. 17, comma 3, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001 – Presupposto - Individuazione.
Sindacato - Rappresentatività - Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative – Natura – Individuazione.
Edilizia – Oneri di costruzione – Obbligo – Esenzione ex art. 17, comma 3, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001 – sede di associazione sindacale – Esclusione.
L’art. 17, comma 3, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, in forza del quale il contributo di costruzione non è dovuto «per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti», è una disposizione di stretta interpretazione, poiché introduce un’ipotesi derogatoria alla previsione generale di cui all’art. 16, comma 1, del medesimo d.P.R., che assoggetta a contributo tutte le opere che comportino trasformazione del territorio (1).
Le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sono associazioni private non riconosciute come persone giuridiche, che rappresentano e tutelano gli interessi delle categorie di lavoratori ad esse iscritti, senza tuttavia acquisire uno status e una qualifica pubblicistici, che presupporrebbero, quanto meno, l’attuazione, mai avvenuta, dell’art. 39, commi 2, 3 e 4, Cost. (2).
La sede di un’associazione sindacale non può essere qualificata come un’opera pubblica o d’interesse generale, ai fini dell’applicazione dell’esonero dal contributo di costruzione ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. c), primo alinea, d.P.R. n. 380 del 2001, ma soltanto come un bene strumentale, mediante il quale l’associazione persegue i propri compiti statutari (3).
(1) Ha chiarito la Sezione che una disposizione di stretta interpretazione, poiché introduce un’ipotesi derogatoria alla previsione generale di cui all’art. 16, comma 1, del medesimo, che assoggetta a contributo tutte le opere che comportino trasformazione del territorio.
Ciò posto, va evidenziato che il requisito soggettivo consiste nell’esecuzione delle opere da parte di enti istituzionalmente competenti, ovverosia “da parte di soggetti ai quali la realizzazione dell’opera sia demandata in via istituzionale” (Cons. St., sez. V, 12 luglio 2005, n. 3774), cosicché, per conseguire il beneficio di cui all’art. 17, comma 3, lett. c), d.P.R. n. 380/2001, l’opera deve essere necessariamente realizzata “da un ente pubblico, non competendo la stessa ad opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la rilevanza sociale dell’attività dagli stessi esercitata nella o con l’opera edilizia alla quale la concessione si riferisce” (Cons. St., sez. V, 15 dicembre 2005, n. 7140).
(2) Ad avviso della Sezione si applica l’orientamento secondo cui “ai fini dell’esenzione dal contributo di costruzione ex art. 9, lett. f), l. 28 gennaio 1977, n. 10, occorre che l’opera da costruire sia pubblica o d’interesse pubblico e venga realizzata o da un ente pubblico, o da altro soggetto per conto di un ente pubblico, come nel caso di concessione di opera pubblica o di altre analoghe figure organizzatorie. Pertanto, rettamente tale beneficio non viene concesso al risanamento conservativo di un edificio di proprietà privata condotto dall’associazione provinciale degli industriali, perché in detto intervento, pur reputato di pubblico interesse a causa dell’attività sindacale svolta da quella associazione, non si ravvisano i criteri oggettivo (opera pubblica, od opera destinata a soddisfare bisogni della collettività) e soggettivo (opera realizzata da una p.a. o da un concessionario, o, più in generale, da un soggetto che curi istituzionalmente la realizzazione di opere d’interesse generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate), su cui si fonda l’esenzione in argomento” (Cons. St., sez. V, 7 settembre 1995, n. 1280).
(3) Ad avviso della Sezione se è pur vero che all’interno di tale edificio possono svolgersi attività perseguenti scopi di utilità collettiva, è altrettanto vero che dette attività vengono compiute in virtù della destinazione concretamente impressa sull’edificio, o su una parte di esso, dal suo proprietario, e non per le caratteristiche intrinseche dell’opera, che non è geneticamente e strutturalmente destinata direttamente alla fruizione collettiva.
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Edilizia
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Covid-19 – Contratti della Pubblica amministrazione - Fornitura di dispositivi di protezione individuale e apparecchiature elettromedicali connessi all’emergenza Covid-19 – Aggiudicazione – Comparazione di interessi – Non va sospesa.
Non deve essere sospesa l’aggiudicazione della procedura negoziata d’urgenza per l’affidamento di accordi quadro per la fornitura di dispositivi di protezione individuale e apparecchiature elettromedicali, dispositivi e servizi connessi, destinati all’emergenza sanitaria Covid-19 per mancanza del presupposto dell’estrema gravità ed urgenza richiesti dall’art. 56, comma 1, c.p.a. ed a fronte, per converso, della imprescindibile urgenza dello Stato a definire la fornitura e non la posizione della parte istante le cui pretese attuali hanno al momento una valenza prettamente economica.
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Covid-19
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Covid-19 – Sanità – Case di cura – Attività di assistenza sanitaria che non rivestono carattere di urgenza e di indifferibilità – Ordinanza regionale che dispone la sospensione temporanea – Non va sospesa.
Non va accolta l’istanza, proposta da una casa di cura, di sospensione cautelare monocratica, ai sensi dell’art. 56 c.p.a., dell’ordinanza del presidente della Giunta regionale con cui, in relazione al d.P.C.M. 26 aprile 2020, si è disposto che “fino al 17 maggio, sono sospese le attività di assistenza sanitaria che non rivestono carattere di urgenza e di indifferibilità”, non essendo ravvisabile il requisito del fumus, in considerazione della discrezionalità della scelta della Regione, alla luce delle indicazioni fornite dalla Asrem (1).
(1) Il decreto ha aggiunto che il danno paventato è prevalentemente di natura economica, non rilevando le ulteriori considerazioni addotte dalla ricorrente a tutela della salute dei cittadini molisani e che, in relazione alla dovuta comparazione degli interessi in gioco nella fase cautelare, le misure adottate dal Presidente della Giunta appaiono ancor più opportune alla luce dell’incremento di contagiati da coronavirus registrato nel Molise.
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Covid-19
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Contratti della Pubblica amministrazione - Gara telematica - Domanda – Omessa trasmissione – Per fatto imputabile al concorrente – Riammissione in termini per presentare la domanda – Esclusione.
E’ legittimo il rigetto dell’istanza di riammissione ad una gara telematica del concorrente che non è riuscito a trasmettere la domanda nel caso in cui l’omesso invio e la conseguente mancata ricezione della domanda non appaiono imputabili a malfunzionamenti del sistema, ma al solo operatore partecipante (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che, per quanto riguarda le gare svolte con modalità telematica e gli eventuali problemi legati all’invio delle domande di partecipazione, la giurisprudenza amministrativa è ormai giunta alla conclusione che «"..non può essere escluso dalla gara un concorrente che abbia curato il caricamento della documentazione di gara sulla piattaforma telematica entro l'orario fissato per tale operazione, ma non è riuscito a finalizzare l'invio a causa di un malfunzionamento del sistema, imputabile al gestore" (Cons. Stato, sez. V, n. 7922 del 2019 e id., sez. III, n. 86 del 2020; n. 4811 del 2020)» (Cons. Stato, sez. III, n. 7352 del 2020).
Sulla stessa questione si vedano altresì:
Cons. Stato, sez. III, n. 3329 del 2014, per cui in capo alle imprese è configurabile «una peculiare diligenza nella trasmissione degli atti di gara, compensata dalla possibilità di uso diretto della loro postazione informatica», sicché appare necessaria una «idonea diligenza nell’uso di un meccanismo rischioso, nel funzionamento del quale ogni soggetto coinvolto svolge attività e compiti distinti»;
Tar Milano, sez. IV, n. 1865 del 2016, per la quale: «In tema di gare svolte con modalità telematiche – con conseguente trasmissione dell’offerta esclusivamente in via elettronica – la giurisprudenza (…) è giunta alla conclusione che la sempre maggiore diffusione delle gare svolte con modalità informatiche, pone in capo agli operatori una “peculiare diligenza nella trasmissione degli atti di gara” (così testualmente Cons. Stato, sez. III, 2 luglio 2014, n. 3329), con conseguente impossibilità di addossare alla stazione appaltante ogni tipo di anomalia nel meccanismo di invio e ricezione, salva la prova del malfunzionamento del sistema “pubblico” per la trasmissione delle offerte (nel caso di specie il sistema regionale Sintel), con la specificazione che spetta al concorrente offrire un principio di prova del suddetto malfunzionamento»; Tar Napoli, sez. VIII, n. 3882 del 2020, secondo cui: «E’ fuor di dubbio che la gestione telematica della gara offre il vantaggio di una maggiore sicurezza nella conservazione dell'integrità delle offerte in quanto permette automaticamente l'apertura delle buste in esito alla conclusione della fase precedente e garantisce l'immodificabilità delle stesse, nonché la tracciabilità di ogni operazione compiuta; inoltre nessuno degli addetti alla gestione della gara può accedere ai documenti dei partecipanti, fino alla data e all'ora di seduta della gara, specificata in fase di creazione della procedura, dal momento che le stesse caratteristiche della gara telematica escludono in radice ed oggettivamente la possibilità di modifica delle offerte (Cons. Stato, sez. III, 25 novembre 2016, n. 4990)».
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Edilizia – Sanatoria - Piano di assetto idrogeologico – Previsione della limitazione dell’efficacia ai soli nuovi interventi costruttivi - Applicabilità anche alle richieste di sanatoria edilizia – Esclusione.
Le disposizioni di un Piano di assetto idrogeologico (Pai) che circoscrivono l’efficacia ai nuovi interventi costruttivi non possono essere interpretate come applicabili anche alle richieste di sanatoria edilizia (1).
(1) Ha ricordato la sentenza che se è evidente che i limiti e i vincoli fissati dal Piano non possono che riferirsi alle opere successive alla sua entrata in vigore, ciò non può valere per quegli interventi realizzati senza titolo sui quali è chiesto l’accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 e, pertanto, per esse non può non valere anche il requisito della doppia conformità alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione che al momento della presentazione dell’istanza.
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Edilizia
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Autorità amministrative indipendenti – Autorità garante della concorrenza e del mercato – Pratica commerciale scorretta - Hosting provider – Professionista – Possibilità
Non vi è una oggettiva incompatibilità tra la figura del professionista, ai sensi della normativa sulle pratiche commerciale scorrette, e quella di hosting provider, ai sensi della normativa sul commercio elettronico; è possibile sanzionare le condotte che violano le regole della correttezza professionale ma non è consentito che mediante l’applicazione della disciplina sulle pratiche scorrette si impongano all’hosting provider prestazioni non previste dalla disciplina sul commercio elettronico e dallo specifico contratto concluso (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che l’hosting provider è disciplinato dal d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, ha dato attuazione alla direttiva 2000/31/Ce, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.
La nozione di “servizi della società dell’informazione” ricomprende i servizi prestati normalmente dietro retribuzione, a distanza, mediante attrezzature elettroniche di trattamento e di memorizzazione ed a richiesta individuale di un destinatario dei servizi stessi (art. 2, lett. a della suddetta direttiva).
Il provider è il soggetto che organizza l’offerta ai propri utenti dell’accesso alla rete internet e dei servizi connessi all’utilizzo di essa.
Si distinguono, ai sensi del decreto in esame, tre figure di soggetti che operano nel presente mercato, articolate in ragione della tipologia di prestazione resa a cui corrisponde una specifica forma di responsabilità: i) attività di semplice trasporto – mere conduit (art. 14); ii) attività di memorizzazione temporanea – caching (art. 15); iii) attività di memorizzazione di informazione – hosting (art. 16).
In relazione a tale ultima attività la giurisprudenza europea distingue due figure di hosting provider.
La prima figura è quella di hosting provider “passivo”, il quale pone in essere un’attività di prestazione di servizi di ordine meramente tecnico e automatico, con la conseguenza che detti prestatori non conoscono né controllano le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono i loro servizi.
La seconda figura è quella di hosting provider “attivo”, che si ha quando, tra l’altro, l’attività non è limitata a quanto sopra indicato ma ha ad oggetto anche i contenuti della prestazione resa (Corte di Giustizia eur. 7 agosto 2018, punti 47 e 48; si v. anche Cass. civ., sez. I, 19 marzo 2019, n. 7708).
La Sezione ha già evidenziato come non vi sia una oggettiva incompatibilità tra la figura del professionista, ai sensi della normativa sulle pratiche commerciale scorrette, e quella di hosting provider, ai sensi della normativa sul commercio elettronico.
Esse, però, devono essere coordinate nel senso che è possibile sanzionare le condotte che violano le regole della correttezza professionale ma non è consentito che mediante l’applicazione della disciplina sulle pratiche scorrette si impongano all’hosting provider prestazioni non previste dalla disciplina sul commercio elettronico e dallo specifico contratto concluso.
In termini di ulteriore approfondimento del ruolo degli internet providers, va evidenziato che nel vigente ordinamento, se per un verso, viene riconosciuta l’importanza di questi soggetti sia dal punto di vista economico - essi intermediano la maggior parte delle attività imprenditoriali che hanno luogo in rete - sia dal punto di vista socio-culturale - essi permettono la circolazione e l'accesso all'informazione, per altro verso, da più parti si lamenta che gli illeciti telematici avvengano proprio in virtù dell'attività svolta dagli intermediari di Internet, che devono dunque essere coinvolti nella responsabilità o almeno nelle operazioni di prevenzione e rimozione di tali illeciti.
In tale contesto, se si guarda al regime di responsabilità degli Internet service providers, oggi in vigore nel nostro ordinamento, la scelta operata dal legislatore europeo e, conseguentemente, nazionale è stata quella di affiancare alle normative già esistenti - la disciplina generale sulla responsabilità da fatto illecito di cui all'art. 2043 c.c. e, più in generale, le ordinarie regole della responsabilità civile - alcune norme speciali, ad altro contenuto tecnico, sulla responsabilità dei prestatori di servizi nella società dell'informazione.
Tali norme, secondo la prospettazione accolta anche dalla giurisprudenza civile (cfr. ad es. Cass. civ. sez. I, 19 marzo 2019, nn. 7708 e 7709), dettano il criterio di imputazione della responsabilità della colpa, che viene ad essere dotato di un contenuto di specificità, e, ad un tempo, conformato e graduato, ex lege, per così dire, ritagliato, a misura dell'attività professionale svolta dai prestatori dei servizi Internet.
Secondo tale condiviso orientamento, va esclusa la responsabilità in caso di mancata manipolazione dei dati memorizzati; in tale contesto si valorizza la varietà di elementi idonei a delineare la peculiare figura dell'hosting attivo, comprendente attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti pubblicati dagli utenti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione.
Trattasi all’evidenza, anche dinanzi all’evoluzione tecnologica, di indici esemplificativi e che non debbono essere tutti compresenti. Ciò che rileva è che deve trattarsi, in ogni caso, di condotte che abbiano in sostanza l’effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte degli utenti, il cui accertamento in concreto non può che essere rimesso al giudice di merito.
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Autorità amministrative indipendenti
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Giurisdizione – Pubblica istruzione - Fondo unico nazionale dei Dirigenti – Mancata inclusione della retribuzione individuale di anzianità del personale dirigenziale
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversie proposta avverso il decreto che calcola il Fondo unico nazionale dei Dirigenti senza tenere conto della retribuzione individuale di anzianità del personale dirigenziale, venendo in considerazione l’esercizio del potere amministrativo volto a contemperare l’interesse dei dirigenti, beneficiari del fondo, con l’interesse pubblico alla corretta determinazione del fondo in base alla disciplina contabile e finanziaria che regola la materia (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che la normativa demanda alla contrattazione collettiva solo la fissazione dei criteri di utilizzo del Fondo Unico Nazionale dei Dirigenti e non la quantificazione dello stesso, che viene invece effettuata unilateralmente ed autoritativamente dal MIUR, con proprio decreto, sottoposto solo al visto del MEF. Ha quindi affermato la Sezione che il decreto impugnato deve essere qualificato alla stregua di un atto amministrativo, trattandosi di un provvedimento avente efficacia generale, con cui l’Amministrazione ha unilateralmente ed autoritativamente determinato il Fondo Unico Nazionale per le retribuzione di posizione e di risultato dei dirigenti; contrariamente alla prospettazione del giudice di primo grado non viene in considerazione l’esercizio di facoltà spettanti al datore di lavoro secondo una logica prettamente privatistica, bensì l’esercizio di un potere volto a contemperare l’interesse dei ricorrenti, beneficiari del fondo, con l’interesse pubblico alla corretta determinazione del fondo in base alla disciplina contabile e finanziaria che regola la materia. Venendo in considerazione l’esercizio del potere amministrativo, la posizione soggettiva dei ricorrenti è di interesse legittimo, da cui la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. VI, 27 novembre 2020, n. 7505, secondo cui “sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie concernenti gli atti amministrativi adottati dalle pubbliche amministrazioni nell’esercizio del potere loro conferito dell’art. 2 del decreto legislativo n. 165 del 2001, aventi ad oggetto la fissazione delle linee e dei principi fondamentali dell’organizzazione degli uffici ‒ nel cui quadro i rapporti di lavoro si costituiscono e si svolgono ‒ caratterizzati da uno scopo esclusivamente pubblicistico, sul quale non incide la circostanza che gli stessi, eventualmente, influiscono sullo status di una categoria di dipendenti, costituendo quest’ultimo un effetto riflesso, inidoneo ed insufficiente a connotarli delle caratteristiche degli atti adottati “iure privatorum” (Sezioni Unite n. 8363 del 2007); nell’emanazione di tali atti organizzativi, la pubblica amministrazione datrice di lavoro esercita un potere autoritativo in deroga alla generale previsione del successivo art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 secondo cui la gestione del rapporto avviene con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”). Tale soluzione accolta risulta coerente anche con i principi espressi dalla Corte di Cassazione in casi analoghi, in cui si è affermato che “in tema di riparto di giurisdizione nelle controversie relative a rapporti di lavoro pubblico privatizzato, rilevano la titolarità dell'interesse fatto valere e il grado di protezione accordato dall'ordinamento in relazione ai poteri attribuiti al giudice adito (vedi anche Cass., sez. un., 8 novembre 2005, n. 21592). Nel caso in esame, i dirigenti hanno chiesto la reintegrazione dell'entità dei fondi destinati ad alimentare la loro retribuzione di posizione e di risultato e, per conseguenza, la condanna della PA. a pagare loro pro quota gli importi spettanti a tale titolo. La contestazione, dunque, investe il corretto esercizio del potere amministrativo…Le situazioni giuridiche dedotte in lite, in definitiva, sono correlate esclusivamente all'illegittimo esercizio d'un potere autoritativo organizzativo” (Cass. civ., sez. un., ord., 17 novembre 2017, n. 27285).
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Giurisdizione
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Covid-19 – Calcio – Squadra del Torino – Otto casi di positività - Ordinanza Asl di quarantena per tutti i giocatori e non solo per i positivi al Covid-19 – Va sospesa
Va sospesa l’ordinanza della Asl che, accertato che nel “Gruppo Squadra” del Torino F.C. si sono verificati 8 casi di positività al Covid-19, ha disposto il divieto di allontanamento dal domicilio di tutti gli appartenenti al gruppo - prescrivendo l’obbligo di isolamento per i soggetti positivi al tampone e, al contempo, il divieto generalizzato di allontanamento dal domicilio per i soggetti asintomatici (vaccinati e non vaccinati) - e non soltanto gli 8 soggetti sottoposti ex lege a quarantena, ma anche i soggetti sottoposti al regime di autosorveglianza disciplinato dall’art. 2 del d.l. n. 229 del 2021, non consentendo alla squadra del Torino F.C. di “mettersi in bolla” secondo le modalità stabilite dalla circolare del Ministero della salute del 18 giugno 2020, con la conseguenza che la squadra del Torino calcio non può prendere parte alle gare di campionato previste per il 6 gennaio 2022 e per il 9 gennaio 2022 (1).
(1) Ad avviso del Tar, che ha deciso in sede monocratica, l’ordinanza della A.S.L. appare illegittima per violazione dell’art. 2, d.l. 30 dicembre 2021, n. 229, nonché della circolare del Ministero della Salute del 18 giugno 2020, e ciò in quanto il cit. art. 2, d.l. n. 229 del 2021, al fine di impedire la paralisi delle attività lavorative, ha disposto che la misura della quarantena precauzionale non si applica a coloro che, nei 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale primario o dalla guarigione o successivamente alla somministrazione della dose di richiamo, hanno avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al Covid-19 e a detti soggetti è imposto l’obbligo di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2, fino al decimo giorno successivo alla data dell’ultimo contatto stretto con soggetti confermati positivi al Covid-19, e di effettuare un test antigenico rapido o molecolare per la rilevazione dell’antigene Sars-Cov-2 alla prima comparsa dei sintomi e, se ancora sintomatici, al quinto giorno successivo alla data dell’ultimo contatto; la norma si applica anche alle persone che erano sottoposte alla misura della quarantena precauzionale alla data di entrata in vigore del decreto legge;
Ha aggiunto il decreto che, con circolare del Ministero della Salute del 30 dicembre 2021, è stato altresì chiarito che, per i soggetti non vaccinati, o che non abbiano completato il ciclo vaccinale primario, o che abbiano completato il ciclo vaccinale primario da meno di 14 giorni, rimane inalterata l’attuale misura della quarantena, prevista nella durata di 10 giorni dall’ultima esposizione al caso, mentre per i soggetti che abbiano completato il ciclo vaccinale primario da più di 120 giorni e che abbiano tuttora in corso di validità il green-pass, se asintomatici, la quarantena ha durata di 5 giorni, purché al termine di tale periodo risulti eseguito un test molecolare o antigenico con risultato negativo.
Con la richiamata circolare del Ministero della Salute del 18 giugno 2020 (tuttora vigente), si è stabilito, con specifico riferimento alle attività sportive, che, nel caso di quarantena dell’intero “Gruppo Squadra” per la accertata positività di uno o più componenti dello stesso, l’intero gruppo possa essere posto “in bolla” e possano così svolgersi gli allenamenti e le partite dei campionati professionistici, previa effettuazione di test nel giorno della gara.
La A.S.L. di Torino, con il provvedimento qui impugnato, ha confinato nel proprio domicilio dal 5 al 9 gennaio 2022, periodo in cui sono programmate due giornate di campionato, non soltanto gli 8 soggetti sottoposti ex lege a quarantena, ma anche i soggetti sottoposti al regime di autosorveglianza disciplinato dall’art. 2 del d.l. n. 229 del 2021, non consentendo alla squadra del Torino F.C. di “mettersi in bolla” secondo le modalità stabilite dalla circolare ministeriale del 18 giugno 2020 e vietando, di fatto, l’attività agonistica nel periodo considerato.
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Covid-19
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Enti locali – Province - Organi rappresentativi – Elezioni - Normativa applicabile – Individuazione.
Enti locali – Province - Organi rappresentativi – Elezioni - Principio di continuità – Limiti
Enti locali – Province - Organi rappresentativi – Elezioni – Divieto di extraterritorialità
I principi generali del procedimento elettorale trovano applicazione anche in materia di elezione degli organi rappresentativi della Provincia, laddove compatibili e in assenza di un’esplicita deroga in tal senso contenuta nella l. 7 aprile 2014, n. 56 (“Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”, cd. L. Delrio), che ha introdotto per tali organi una procedura elettorale di "secondo grado", che non coinvolge l'intero corpo elettorale, ma unicamente i sindaci e i consiglieri dei Comuni della Provincia.
La legge 7 aprile 2014, n. 56 che detta disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni” non reca l’espressa affermazione del principio di continuità e non interruzione delle operazioni elettorali, non definisce un preciso ordo procedendi da seguire nello scrutinio, nè vieta l’apertura delle urne per verificare l’eventuale presenza di schede inserite per errore (limitandosi anzi a imporre al seggio elettorale di effettuare una preliminare verifica delle schede votate onde accertarne la necessaria corrispondenza con il numero dei votanti) (1).
La regola del divieto di extraterritorialità per la raccolta del voto dei degenti ricoverati in ospedali e case di cura (secondo cui possono essere ammessi al voto solo i soggetti ricoverati in strutture ospedaliere situate all’interno del territorio dell’Ente della cui elezione si tratta), deve considerarsi pienamente vigente anche in materia di elezioni provinciali, essendo espressamente prevista per tali elezioni dall’art. 42, comma 1, D.P.R. n. 570/1960 e non essendo derogata da alcuna disposizione della legge 7 aprile 2014, n. 56, recante la nuova disciplina del sistema elettorale degli organi provinciali (2).
(1) Ha chiarito la sezione che la ratio del principio di continuità e non interruzione delle operazioni elettorali - il quale implica che, una volta prese avvio le operazioni di spoglio dei voti, queste devono proseguire senza interruzioni - deve ricollegarsi all’esigenza di evitare compromissioni del materiale elettorale (come comprovato dalle disposizioni, quali l’art. 73 del d.p.r. n. 361 del 1957, che disciplinano puntualmente gli adempimenti che il presidente è chiamato a svolgere a tutela dell’integrità del citato materiale laddove l’ufficio non possa ultimare le operazioni nel termine prescritto) ovvero errori nel corretto conteggio delle schede.
(2) Si applica il principio di “territorialità” rispetto al tipo di votazione che si sta svolgendo, in base al quale l’elettore può votare in un seggio diverso da quello assegnato, purché tuttavia il luogo di cura abbia sede all’interno del territorio dell’ente della cui elezione si tratta (e sempre che, ovviamente, il degente sia titolare del diritto di elettorato attivo per la citata elezione).
Il principio di territorialità è insito nello stesso carattere essenziale del territorio, quale elemento costitutivo dell’Ente della cui elezione si tratta.
Non è mai stato messo in discussione nei citati lavori preparatori della legge 23 marzo 1956, n. 136 (dai quali invece emerge che il contrasto tra le forze politiche del tempo riguardava la possibilità stessa che venisse riconosciuto o meno il diritto di voto ai soggetti ricoverati negli ospedali e nelle case di cura, in considerazione delle suggestioni e dei condizionamenti che tali soggetti avrebbero potuto subìre in un contesto caratterizzato da una forte presenza dell’assistenza religiosa).
Per quanto riguarda le elezioni comunali e provinciali, il principio di territorialità è espressamente affermato dall’art. 42, comma 1, DPR n. 570/1960, secondo cui “i degenti in ospedali e case di cura sono ammessi a votare nel luogo di ricovero, purchè siano elettori del comune o della provincia rispettivamente per la elezione del consiglio comunale e provinciale”; tale norma si applica anche alle elezioni regionali (art. 12 della legge 17 febbraio 1968, n. 108) ed alle elezioni circoscrizionali (art. 6 della legge 8 aprile 1976, n. 278).
La circolare del Ministero dell’Interno Direzione generale dell’amministrazione civile – Direzione centrale per i servizi elettorali, 23 maggio 1983, prot. n. 2275/EP/AR, al § 2, relativo agli elettori ammessi ad esprimere il voto nei luoghi di cura, significativamente precisa che “gli elettori ricoverati in luoghi di cura, in qualsiasi comune si trovino iscritti, possono votare per le elezioni politiche, restando nel luogo di degenza. All’elezione del Consiglio regionale possono partecipare i degenti iscritti nelle liste elettorali di un Comune della Regione in cui ha sede l’istituto che li ricovera, indipendentemente dalla ripartizione della Regione stessa in circoscrizioni elettorali. All’elezione del consiglio provinciale possono prendere parte gli elettori iscritti nelle liste elettorali di un Comune facente parte del territorio della provincia in cui ha sede il luogo di cura; indipendentemente dalla eventuale ripartizione del suddetto territorio in collegi uninominali. All’elezione del Consiglio comunale possono partecipare soltanto gli elettori iscritti nelle liste elettorali del Comune nel quale ha sede il luogo di cura. Infine, all’elezione dei consigli circoscrizionali, possono partecipare soltanto gli elettori iscritti in una sezione compresa nella circoscrizione amministrativa nei cui ambito ha sede il luogo di cura”.
In coerenza con la sua ratio (che vede il principio di territorialità correlato alla natura costitutiva del territorio), nel caso di elezioni politiche (nelle quali il collegamento riguarda l’intero territorio nazionale), il legislatore ha eliminato ogni limitazione al riguardo, prevedendo puramente e semplicemente che <<i degenti in ospedali e case di cura sono ammessi a votare nel luogo di ricovero>> (art. 51 del testo unico 30 marzo 1957, n. 361).
Come infatti precisato dalla Circolare n. 15/2018 del Ministero dell’Interno (cfr. punto d), rubricato “degenti in ospedali e case di cura”, i degenti in ospedali e case di cura sono ammessi a votare nel luogo di ricovero, anche se iscritti nelle liste elettorali “di altro comune del territorio nazionale”.
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Enti locali
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Processo amministrativo – Competenza - Atto introduttivo proposto contro l’interdittiva e la comunicazione di revoca del Rating di legalità dell’Agcm - Competenza del Tar territorialmente competente.
In caso di impugnazione con l’atto introduttivo del giudizio della interdittiva antimafia e con atto di motivi aggiunti del provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato recante la comunicazione di revoca del Rating di legalità ai sensi degli artt. 6, comma 4, e 7, comma 2, del Regolamento dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, la controversia deve essere decisa dal Tar territorialmente competente e non dal Tar Lazio, funzionalmente competente a decidere sugli atti dell’Agcm, e ciò sia in forza dell’applicazione della regola posta dall’art. 13, comma 4-bis, c.p.a.; sia perché ricorre la stessa esigenza di evitare una pluralità di giudicati sulla legittimità del medesimo provvedimento prefettizio, già valorizzata dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria 7 novembre 2014, n. 29.
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Processo amministrativo
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Processo amministrativo - Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE - Obbligo di rinvio - Deroga - Presupposto - Quesito
Va demandata alla CGUE l'esatta interpretazione sui presupposti che consentono la deroga dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ad opera del giudice nazionale di ultima istanza, dovendosi chiarire in particolare:
a) se il convincimento che "la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla Corte di Giustizia” debba essere accertato in senso soggettivo, motivando in ordine alla possibile interpretazione suscettibile di essere data alla medesima questione dai giudici degli altri Stati membri e dalla Corte di giustizia, ove investiti di identica questione;
b) se, al fine di evitare una probatio diabolica e consentire la concreta attuazione delle circostanze derogatorie all’obbligo di rinvio pregiudiziale, sia sufficiente accertare la manifesta infondatezza della questione pregiudiziale (di interpretazione e corretta applicazione della disposizione europea rilevante nel caso concreto) sollevata nell’ambito del giudizio nazionale, escludendo la sussistenza di ragionevoli dubbi al riguardo, tenuto conto, sul piano meramente oggettivo, senza un’indagine sul concreto atteggiamento interpretativo che potrebbero tenere distinti organi giurisdizionali - della terminologia e del significato propri del diritto unionale attribuibili alle parole componenti la disposizione europea, del contesto normativo europeo in cui la stessa è inserita e degli obiettivi di tutela sottesi alla sua previsione, considerando lo stadio di evoluzione del diritto europeo al momento in cui va data applicazione alla disposizione rilevante nell’ambito del giudizio nazionale;
c) se, per salvaguardare i valori costituzionali ed europei della indipendenza del giudice e della ragionevole durata dei processi, sia possibile interpretare l’art. 267 TFUE, nel senso di escludere che il giudice supremo nazionale, che abbia preso in esame e ricusato la richiesta di rinvio pregiudiziale di interpretazione del diritto della Unione europea, sia sottoposto automaticamente, ovvero a discrezione della sola parte che propone l’azione, ad un procedimento per responsabilità civile e disciplinare.
In ordine al caso specifico, vanno altresì sottoposti alla CGUE i seguenti ulteriori quesiti:
1) se risultano compatibili con la direttiva n. 1999/70/CE e con il principio di legittimo affidamento gli artt. 1626, 1653, 1668 e 1669 del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 che prevedono l'esistenza di rapporti di servizio con una Pubblica Amministrazione aventi scadenze più volte prorogabili e rinnovabili nel corso di decenni senza soluzione di continuità;
2) se risultano compatibili con la direttiva n. 1999/70/CE e con il principio di non discriminazione gli artt. 5 e 6 del d.lgs. n. 178/2012 nella parte in cui stabiliscono un diverso trattamento fra personale del medesimo Corpo in servizio continuativo (ovvero a tempo indeterminato) e in servizio temporaneo (ovvero a tempo determinato), con assenza di previsioni normative che assicurino ai lavoratori in servizio temporaneo opportunità di conservazione del rapporto di lavoro a seguito del riordino dell'ente di appartenenza
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Processo amministrativo
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – False e omesse dichiarazioni - Fatti penalmente rilevanti – Valutazione della stazione appaltante – Criterio.
Ai fini della valutazione dell’affidabilità e integrità dell’impresa il giudizio dell’amministrazione non può che investire il fatto in sé, in tutti i suoi profili sostanziali, e non la sola valutazione e il trattamento datogli in sede penale; ciò vale quando del fatto l’amministrazione sia venuta a conoscenza in ragione della vicenda penale, e in specie per l’omessa o inadeguata comunicazione di questa, con la conseguente necessità che la stazione appaltante effettui la valutazione delle circostanze omesse: anche in un tale caso, gli atti del procedimento penale rimangono il veicolo attraverso il quale l’amministrazione ha avuto conoscenza del fatto; è dunque sul pregresso fatto, nel suo effettivo portato sostanziale e storico, che la stazione appaltante è tenuta ad esprimersi, dovendo apprezzarlo compiutamente in una alla condotta reticente tenuta dall’operatore, senza arrestarsi alla attribuita qualificazione in sede penale e alle sue inerenti conseguenze (1).
(1) La Sezione ha affrontato il tema di quali debbano essere i requisiti dell’istruttoria e, dunque, della motivazione riguardo a siffatta valutazione, e quale ne debba essere il grado d’autonomia rispetto alle correlate vicende giudiziali (in particolare: penali) da cui la circostanza potenzialmente lesiva per l’affidabilità e integrità del concorrente sia emersa. In questa prospettiva, la questione si specifica in quali termini l’amministrazione sia chiamata a esaminare e indagare il fatto oggetto della (distinta) vicenda giudiziale penale, in relazione alla quale l’omissione, reticenza o falsità dichiarativa endoprocedurale s’è manifestata.
L’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, nella formulazione ratione temporis applicabile alla presente fattispecie, prevede l’esclusione dei concorrenti nel caso in cui «la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano […] il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione» (cfr. il suddetto art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016 nella versione anteriore al d.-l. n. 135 del 2018, conv. dalla l. n. 12 del 2019; v. oggi la lett. c-bis) del medesimo art. 80, comma 5).
La valutazione sulla sussistenza di «gravi illeciti professionali» desumibili da «mezzi adeguati» compete all’amministrazione, la quale è chiamata all’uopo - in caso di illecito comunicativo - ad apprezzare senz’altro quella condotta dichiarativa (in termini di omissione, reticenza o mendacio) del concorrente; ma “nel far ciò, non potrà esimersi dal soppesare nel merito i singoli, pregressi episodi, dei quali l’operatore si è reso protagonista, e da essi dedurre, in via definitiva, la possibilità di riporre fiducia nell’operatore economico ove si renda aggiudicatario del contratto d’appalto” (Cons. Stato, V, n. 2407 del 2019, cit.).
Il canone alla cui stregua la stazione appaltante deve esprimere il proprio motivato giudizio sull’ammissione del concorrente è quello della «integrità o affidabilità» dell’operatore: per questo, non solo i profili della condotta dichiarativa endoprocedurale in sé, ma anche quelli inerenti al fatto non adeguatamente dichiarato rientrano nell’oggetto dell’apprezzamento di competenza dell’amministrazione.
Si ricavano dai principi e dai precedenti suesposti due rilevanti corollari, connessi fra di loro: ai fini della valutazione dell’affidabilità e integrità dell’impresa il giudizio dell’amministrazione non può che investire il fatto in sé, in tutti i suoi profili sostanziali, e non la sola valutazione e il trattamento datogli in sede penale; d’altro canto, l’apprezzamento del medesimo fatto in sede penale e da parte dell’amministrazione ex art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016 è ben distinto, proprio perché diverse sono le finalità istituzionali della valutazione e gli inerenti parametri normativi.
Questo, deve ritenersi, parimenti vale quando del fatto l’amministrazione sia venuta a conoscenza in ragione della vicenda penale, e in specie per l’omessa o inadeguata comunicazione di questa, con la conseguente necessità che la stazione appaltante effettui la valutazione delle circostanze omesse: anche in un tale caso, gli atti del procedimento penale rimangono il veicolo attraverso il quale l’amministrazione ha avuto conoscenza del fatto; ma ciò non basta, perché la normativa sulla formazione dei contratti pubblici ha la sua funzione istituzionale nella selezione del concorrente (più) affidabile per un certo stipulando contratto, e in vista di ciò non si arresta al rimettere l’affidabilità a un pregresso dato formale, per quanto connesso possa essere alla moralità dell’aspirante contraente e a tali fini rilevante: diversa infatti è la funzione e diversa è la finalità.
È dunque sul pregresso fatto, nel suo effettivo portato sostanziale e storico, che la stazione appaltante è tenuta ad esprimersi, dovendo apprezzarlo compiutamente in una alla condotta reticente tenuta dall’operatore, senza arrestarsi alla attribuita qualificazione in sede penale e alle sue inerenti conseguenze.
Per questo, pur potendo trarre elementi valutativi dal procedimento penale e dalle sue vicende, è sul fatto in sé e sulle relative omissioni comunicative che l’amministrazione è chiamata ad esprimersi, stante il canone funzionale posto a fondamento del suo giudizio incentrato sulla «integrità o affidabilità» dell’operatore. Detto altrimenti, l’amministrazione ha l’onere di una sua espressa e distinta valutazione della condotta: dove l’attribuito rilievo penale è solo uno degli elementi di apprezzamento; e dove ciò che soprattutto conta, per l’immanente finalità di selezione di un potenziale contraente affidabile in relazione al contratto da stipulare e alle sue caratteristiche, è il fatto storico nella sua completezza.
Nell’apprezzare tale fatto l’amministrazione è chiamata a svolgere un sillogismo giuridico complesso che si articola su due livelli, dalla cui integrazione discende la complessiva verifica del grave illecito professionale a effetto escludente: da un lato occorre che il comportamento pregresso assuma la qualificazione oggettiva di comportamento in grado d’incrinare l’affidabilità e integrità dell’operatore nei rapporti con l’amministrazione; dall’altro, il fatto così qualificato va messo in relazione con il contratto oggetto dell’affidamento, così da poter declinare in termini relativi e concreti la nozione d’inaffidabilità e assenza d’integrità, ai fini della specifica procedura di gara interessata.
Declinando i principi sin qui esposti rispetto alla specifica problematica in rilievo, occorre evidenziare che, proprio in quanto autonomo e proiettato verso finalità proprie, nonché incentrato su distinti parametri valutativi, il giudizio demandato all’amministrazione sul fatto potenzialmente pregiudizievole per l’affidabilità od integrità dell’operatore non può risolversi nel mero rilievo dell’assenza di un giudicato penale di condanna, con conseguente esclusione ipso facto dell’insussistenza d’un «grave illecito professionale».
Per quanto osservato, infatti, ciò varrebbe a obliterare l’autonomia di valutazione spettante all’amministrazione (e su questa incombente) e la stessa precipua finalità - e base normativa - del giudizio richiesto alla stazione appaltante.
Inoltre, siffatta impostazione finirebbe per immutare lo stesso oggetto dello scrutinio rimesso all’amministrazione: non più il fatto sostanziale, come potenzialmente espressivo d’un illecito professionale, bensì il procedimento penale in sé: ciò che non può trovare condivisione, alterando la prospettiva o il punto d’osservazione affidato all’amministrazione, che si vede chiamata, a ben vedere, a eseguire pur sempre una valutazione sull’affidabilità e integrità dell’impresa - e dunque un vaglio sull’eventuale comportamento «illecito» di questa - non già uno scrutinio sul relativo procedimento penale. Da quest’ultimo è infatti sì possibile trarre eventuali elementi per il giudizio, oltreché di conoscenza del fatto, ma senza mai dimenticare quale dev’essere l’oggetto della valutazione - che rimane la pregressa condotta dell’impresa e i correlati profili comunicativi - né distorcerne la finalità e i parametri.
In tale prospettiva, questa V Sezione ha già precisato, in relazione alla previgente disciplina interna ed europea, la nozione di «errore grave» nell’esercizio dell’attività professionale (art. 45, par. 2, lett. d), direttiva 2004/18/CE, da cui l’art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006) anche alla luce della comparazione fra le versioni nelle diverse lingue del testo della direttiva europea (cfr. Cons. Stato, sez. V, nn. 474, 475, 477-479 e 481 del 2020).
A tale riguardo, a fronte dell’utilizzo del sostantivo «errore» nel testo italiano, s’è posto in risalto come non si volesse far riferimento nella fonte europea “né ad un’ipotesi di ignoranza o falsa rappresentazione della realtà, né ad un’ipotesi di ‘fallo’ o ‘sbaglio’ (come il termine errore - evidentemente frutto di un’improprietà lessicale del servizio di traduzione - lascerebbe intendere), bensì ad un concetto, più chiaro nelle dette espressioni non italiane, che potrebbe essere indicato come ‘grave mancanza’ o ‘grave cattiva condotta’ nello svolgimento dell’attività professionale”.
Il che è ben utile a orientare, sul piano metodologico e sostanziale, anche la lettura del testo in vigore.
In tale contesto, così come «errore» non voleva significare “falsa rappresentazione della realtà”, né “fallo” o “sbaglio”, allo stesso modo la nozione di «illecito» non coincide né si esaurisce con il concetto di “contrarietà alla legge” in altro settore dell’ordinamento, quasi che l’esclusione rivestisse la natura di sanzione di comportamenti aliunde illeciti tenuti dall’operatore.
Al contrario, pur a fronte della diversa locuzione utilizzata nella lingua italiana, rimane fermo l’orizzonte funzionale (e concettuale) di riferimento: l’illecito professionale “può assumere varie qualificazioni giuridiche di dettaglio”, “quel che conta però per la scelta del contraente di un nuovo contratto è la pregressa presenza di omissioni, mancanze o scorrettezze nell’adempimento dei doveri nascenti dagli impegni nella propria attività economica, tali che possono adeguatamente portare a qualificare l’operatore come non affidabile per ulteriori contratti pubblici” (Cons. Stato, sez. V, n. 474 del 2020, cit.; sulla nozione essenzialmente atipica di grave illecito professionale ex art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, cfr. Cons. Stato, sez. V, 29 ottobre 2020, n. 6615; 14 aprile 2020, n. 2389; 24 gennaio 2019, n. 586 e 591; sez. IV, 8 ottobre 2020, n. 5967).
La normativa di matrice europea sui contratti pubblici, infatti, nel valorizzare e coltivare il valore della concorrenza e i correlati principi di trasparenza, pubblicità e parità di trattamento nell’affidamento delle pubbliche commesse, non oblitera - anzi concilia, in una sintesi unitaria - l’obiettivo della scelta del miglior contraente per la pubblica amministrazione, cui la disciplina rimane pur sempre orientata.
Alla luce di ciò, l’«illecito professionale» rileva non come tale, cioè nella (distinta) dimensione in cui viene accertato ed eventualmente sanzionato per la sua intrinseca offensività, bensì se e nella misura in cui risulti rilevante sul piano della affidabilità e integrità dell’operatore, e quindi funzionalmente a un apprezzamento - in termini negativi, e cioè ostativi - dell’operatore ai fini dell’affidamento del contratto pubblico.
Di qui la non diretta né esclusiva rilevanza, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016 della vicenda procedimentale penale in sé, quanto piuttosto dei fatti che ne costituiscono l’oggetto.
Il che parimenti vale nel caso in cui l’illecito origini nella dimensione dichiarativa, cioè in relazione all’omessa, reticente o mendace comunicazione di pregressi “illeciti professionali”: anche in questo caso, nell’apprezzare - al fianco della condotta dichiarativa - il fatto storico, l’amministrazione dovrà osservarlo nel prisma dell’affidabilità e integrità dell’impresa a fini contrattuali, non già guardando alla (sola, distinta) vicenda penale, ovvero all’offensività del medesimo fatto al di fuori della dimensione contrattuale-pubblicistica.
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Covid-19 – Sanità – Strutture private - Autorizzazione ad eseguire tamponi per la rilevazione della positività al Covid-19 – Diniego - Va sospeso.
Deve essere sospeso il diniego di autorizzazione opposto ad un centro diagnostico privato di eseguire i tamponi per la rilevazione della positività al Covid-19 (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che il divieto per le strutture sanitarie private di eseguire test molecolari contrasta con il principio di libertà dell’utente nella scelta della struttura di fiducia per la fruizione dell’assistenza sanitaria, vinto solo laddove si accerti l’esistenza di effettive ragioni che giustifichino la restrizione “mediante un adeguato apparato motivazionale a supporto del provvedimento, e nella presupposta, oggettiva, valutazione dell’interesse pubblico finalizzato alla tutela del diritto alla salute” (Cons. St., sez. III, 7 marzo 2019, n. 1589).
Ha aggiunto la Sezione che nel bilanciamento degli interessi coinvolti l’interesse pubblico prevalente sia quello di eseguire quanti più esami possibile, specie se questi vengono fatti senza oneri per le finanze pubbliche e senza limitare l’accesso ai reagenti per le strutture del Servizio Sanitario, con l’effetto di consentire l’immediato avvio, privatamente e senza oneri per il Servizio Sanitario Regionale, delle operazioni diagnostiche per la ricerca del virus SARS-CoV-2 mediante esami molecolari su tutte le matrici biologiche
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Covid-19
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Contratti della Pubblica amministrazione – Arbitrato – Nomina arbitro di parte in caso di inerzia – Soggetto deputato - Individuazione.
Il presidente del tribunale è il soggetto istituzionale deputato alla nomina dell’arbitro di parte nel caso di inerzia della parte stessa (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che né l’art. 209, d.lgs. n. 50 del 2016 né il successivo art. 210 disciplinano espressamente l’ipotesi in cui la parte, cui spetta la nomina dell’arbitro di parte, non provveda.
Prima di dare analitica risposta ai quesiti posti dall’ANAC (come si farà nel prosieguo), la Sezione reputa necessario esporre il ragionamento logico-giuridico sotteso alla decisione, anticipando sin da ora che il Collegio ritiene di aderire alla soluzione che attribuisce al presidente del tribunale il potere di designazione dell’arbitro nel caso di inerzia della parte.
Ciò premesso, in primo luogo va evidenziato che, atteso il richiamo esplicito operato al codice di procedura civile (“Ai giudizi arbitrali si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, salvo quanto disposto dal presente codice”), il chiaro disposto dell’art. 209, comma 10, esclude che tecnicamente vi sia una lacuna.
La disposizione da ultimo richiamata serve proprio ad evitare le lacune e a prevedere una disciplina di riferimento – il più possibile completa – per tutti gli aspetti non regolati dal predetto articolo 209 codice appalti.
Leggendo l’articolo 209, comma 10, si ricava invero l’idea che all’arbitrato in materia di appalti si applichi per intero il codice di procedura civile, fatta eccezione per le regole contenute nel codice degli appalti.
Né in senso diverso può dirsi che il rinvio al codice di procedura civile sia limitato alla fase del giudizio e non anche a quella di costituzione del collegio arbitrale. Per la Sezione, la locuzione “giudizi arbitrali” deve essere riferita all’”arbitrato”, come disciplinato al Titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile (artt. 806 e segg.) nei suoi diversi Capi. Ragionando diversamente non sarebbe chiaro a quale dei diversi Capi (Capo I, “Della convenzione di arbitrato”, II “Degli arbitri”, III “Del procedimento”, IV “Del lodo” V “Delle impugnazioni”, ecc. ) il Codice degli appalti abbia voluto fare riferimento.
Le affermazioni ora compiute, in secondo luogo, portano ad affermare che la disciplina generale dell’arbitrato in materia di appalti è quella dettata dal codice di procedura civile, attesa l’ampiezza del rinvio compiuto dall’articolo 209, comma 10, mentre le norme contenute all’articolo 209 codice degli appalti hanno carattere derogatorio, e dunque eccezionale, pur se contenute in una legge speciale (ossia che si applica “soltanto ad una determinata materia o ad una determinata categoria di soggetti”), qual è il codice degli appalti.
Venendo al caso di specie, il chiaro disposto dell’articolo 209, comma 10, ove si effettua un amplissimo richiamo al codice di procedura civile, porta a far concludere che la procedura di nomina degli arbitri da parte della camera arbitrale abbia natura derogatoria rispetto a quella generale del codice di procedura civile e dunque non possa essere applicata analogicamente, giusta il divieto contenuto all’art. 14 Preleggi.
In terzo luogo, va evidenziato che la camera arbitrale è un organo amministrativo e come tale soggetto al principio di legalità dell’azione amministrativa, principio quest’ultimo che comporta la possibilità di ritenere esistenti solo i poteri espressamente conferiti a tale organo amministrativo dalla legge. Ne consegue che non possono riconoscersi, in via analogica, poteri non conferiti dalla legge – anzi espressamente assegnati al presidente del tribunale – come avverrebbe se la camera arbitrale supplisse all’inerzia della parte privata designando l’arbitro.
Tale ultima considerazione risulta essere l’unica soluzione coerente sia con la possibilità per le pubbliche amministrazioni di adottare solo i provvedimenti espressamente stabiliti dalla legge (c.d. tipicità e numerus clausus) sia con l’esplicita previsione legislativa di nominare unicamente il presidente e, su designazione degli arbitri di parte, il collegio, ex art. 209, comma 4 (“Il collegio arbitrale è composto da tre membri ed è nominato dalla Camera arbitrale di cui all'articolo 210. Ciascuna delle parti, nella domanda di arbitrato o nell'atto di resistenza alla domanda, designa l'arbitro di propria competenza scelto tra soggetti di provata esperienza e indipendenza nella materia oggetto del contratto cui l'arbitrato si riferisce. Il Presidente del collegio arbitrale è designato dalla Camera arbitrale tra i soggetti iscritti all'albo di cui al comma 2 dell'articolo 210, in possesso di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui l'arbitrato si riferisce”).
Va poi aggiunto che nel nostro sistema, sempre il principio di legalità, porta al tendenziale rifiuto del ricorso a poteri impliciti. Come chiaramente affermato dalla Corte costituzionale, vi è «l'imprescindibile necessità che in ogni conferimento di poteri amministrativi venga osservato il principio di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto. Tale principio non consente «l'assoluta indeterminatezza» del potere conferito dalla legge ad una autorità amministrativa, che produce l'effetto di attribuire, in pratica, una «totale libertà» al soggetto od organo investito della funzione (sentenza n. 307 del 2003; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 32 del 2009 e n. 150 del 1982). Non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell'azione amministrativa» (Corte cost. 115/2011).
È ben vero che, nel caso di specie, all’articolo 210, comma 2, codice degli appalti è stabilito che “la Camera arbitrale cura la formazione e la tenuta dell'Albo degli arbitri per i contratti pubblici, redige il codice deontologico degli arbitri camerali e provvede agli adempimenti necessari alla costituzione e al funzionamento del collegio arbitrale”, tuttavia, ritiene la Sezione, che, con un’interpretazione costituzionalmente orientata, per le ragioni prima esposte, la locuzione “adempimenti necessari alla costituzione e al funzionamento del collegio arbitrale” non possa essere interpretata estensivamente nel senso di ampliare i poteri anche ad ipotesi non disciplinate e a poteri non espressamente conferiti.
A conferma di quanto or ora affermato va aggiunto che, se si ritenesse la camera arbitrale competente alla nomina dell’arbitro nel caso di inerzia della parte, sarebbe necessario altresì individuare il procedimento amministrativo che tale organo deve seguire, così svolgendo un compito che è demandato unicamente al legislatore.
In quarto luogo, la Sezione osserva che se fosse riconosciuto alla camera arbitrale il potere di nominare anche l’arbitro di parte, vi sarebbe un collegio che per due terzi (il presidente e un arbitro) sarebbe composto da soggetti nominati dallo stesso organo, ossia la camera arbitrale.
Fermo restando che la camera arbitrale ha certamente connotati di elevatissima indipendenza, in via sistematica, sino a quando non vi sarà un intervento del legislatore primario, va preferita la scelta che evita la “concentrazione” di nomine nello stesso organo e che opta per la nomina da parte di un soggetto terzo, anch’esso istituzionalmente caratterizzato da imparzialità e indipendenza, peraltro non competente a nominare neppure il presidente del collegio arbitrale.
In quinto luogo, occorre considerare che il dubbio sull’esistenza del potere in capo alla camera arbitrale, dubbio riconosciuto sia dall’ANAC sia dal DAGL, crea il rischio che l’atto di designazione dell’arbitro di parte sia adottato in carenza di potere con conseguente nullità del collegio e del lodo, ex art. 209, comma 7 (“La nomina del collegio arbitrale effettuata in violazione delle disposizioni di cui ai commi 4, 5 e 6 determina la nullità del lodo”).
La Sezione, in presenza di una norma (qual è il comma 10 dell’articolo 209) che richiama espressamente il codice di procedura civile conferendo il potere di nomina al presidente del tribunale, ritiene che vada seguito il canone ermeneutico per cui, in presenza di diverse opzioni interpretative, debba essere preferita quella più prudente e meno rischiosa per la validità degli atti adottati.
La Sezione osserva altresì che la difficoltà interpretativa, legata alla distinzione tra designazione e nomina, possa essere risolta.
Va osservato infatti che il presidente del tribunale, procedendo alla designazione nello svolgimento del suo ruolo istituzionale, rispetterà le disposizioni previste dal codice degli appalti (ivi comprese le incompatibilità lì stabilite), procedendo a designazioni che la camera arbitrale non avrà difficoltà ad inserire poi nel collegio arbitrale, con la conseguenza che difficilmente vi potrà essere un problema in sede di nomina del collegio da parte della camera arbitrale.
In ogni caso, se la camera arbitrale dovesse avere dubbi circa il possesso dei requisiti da parte dell’arbitro designato dal presidente del tribunale, potrà validamente interloquire col presidente del tribunale, che agisce nell’esercizio di poteri di volontaria giurisdizione (Cassazione civile, sez. I, 9 luglio 7 2018, n. 18004; Cassazione civile, sez. I, 21 luglio 2010, n. 17114), fermo restando che pur essendo inammissibile il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. o il reclamo (Cassazione civile, sez. III, 19/01/2006, n. 1017), il decreto di nomina o di sostituzione di un arbitro, è “provvedimento privo di carattere decisorio e insuscettibile di produrre effetti sostanziali o processuali di cosa giudicata” (Cassazione civile, sez. VI, 9 giugno 2020, n.10985; Cassazione civile, sez. I, 9 luglio 2018, n. 18004).
Alla luce delle considerazioni sino a qui esposte, la Sezione reputa di rispondere così ai quesiti:
In ordine al primo quesito – “se effettivamente vi sia una lacuna legislativa in ordine alla previsione dell'organo a cui spetta il potere di designazione sostitutiva nel caso dei procedimenti arbitrali per i contratti pubblici” – la Sezione ritiene che il rinvio esplicito al codice di procedura civile, contenuto all’art. 209, comma 10, d.lgs. 50/16, esclude che tecnicamente vi sia una lacuna normativa.
In ordine al secondo quesito – “se l’arbitro di parte, trattandosi di c.d. arbitrato amministrato, possa essere nominato dalla camera arbitrale, e non dal presidente del tribunale, tenuto conto che la legge delega ha escluso il ricorso a procedure arbitrali diverse da quelle amministrate e ha accentuato il ruolo di garanzia svolto dalla Camera arbitrale” – la Sezione è dell’avviso che, per le considerazioni espresse, il presidente del tribunale sia il soggetto istituzionale deputato alla nomina dell’arbitro di parte nel caso di inerzia della parte stessa.
In relazione al terzo quesito – “se permanendo il potere di nomina da parte del presidente del tribunale, ai sensi dell’articolo 810 c.p.c., come deve essere coordinato tale potere di nomina con quello della camera arbitrale di verifica del possesso, nell’arbitro designato dal Presidente del Tribunale, dei requisiti soggettivi e della insussistenza negli stessi delle condizioni di inconferibilità dell'incarico” – per le ragioni esposte nel presente parere, la Sezione rileva che la distinzione tra “designazione” e “nomina” dell’arbitro non è di ostacolo all’individuazione del presidente del tribunale quale organo deputato alla designazione nel caso di inerzia della parte. Partendo dal presupposto che i rapporti tra presidente del tribunale e camera arbitrale dovranno essere improntati al principio della leale collaborazione, la “designazione” da parte del presidente del tribunale andrà effettuata tra coloro che possiedono i requisiti soggettivi richiesti dal codice degli appalti; inoltre, poiché la designazione è atto di volontaria giurisdizione, non si traduce in un provvedimento giurisdizionale, con conseguente possibilità per la camera arbitrale di interloquire qualora dovesse ritenere esistenti ‘imperfezioni’ nell’atto di nomina.
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Professioni e mestieri – Agronomi - Piani di assestamento - Collaudo tecnico-amministrativo - dottori agronomi e forestali - Sono competenti
E’ legittimo il decreto del Direttore generale settore politiche della montagna e della fauna selvatica della regione Liguria del 21 dicembre 2018, n. 3464 secondo il quale i piani di assestamento devono essere sottoposti a collaudo tecnico-amministrativo da parte di esperto libero professionista iscritto all’Albo dei dottori agronomi e forestali (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che la giurisprudenza costituzionale ha chiaramente affermato che compete al legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, individuare competenze ed attribuzioni di ciascuna categoria professionale, essenzialmente sulla scorta del principio di professionalità specifica, il quale richiede, per l’esercizio delle attività intellettuali rivolte al pubblico, un adeguato livello di preparazione e di conoscenza delle materie inerenti alle attività stesse (Corte cost. n. 441 del 2000; n. 5 del 1999; n. 456 del 1993; n. 29 del 1990). Per intendere le ragioni della differenza di disciplina tra distinti professionisti, la Corte ha sottolineato che assume rilievo il principio di professionalità specifica e che la garanzia del diritto al lavoro non comporta una generale ed indistinta libertà di svolgere qualsiasi attività professionale, spettando pur sempre al legislatore di fissare condizioni e limiti in vista della tutela di altri interessi parimenti meritevoli di considerazione e, più in particolare, di valutare, nell'interesse della collettività e dei committenti, i requisiti di adeguata preparazione occorrenti per l'esercizio dell'attività professionale.
In particolare, ha osservato la Corte che la preparazione dell’agrotecnico, secondo il bagaglio formativo che si desume dal previsto curriculum scolastico (decreto del Ministro della pubblica istruzione 15 aprile 1994, recante i programmi e gli orari di insegnamento per i corsi post-qualifica degli istituti professionali di Stato), e che si evince, altresì, dal programma di base per l’esame di Stato di abilitazione professionale (art. 18 del decreto del Ministro della pubblica istruzione del 6 marzo 1997, n. 176, avente ad oggetto il regolamento recante norme per lo svolgimento di detti esami di Stato), è rivolta prevalentemente agli aspetti economici e gestionali dell’azienda agraria. Pertanto, per la Corte, non è irragionevole la delimitazione delle competenze professionali degli agrotecnici (nel caso specifico si trattava di compiti inerenti all’attività catastale di frazionamento dei terreni) (Corte cost. 6 ottobre 2000, n. 441).
Quanto alla giurisprudenza amministrativa, più volte è stata affrontata la questione relativa ai confini delle rispettive competenze dei dottori agronomi e forestali e degli agrotecnici e agrotecnici laureati. È stato invero osservato che l'art. 2, della legge professionale n. 3 del 1976 non contiene una clausola di riserva esclusiva alla competenza dei dottori agronomi e forestali. Riserva che, d'altro canto, difficilmente potrebbe ipotizzarsi, attesa l'estrema latitudine e differenziazione delle competenze enucleate dalla previsione di legge, competenze che vanno dalla direzione e gestione delle imprese agrarie alla progettazione, direzione sorveglianza dei lavori relativi alle costruzioni rurali nonché alle operazioni di estimo, ai lavori ed incarichi relativi alla coltivazione delle piante, ai lavori catastali, alla valutazione e liquidazione degli usi civici, alle analisi fisico-chimico-microbiologiche del suolo, alle ricerche di mercato e alla progettazione dei lavori relativi al verde pubblico. Considerata l’ampiezza delle competenze dei dottori agronomi e forestali, si spiegano dunque le interferenze con quelle dei periti agrari nel settore della cura di boschi o foreste e con le competenze professionali di architetti ed ingegneri (art. 51, r.d. 23 ottobre 1925, n. 2537) nonché degli agrotecnici (art. 11, l. 6 giugno 1986, n. 251) (Cons. St., sez. V, 1 marzo 2017, n. 952).
L’orientamento espresso dal Consiglio di Stato (sez. V, 1 febbraio 2017, n. 426) è stato nel senso di ritenere che le competenze professionali degli agrotecnici in materia di “opere di trasformazione e miglioramento fondiario” non comprendono interventi di sistemazione forestale, rimboschimento o difesa del suolo.
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Professioni e mestieri
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Processo amministrativo – Covid-19 – Tutela cautelare - Decisione cautelare collegiale - Calendarizzata in periodo ricompreso fra il 6 e il 15 aprile 2020 - Differimento ope legis della camera di consiglio – Richiesto dall’appellante che ha ottenuto la tutela monocratica - Art. 84, comma 2, terzo periodo, d.l. n. 18 del 2020 – Esclusione.
La decisione cautelare collegiale calendarizzata in periodo ricompreso fra il 6 e il 15 aprile 2020, rientrante nel regime di cui al terzo periodo dell’art. 84, comma 2, d.l. n. 18 del 2020, non può essere rinviata su richiesta dell’appellante, atteso che il differimento ope legis della camera di consiglio è ammesso dal terzo periodo dell’art. 84, comma 2, d.l. n. 18 del 2020 in caso di richiesta di «una delle parti su cui incide la misura cautelare», e tale non è la stessa parte istante che ha ottenuto la tutela monocratica (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che diversamente opinando la stessa parte istante sarebbe ammessa a protrarre a proprio vantaggio - in conseguenza di richiesta unilaterale proveniente da sé - gli effetti favorevoli del decreto monocratico.
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Processo amministrativo
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Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento - Progettista incaricato ed indicato ai sensi dell’art. 53, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006 – Dubbio in giurisprudenza - Rimessione all’Adunanza plenaria.
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione relativa alla possibilità, nel caso in cui il contratto abbia per oggetto anche la progettazione, di supplire alla carenza di requisiti speciali nel progettista incaricato ed indicato ai sensi dell’art. 53, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006 mediante avvalimento (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che sull’ammissibilità dell’avvalimento in tale situazione, la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è pronunciato in modo difforme.
La sentenza della sez. V Sezione, 2 ottobre 2014, n. 4929, ha affermato che, in ordine agli artt. 49, 53 e 90, d.lgs. n. 163 del 2006 e dell’art. 92, d.P.R. n. 207 del 2010, l’avvalimento, in conformità alla sentenza CGUE, 10 ottobre 2013, in C-94-2012, si applica non ai soli concorrenti, ma a tutti gli operatori economici, tenuti a qualsiasi titolo a dimostrare il possesso dei requisiti in sede di gara.
Per contro, Cons. Stato, sez. III, 7 marzo 2014, n. 1072 ha ritenuto che il raggruppamento di professionisti non possa ricorrere all’avvalimento, poiché tale possibilità è riservata dall’art. 49, d.lgs. n. 163 del 2006 al solo operatore economico che domanda di partecipare alla gara e questo, se intende farvi ricorso, deve dichiarare il possesso dei requisiti da parte del soggetto ausiliario; inoltre, secondo Cons. Stato, sez. V, 1 ottobre 2012, n. 5161, per il ricorso all’avvalimento, l’art. 49, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, si riferisce, facendo parola di «concorrente», al solo operatore economico che domanda di partecipare alla gara, il quale deve dichiarare e allegare il possesso da parte del soggetto avvalso dei requisiti che, sommati ai suoi, integrano la prescrizione del bando.
Per consolidata giurisprudenza (Cons. Stato, sez. III, 7 marzo 2014, n. 1072), pur essendo pacifico il carattere generalizzato dell’avvalimento – strumentale alla massima partecipazione nelle gare di appalto e all’effettività della concorrenza per i principi eurocomuni – si tratta di un istituto deve essere comunque contemperato con l’esigenza di assicurare garanzie idonee alla stazione appaltante al fine della corretta esecuzione del contratto.
Perciò, la questione sostanziale consiste nello stabilire se il progettista indicato, nell’accezione e nella terminologia del citato art. 53, comma 3, possa ricorrere a un progettista terzo, utilizzando a sua propria volta l’avvalimento. In sostanza, se vi possa legittimamente essere, per un’offerta in gara, un duplice e consequenziale avvalimento di professionisti.
Il citato art. 53, comma 3, d.lg. n. 163 del 2006 stabilisce che «quando il contratto ha per oggetto anche la progettazione, ai sensi del comma 2, gli operatori economici devono possedere i requisiti prescritti per i progettisti, ovvero avvalersi di progettisti qualificati, da indicare nell’offerta, o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione. Il bando indica i requisiti richiesti per i progettisti, secondo quanto previsto dal capo IV del presente titolo (progettazione e concorsi di progettazione), e l’ammontare delle spese di progettazione comprese nell’importo a base del contratto».
La giurisprudenza, sopra richiamata, del Consiglio di Stato ha negato che il progettista “indicato” ai sensi di quella previsione possa a sua volta fare uso di avvalimento, regolato dall’art. 49. Infatti:
a) vi osta la lettera dell’art. 49, per il quale solo «il concorrente» singolo, consorziato o raggruppato può ricorrere all’avvalimento quale istituto di soccorso al concorrente in gara; sicché va escluso chi si avvale di soggetto ausiliario a sua volta privo del requisito richiesto dal bando;
b) il fatto che, se già il progettista indicato non è legato da un vincolo negoziale con la stazione appaltante, a maggior ragione non ne è legato il suo ausiliario, il quale è un terzo che per la sua posizione non può offrire garanzie all’Amministrazione: invero, solo il concorrente che va a stipulare il contratto va ad assumere obblighi contrattuali con l’amministrazione appaltante: e l’ausiliario, per l’art. 49, comma 2, lett. d), si obbliga verso il concorrente e la stazione appaltante a mettere a disposizione le risorse necessarie che mancano al concorrente, mediante apposita dichiarazione; inoltre l’ausiliario diviene ex lege responsabile in solido con il concorrente per le prestazioni oggetto del contratto (art. 49, comma 4) e la responsabilità solidale, che è garanzia di buona esecuzione dell’appalto, può sussistere solo sulla base che l’impresa ausiliaria sia collegata contrattualmente al concorrente, al segno che l’art. 49 prescrive l’allegazione, già con la domanda di partecipazione, del contratto di avvalimento.
Inoltre, dall’art. 53, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006 si evince che la norma statuisce che il progettista qualificato, del quale l’impresa concorrente intenda “avvalersi” in alternativa alla costituzione di un’A.T.I., va solo indicato, senza prescrivere che debbano anche prodursi le dichiarazioni dell’art. 49 per l’avvalimento, e imposte all’impresa ausiliaria (dichiarazione dell’impresa avvalente di impegno a mettere a disposizione dell’impresa avvalsa le risorse necessarie all’esecuzione del contratto; dichiarazione dell’impresa avvalente di non partecipare alla gara in proprio o quale associata o consorziata e di non trovarsi in situazioni di controllo ex art. 34, comma 2 con altra impresa contestualmente partecipante alla gara, ecc.) o all’impresa partecipante avvalsa (contratto di avvalimento intercorso con l’impresa ausiliaria avvalente).
Da ciò sembra discendere che, nel caso del sistema di selezione costituito dall’appalto integrato, il progettista prescelto dall’impresa partecipante e indicato alla stazione appaltante non assuma la qualità di concorrente: questa spetta solo all’impresa concorrente, e il primo resta solo un collaboratore esterno, la cui posizione non ha diretto rilievo con l’Amministrazione appaltante.
Se poi è lo stesso progettista indicato a ricorrere a sua volta a requisiti posseduti da terzi, si avrebbe in sostanza una catena di avvalimenti di “ausiliari dell’ausiliario”: il che non solo amplifica la carenza di rapporto diretto verso l’amministrazione appaltante: ma è anche è di ostacolo, a tutto concedere, a un agevole controllo da parte della stazione appaltante sul possesso dei requisiti dei partecipanti (Cons. Stato, sez. III, 1 ottobre 2012, n. 5161, che rileva che, trattandosi di un istituto di soccorso al concorrente in gara, è da escluderne l’applicabilità all’impresa ausiliaria a sua volta priva dei requisiti, altrimenti si avrebbe una catena di avvalimenti di ausiliarie dell’ausiliaria tale da ostacolare quel controllo agevole sul possesso dei requisiti).
Nella stessa prospettiva, la giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 13 marzo 2014, n. 1251) ha affermato che l’avvalimento è già una deroga al principio di personalità dei requisiti di partecipazione alla gara, sicché va permesso solo in ipotesi delineate rigorosamente, per garantire l’affidabilità, in executivis, del soggetto concorrente. Ne segue che sarebbe irrinunciabile la sussistenza di un rapporto diretto e immediato tra l’ausiliario e l’ausiliato, legati da vincolo di responsabilità solidale per l’intera prestazione dedotta nel contratto.
La fattispecie di avvalimento a cascata non sarebbe, perciò, permessa, giacché elide quel necessario rapporto diretto tra ausiliaria e ausiliata, così allungando e indebolendo la catena giuridica che legai vari soggetti, con riflessi effetti evidenti in punto di responsabilità solidale, per il soggetto ausiliato riguardo al soggetto ausiliario munito in via diretta dei requisiti da concedere.
Nondimeno, in generale, per la giurisprudenza eurounitaria l’avvalimento si applica non ai soli concorrenti, ma a tutti gli operatori economici, tenuti a qualsiasi titolo a dimostrare il possesso dei requisiti in gara. Il che ha talora indotto ad optare per orientamento più permissivo (Cons. Stato, sez. V, 2 ottobre 2014, n. 4929 cit.).
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Urbanistica - Piani insediamenti produttivi – Attuazione - Convenzioni accessive – Finalità.
Urbanistica - Piani insediamenti produttivi – Attuazione - Convenzioni accessive - Possibilità di inserire sanzioni – Operatività della decadenza dalla proprietà.
I Piani per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) costituiscono uno dei primi esempi codificati di strumento urbanistico la cui attuazione è rimessa in larga parte allo strumento convenzionale accessivo; attraverso gli stessi, previsti dall’art. 27, l. n. 865 del 1971, i Comuni dotati di piano regolatore o di programma di fabbricazione, oltre ad imprimere un regime giuridico lato sensu “produttivo” ad una determinata zona, garantiscono l’accesso alle aree ivi comprese ad operatori economici che le devono utilizzare in funzione dello stesso, prevedendo che all’atto della concessione dei lotti, in proprietà o in superficie, nella percentuale normativamente data, venga siglata una convenzione finalizzata allo scopo (1).
L’inadempimento agli obblighi assunti con la convenzione, riconducibile al modello della concessione-contratto, può comportare il ricorso ai normali rimedi civilistici, giusta il rinvio contenuto al riguardo nell’art. 11, comma 2, della l.n.241 del 1990, laddove si afferma che «si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili». E’ altresì possibile che ne consegua l’irrogazione di sanzioni, per lo più di natura pecuniaria. La decadenza, espressamente prevista quale sanzione con riferimento alle convenzioni accessive ai Piani per l’edilizia economica e popolare (P.E.E.P., di cui all’art. 35 della l.n. 865 del 1971), in quanto tuttavia riferita al diritto di superficie, non alla proprietà, in ragione della sua particolare afflittività può essere irrigata solo se prevista nel modello di convenzione approvato dal Consiglio comunale unitamente all’atto di pianificazione, e per quegli obblighi che siano individuati come strettamente funzionali all’obiettivo di politica, anche economica, sotteso all’atto di governo del territorio (2).
1) I Piani per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) costituiscono uno dei primi esempi “codificati” di quella che è stata poi qualificata genericamente come “edilizia convenzionata”, di fatto estendendo per utilità linguistica la definizione all’epoca contenuta nella rubrica dell’art. 7 della legge 28 febbraio 1977, n. 10, che in verità faceva esclusivo riferimento agli accordi siglati con il richiedente un titolo edilizio con finalità residenziale per calmierare preventivamente i futuri canoni di locazione o prezzi di vendita degli immobili relativi. La loro peculiarità risiede nella necessità per attuarli di operare un trasferimento di proprietà da soggetti privati a soggetti imprenditori, che vengono “privilegiati” rispetto ai primi nella misura in cui compartecipano alla finalità di riordino, ma anche di sviluppo in termini di attrattività economica del territorio (per la classificazione dei P.I.P. innanzi tutto quale strumento di politica economica, cfr., inter alia, Cons. Stato, sez. IV, 11 giugno 2015, n. 2878; id., 5 marzo 2015, n. 1125; 13 febbraio 2020 n. 1158; sez. V, 15 gennaio 2020 n. 377; sez. II, 15 luglio 2019 n. 4961; nonché Cass. civ., sez. un., 26 marzo 2019, n. 8415). Il beneficio collettivo che deriva da tali scelte di politica economica, prima e oltre che urbanistica, diviene la cartina di tornasole della corretta comparazione tra interessi in gioco, tutti egualmente garantiti. L’assegnazione dei lotti in proprietà o la concessione in uso a prezzi inferiori a quelli di mercato costituisce dunque uno strumento di promozione mediante abbattimento di costi, con effetto economicamente equivalente ad un incentivo finanziario per la realizzazione di stabilimenti produttivi. In tal modo l’ordinamento realizza «un razionale e soddisfacente punto di equilibrio tra la tutela del diritto della proprietà privata e il sostegno alle produzioni economiche che creano posti di lavoro, redditi e ricchezza, non allo scopo di discriminare il proprietario terriero rispetto all’imprenditore, né di impoverire i bilanci degli enti locali, bensì all’unica finalità di conformare in senso sociale e redistributivo le ricchezze, consentendo il fruttuoso utilizzo di fondi altrimenti inutilizzati o utilizzati per scopi non produttivi o, comunque, per scopi non idonei ad assicurare l’incremento di ricchezza del territorio in generale» (Cons. Stato, sez. IV, 4 marzo 2021, n. 1864).
(2) Il doppio limite all’applicabilità delle disposizioni civilistiche contenuto nell’art. 11, comma 2, l. n. 241 del 1990, ne implica l’operatività non solo ove non sia diversamente previsto, ma anche avuto riguardo a disposizioni comunque compatibili con la disciplina degli accordi. La causa della convenzione urbanistica accessiva ad un P.I.P., e cioè l’interesse che l’operazione contrattuale è diretta a soddisfare, in particolare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale della convenzione, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione. L’unico modo per individuare il giusto punto di equilibrio tra esigenze di effettività del procedimento di pianificazione e modalità negoziale di regolamentazione dei rapporti può essere individuato nella stretta compenetrazione dell’una nelle altre, presidiando - e quindi di fatto perseguendo - con maggior rigore solo quei comportamenti che minano alla radice la fattibilità dell’intervento, perché inerti, tardivi, ovvero, appunto, “sviati” dalla causa. L’inerzia o il ritardo nell’attivarsi da parte di un’impresa assegnataria va contro alla ratio della pianificazione, da svilupparsi nella tempistica stabilita per le varie iniziative, al fine di realizzare concretamente le finalità pubbliche ad essa sottese. Egualmente non può non essere escluso in radice (e quindi “sanzionato”), alla luce dei plurimi interessi collettivi che sottendono l’assegnazione dei lotti di cui si compone il P.I.P., qualsiasi intento speculativo, di carattere eminentemente privato, che le imprese stesse intendano eventualmente perseguire in assenza della realizzazione degli obiettivi pubblicistici per i quali l’assegnazione in loro favore è stata disposta. Vuoi che si introduca una specifica sanzione (la decadenza, appunto), vuoi che si utilizzi il rimedio civilistico della risoluzione per inadempimento, spetta comunque all’amministrazione procedente indicare espressamente nella convenzione-tipo i comportamenti “devianti” con riferimento ai quali non è sufficiente l’irrogazione di una sanzione pecuniaria, comunque ricondotta alla violazione di singoli obblighi. L’inserimento di “sanzioni”, infatti, che la legge (art. 27 della l. n. 865 del 1971) sembra limitare a quelle di natura pecuniaria, trova nella legge primaria la sua fonte di legittimazione, seppure il contenuto specifico delle condotte illecite venga demandato, mediante un meccanismo di rinvio che richiama, mutatis mutandis, quello delle norme penali in bianco, al livello sinallagmatico. Da qui la portata determinante, ai fini della legittimità della sanzione stessa, della regolamentazione generale dell’operazione, non a caso comprensiva dell’approvazione dello schema del successivo contratto. Tra le violazioni rilevanti ai fini della risoluzione per inadempimento o della irrogazione della decadenza, di regola non può rientrare il mancato pagamento degli oneri concessori, stante che «quand’anche risultino trasfuse in apposita convenzione urbanistica, le prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica. […] infatti, l’amministrazione è tenuta ad eseguire le opere di urbanizzazione ed a dotare degli indispensabili standard il comparto ove viene allocato il nuovo insediamento edilizio a prescindere dal puntuale pagamento del contributo di costruzione da parte del soggetto che abbia ottenuto il titolo edilizio; per parte sua, questi è tenuto al pagamento del contributo senza poter pretendere la previa realizzazione delle opere di urbanizzazione» (ancora A.P., n. 24 del 2016).
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Urbanistica
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Processo amministrativo – Interruzione del giudizio – Riassunzione e prosecuzione – Termine.
Il termine per la prosecuzione e la riassunzione del processo interrotto è quello di novanta giorni, di cui all'art. 80, comma 3, c.p.a., in quanto l'art. 80 detta una disciplina autonoma e unitaria individuando un unico termine per entrambe le ipotesi, con la conseguenza che a tali istituti non sono applicabili le disposizioni del codice di procedura civile (1).
(1) Ha chiarito la sezione che l’art. 80, co. 2, cod. proc. amm. – secondo cui è facoltà della parte nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo di proseguire il giudizio presentando una nuova istanza di fissazione dell’udienza – ha introdotto una modalità semplificata per tale parte, a differenza del terzo comma dello stesso articolo 80, che pone “a cura della parte più diligente” l’onere di riassumere secondo le diverse modalità ivi prescritte, fermo restando il termine di novanta giorni previsto per tutte le parti, come del resto confermato proprio dall’inciso su riportato riferito a tutte le parti del giudizio (“a cura della parte più diligente”).
E’ stato osservato che nel nuovo codice del processo amministrativo la disciplina dell’estinzione, della prosecuzione e della riassunzione del giudizio ha acquisito carattere di autonomia, avendo trovato nell’art. 80 una unitaria e compiuta regolamentazione, in coerenza con le esigenze di celerità che lo caratterizzano stante la tutela degli interessi pubblici coinvolti, come da principi espressi dal Consiglio di Stato con le decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3/2010 e n. 28/2014 (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, ord. 30 aprile 2015, n.2193).
Si è, pertanto, ritenuta non più applicabile al processo amministrativo la disciplina degli istituti della prosecuzione e della riassunzione stabilita dal codice di procedura civile, tenuto conto che l’articolo 39 cod. proc. amm. stabilisce che le disposizioni del codice di procedura civile si applicano solo per quanto non disciplinato dal codice del processo amministrativo, e inoltre in quanto compatibili o espressione di principi generali; indiretta conferma, sul piano sistematico, dell’insussistenza di una lacuna – e della coerenza interna dell’autonoma e completa disciplina contenuta nell’art. 80 anche per quanto attiene all’unico termine di novanta giorni per la prosecuzione/riassunzione – è la circostanza per cui la (presunta) lacuna sarebbe colmata con il rinvio ad una disposizione che introdurrebbe, in maniera distonica, il diverso termine di tre mesi (i.e: l’art. 305 cod. proc. civ.).
A chiusura del sistema, del resto, il codice del processo amministrativo, entrato in vigore in data successiva alla l. n. 69/2009, contiene un’unica disposizione transitoria nell’art. 2 dell’Allegato 3, riferita esclusivamente ai termini in corso alla data di entrata in vigore del nuovo codice (“Per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti”).
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Processo amministrativo
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Informativa antimafia – Presupposti – Persona vicina alla locale cosca mafiosa e al mondo dello spaccio di stupefacenti – Legittimità.
E’ legittima l’interdittiva antimafia che si basi su una sola figura se attorno alla stessa si concentrano una serie di elementi, quali la vicinanza con soggetti controindicati nonché, attraverso questi e attraverso la figura della compagna convivente, il mondo dello spaccio di stupefacenti, nonché la vicinanza ad una locale cosca mafiosa (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che non rileva se tale figura controindicata non sia più l’amministratore unico della società.
Come insegna una costante giurisprudenza di questa Sezione (2 maggio 2019, n. 2855) alcune operazioni societarie possono disvelare una attitudine elusiva della normativa antimafia ove risultino in concreto inidonee a creare una netta cesura con la pregressa gestione subendone, anche inconsapevolmente, i tentativi di ingerenza (Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6707; 7 marzo 2013, n. 1386).
Contrariamente a quanto afferma il giudice di primo grado, tale operazione, se collegata alla persona controindicata, assume un significato pregnante, stante gli ulteriori elementi che rendono “più probabile che non” la sua cointeressenza con gli ambienti della criminalità organizzata.
Aggiungasi la rilevanza che assume la frequentazione con soggetti controindicati ai fini antimafia, tutt’altro che generica, essendo ben individuati nella nota della legione Carabinieri i nominativi e i carichi penali.
No rileva neanche il carattere non attuale di alcuni episodi.
Come chiarito dalla Sezione (21 gennaio 2019, n. 515), il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della ‘risalenza’ dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l'impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della mafiosità.
E’ evidente che il momento in cui l’interdittiva è adottata non fotografa l’inizio della vicinanza della società agli ambienti della criminalità organizzata, che possono trovare la loro genesi anche in epoca di gran lunga antecedente.
In conclusione, la legittimità del provvedimento interdittivo si fonda sul principio secondo cui i fatti valorizzati dal provvedimento prefettizio devono essere valutati non atomisticamente, ma in chiave unitaria, secondo il canone inferenziale – che è alla base della teoria della prova indiziaria - quae singula non prosunt, collecta iuvant, al fine di valutare l’esistenza o meno di un pericolo di una permeabilità della struttura imprenditoriale a possibili tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzata, secondo la valutazione di tipo induttivo che la norma attributiva rimette al potere cautelare dell’amministrazione.
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Informativa antimafia
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Agricoltura – Quote latte – Latte inutilizzato - Riassegnazione dei quantitativi di riferimento – Criterio.
E’ illegittima la quota di riassegnazione dei quantitativi di riferimento di latte inutilizzati che non sia stata effettuata, tra i produttori che hanno superato i propri quantitativi di riferimento, in modo proporzionale ai quantitativi di riferimento a disposizione di ciascun produttore (1).
(1) La Sezione ha richiamato, a supporto delle conclusioni alle quali è pervenuto, la sentenza della Corte di U.E., sez. VII, che, con la decisione del 27 giugno 2019, in ordine al quesito di questo Consiglio: «Se l’articolo 2, paragrafo 1, del regolamento [n. 3950/92] debba essere – anche alla luce di quanto già motivato dalla [] nella sentenza 5 maggio 2011, Kurt und Thomas Etling e a. [(C-230/09 e C-231/09, …], in relazione all’articolo 10, paragrafo 3, del regolamento [n. 1788/2003] – interpretato nel senso che la riassegnazione della parte inutilizzata del quantitativo di riferimento nazionale destinato alle consegne possa essere effettuata secondo criteri obiettivi di priorità fissati dagli Stati membri, ovvero se esso debba essere interpretato nel senso che tale fase perequativa debba essere governata da un esclusivo criterio di proporzionalità».
La ha affermato:
“Inoltre, risulta dall’articolo 2, paragrafo 1, secondo comma, del regolamento n. 3950/92, nonché dall’articolo 3, paragrafo 3, del regolamento n. 536/93 che lo Stato membro dispone della facoltà di procedere alla riassegnazione dei quantitativi di riferimento inutilizzati alla fine del periodo, o a livello nazionale, direttamente ai produttori interessati, o a livello degli acquirenti affinché detti quantitativi vengano ripartiti tra i produttori in questione.
36. Tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto dal governo italiano, l’articolo 2, paragrafo 1, secondo comma, del regolamento n. 3950/92, pur concedendo agli Stati membri la facoltà di riassegnare i quantitativi di riferimento inutilizzati alla fine del periodo, non li autorizza a decidere in base a quali criteri tale riassegnazione debba essere effettuata.
37. Infatti, risulta dalla formulazione stessa della disposizione suddetta che, qualora uno Stato membro decida di procedere alla riassegnazione dei quantitativi di riferimento inutilizzati, tali quantitativi vengono ripartiti in modo «proporzionale ai quantitativi di riferimento a disposizione di ciascun produttore»”.
In più, la ha inteso smentire l’argomentazione italiana, sottolineando che “38. L’argomento del governo italiano, secondo cui la disposizione summenzionata non stabiliva nulla circa i criteri della riassegnazione stessa e menzionava il criterio proporzionale soltanto ai fini di regolare i calcoli che l’acquirente avrebbe dovuto operare qualora fosse spettato a lui applicare il prelievo a carico dei produttori, è espressamente contraddetto dalla giurisprudenza della .
39. Infatti, la ha già statuito che risulta chiaramente da tutte le versioni linguistiche dell’articolo 2, paragrafo 1, secondo comma, del regolamento n. 3950/92 che è senz’altro la ripartizione dei quantitativi di riferimento inutilizzati, vale a dire la riassegnazione di tali quantitativi, a dover essere effettuata in modo «proporzionale ai quantitativi di riferimento a disposizione di ciascun produttore» e che il contributo dei produttori al pagamento del prelievo dovuto è, quanto ad esso, stabilito in base al superamento del quantitativo di riferimento di cui dispone ciascun produttore (sentenza del 5 maggio 2011, Kurt und Thomas Etling e a., C-230/09 e C-231/09, EU:C:2011:271, punto 64).
40. L’articolo 2, paragrafo 1, secondo comma, del regolamento n. 3950/92 stabilisce dunque un criterio in base al quale deve essere effettuata la riassegnazione dei quantitativi di riferimento inutilizzati. Così, dato che tale disposizione non menziona nessun altro criterio, né rinvia alla competenza degli Stati membri per stabilire criteri che siano loro propri, il suddetto criterio di ripartizione proporzionale deve essere considerato come il solo in base al quale deve essere effettuata la riassegnazione dei quantitativi di riferimento inutilizzati.
41. Tale interpretazione è confermata dal contesto nel quale si inserisce l’articolo 2, paragrafo 1, secondo comma, del regolamento n. 3950/92. Infatti, la possibilità di procedere, nel quadro dell’applicazione di tale disposizione, alla riassegnazione dei quantitativi di riferimento inutilizzati secondo altri criteri non può essere desunta dall’articolo 2, paragrafo 4, del regolamento summenzionato.
42. Risulta dall’articolo 2, paragrafo 4, del regolamento n. 3950/92, come pure d’altronde dal sesto considerando del regolamento n. 536/93, che, qualora uno Stato membro abbia giudicato opportuno non operare nel proprio territorio una riassegnazione totale di quantitativi di riferimento inutilizzati, esso può, qualora il prelievo sia dovuto e l’importo riscosso sia superiore, destinare l’eccedenza riscossa al finanziamento delle misure di cui all’articolo 8, primo trattino, del regolamento n. 3950/92 e/o rimborsarla ai produttori che rientrano in categorie prioritarie stabilite dallo Stato membro in base a criteri obiettivi da determinarsi o che si trovano confrontati ad una situazione eccezionale risultante da una disposizione nazionale non avente alcun nesso con tale regime. Gli Stati membri individuano le categorie prioritarie in base ad uno o più criteri obiettivi, previsti dall’articolo 5 del regolamento n. 536/93, elencati in ordine di priorità.
43. La facoltà di riassegnare la totalità o una parte dei quantitativi di riferimento inutilizzati, prevista dall’articolo 2, paragrafo 1, secondo comma, del regolamento n. 3950/92, e la facoltà, di cui uno Stato membro può avvalersi qualora non proceda ad una riassegnazione totale dei quantitativi inutilizzati, di decidere di rimborsare o no ai produttori l’eccedenza del prelievo riscossa, in conformità dell’articolo 2, paragrafo 4, del regolamento n. 3950/92, obbediscono a logiche differenti.
44. Infatti, da un lato, l’articolo 2, paragrafo 1, del regolamento n. 3950/92 mira a diminuire proporzionalmente il superamento dei quantitativi di riferimento dei produttori, al fine di ridurre anche il contributo di questi ultimi al prelievo dovuto. Invece, dall’altro lato, l’articolo 2, paragrafo 4, del citato regolamento si propone di determinare la destinazione dell’importo del prelievo riscosso in eccesso, prevedendo che il rimborso di tale eccedenza, ove questo venga deciso da uno Stato membro, venga effettuato a beneficio dei produttori che rientrano in categorie prioritarie, stabilite secondo i criteri obiettivi previsti dalla Commissione.
45. A motivo della diversità delle logiche sottese ai meccanismi previsti, rispettivamente, dall’articolo 2, paragrafo 1, secondo comma, e dall’articolo 2, paragrafo 4, del regolamento n. 3950/92, la rilevanza, ai fini dell’applicazione della prima di queste disposizioni, dei criteri stabiliti dalla seconda di esse non può essere presunta e potrebbe discendere soltanto da un esplicito riferimento in tal senso nel regolamento. Orbene, né il regolamento n. 3950/92 né il regolamento n. 536/93 prevedono l’applicazione di detti criteri nell’ambito dell’attuazione dell’articolo 2, paragrafo 1, secondo comma, del regolamento n. 3950/92.
46. Quanto agli argomenti del governo italiano relativi all’articolo 10, paragrafo 3, del regolamento n. 1788/2003, occorre constatare come tale disposizione preveda che la riassegnazione della parte inutilizzata del quantitativo di riferimento nazionale destinato alle consegne debba essere effettuata proporzionalmente al quantitativo di riferimento individuale di ciascun produttore che abbia effettuato consegne in eccesso, oppure in base a criteri obiettivi da stabilirsi a cura degli Stati membri (v., in tal senso, sentenza del 5 maggio 2011, Kurt und Thomas Etling e a., C-230/09 e C-231/09, EU:C:2011:271, punto 79).”.
Conseguentemente la ha respinto la tesi prospettata dallo Stato italiano circa l’indifferenza dell’utilizzazione di altri criteri rispetto ai principi eurounitari di proporzionalità, di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento.
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Agricoltura
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Agricoltura – Contributi - Abbandono di terre nelle zone montane – Rideterminazione annualità 2018 – Legittimità.
É legittimo il provvedimento con cui l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA) ha rideterminato nel 2018 gli importi ammessi a pagamento per “abbandono di terre (zone montane)”, applicando una riduzione percentuale del 27,50 per cento delle domande ammesse a pagamento nel 2015 e nel 2016, e ha disposto il recupero degli importi eccedenti. Il provvedimento costituisce applicazione del regolamento (UE) n. 1307/2013 e del regolamento (UE) n. 809/2014, che impongono plafond massimi di spesa per i regimi di aiuto e contemplano ipotesi di riduzioni lineari, con riferimento sia al valore dei diritti all’aiuto (titoli PAC) sia agli importi dei pagamenti erogati ai beneficiari, qualora ciò si renda necessario per non violare il plafond di spesa o per consentire l’accesso ai titoli PAC e ai relativi pagamenti ad agricoltori che, altrimenti, sarebbero esclusi dagli aiuti in ragione delle limitate risorse disponibili per lo Stato membro (1)
(1) Ha chiarito la Sezione che la normativa europea per il periodo di programmazione 2015-2020 ha introdotto la possibilità del ricalcolo del numero e del valore dei titoli assegnati agli agricoltori, in funzione del rispetto dei plafond di ciascun regime/misura, della parità di trattamento tra gli agricoltori e per evitare distorsioni del mercato e della concorrenza (articolo 30, paragrafo 4, del regolamento (UE) n. 1307/2013, che conferisce espressamente priorità all’assegnazione dei titoli PAC destinati ai giovani agricoltori e agli agricoltori che iniziano a esercitare l’attività agricola). Il ricalcolo in riduzione, preannunciato con circolare AGEA del 4 ottobre 2017, per le fattispecie “abbandono di terre” e “compensazione di svantaggi specifici”, consegue pertanto a quanto imposto dalle disposizioni europee, sia con riguardo all’importo complessivo sia ai singoli profili relativi al ricalcolo per la campagna 2015 e per quella 2016.
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Agricoltura
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Giurisdizione – Ordinamento giudiziario – Magistrato collocato a riposo per limiti di età - Permanenza al C.S.M. – Diniego – Impugnazione – Giurisdizione Ago.
Rientra nella giurisprudenza del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la delibera con la quale il Consiglio superiore della Magistratura ha dichiarato la decadenza di un componente togato dopo il suo collocamento a riposo per raggiunti limiti di età (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che il perimetro della giurisdizione del giudice amministrativo (fuori dalle ipotesi in cui, per espressa indicazione di legge, gli è attribuita, in via esclusiva, anche la tutela ratione materiae di posizioni di diritto soggettivo: caso che qui non ricorre perché si è al di fuori dell’ipotesi dell’art. 133, comma 1, lett. i), c.p.a., cioè delle “controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico”, non essendo fatta questione del rapporto di lavoro dell’interessato) è individuato dall’art. 7 c.p.a. con il richiamo alle “controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi”, tali essendo quelle “concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo”.
Dando positiva attuazione all’art. 103 Cost. e recependo i più maturi esiti della elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria, la regola (che figura e scolpisce un criterio discretivo della giurisdizione direttamente affidato alla causa petendi, cioè, appunto, alla intrinseca natura della situazione soggettiva dedotta in giudizio) individua il nesso tra potere amministrativo ed interesse legittimo, orientando all’esatto intendimento di quest’ultimo in termini di situazione soggettiva dinamica, attivamente orientata alla conservazione o alla acquisizione di beni della vita, in contesti relazionali non paritari, a connotazione per l’appunto “potestativa”.
La stessa disposizione chiarisce peraltro (a superamento della tradizionale struttura meramente impugnatoria del giudizio amministrativo) che non è essenziale al radicamento della giurisdizione amministrativa che l’oggetto immediato della controversia concerna atti (e, più specificamente, provvedimenti: cfr. ancora l’art. 113 Cost.), essendone piuttosto condizione necessaria (ma anche sufficiente) la manifestazione di un potere amministrativo.
Il nesso tra potere amministrativo e interesse legittimo va precisato alla luce della asimmetria di posizioni sussistente, in base alla norma attributiva del potere, tra il decisore pubblico e i destinatari dell’attività amministrativa.
Nel caso di specie, la questione si risolve nel quesito se la determinazione assunta dal Consiglio Superiore della Magistratura, che ha inteso dichiarare la “cessazione dalla carica” dell’appellante, consista in un (vero e proprio) “provvedimento amministrativo” (motivato ed elaborato frutto di una determinazione volitiva intesa a privilegiare, in chiave autoritativa, un determinato assetto dei confliggenti interessi, in concreto sfavorevoli all’appellante) ovvero un “mero atto” paritetico (con funzione di vincolato “accertamento” di un effetto decadenziale, discendente dal paradigma normativo, così come concretamente interpretato).
Ha aggiunto la Sezione che in quanto frutto di mera attività ricognitiva della volontà di legge e puramente intesa all’automatica applicazione della stessa, la decisione (che si muove, allora, secondo lo schema dinamico norma-fatto-dichiarazione-effetto) non rappresenta l’esercizio di un potere (e, tanto meno, di un potere pretesamente “discrezionale”: essendovi, con ogni evidenza, estraneo l’apprezzamento comparativo di “interessi” in conflitto) e non concreta manifestazione di autoritatività, rientrando nella attività (vincolata) di “verifica” della sussistenza dei requisiti legalmente necessari per il mantenimento della carica, ivi compresi quelli costituenti un prius logico del diritto di elettorato passivo.
Non si tratta, perciò, di un provvedimento amministrativo, ma di mero atto ricognitivo: il quale, incidendo sulla pretesa alla continuazione nel munus elettivo ed alla permanenza del relativo incarico, non ne comprime (di là dalla sua legittimità contenutistica, che è questione di merito che non è concesso vagliare nella presente sede), la consistenza di diritto soggettivo.
Non cambia dunque le cose, e la natura giuridica, il dato che l’atto contestato segua un’ampia discussione consiliare e recepisca una motivazione: il pur ricco apparato argomentativo rappresenta un mero supporto “giustificativo” della ricognizione di legge effettuata, a fronte della pluralità di opinamenti emersi in sede di dibattito.
Le riassunte conclusioni trovano conforto nell’orientamento del giudice della giurisdizione, che ha costantemente affermato che il diritto all’elettorato passivo (che rileva nella sua duplice portata genetica e funzionale: di diritto alla acquisizione,non meno che alla conservazione dello status elettivo) costituisce un diritto soggettivo perfetto, che non è sottratto alla giurisdizione ordinaria per il solo fatto che sia stato dedotto in giudizio mercé l’impugnazione di un apparente provvedimento amministrativo (si tratta, in realtà, come chiarito, di mero atto: non sussiste la giurisdizione del giudice ordinario benché sia stato adottato un provvedimento, ma proprio perché un provvedimento in realtà non c’è): cfr. ex permultis, Cass., SS.UU., 28 maggio 2015, n. 11131; Id., 26 maggio 2017, n. 13403; Id., 27 luglio 2015, n. 15691; Id. 6 aprile 2012, n. 5574, nonché Cons. Stato, V, 15 luglio 2013, n. 2836 (questa giurisprudenza, costante per gli organi amministrativi, vale anche per un organo di alta amministrazione, seppure di rilievo costituzionale, come il C.S.M.).
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Giurisdizione
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Contratti della Pubblica amministrazione – qualificazione – categoria lavori – incremento del quinto – presupposti – individuazione – quesito – rimessione all’Adunanza plenaria.
Viene sottoposto all'esame dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 99, co. 1, c.p.a., il seguente quesito: se l’art. 61, comma 2 del D.P.R. n. 207/2010 – nella parte in cui prevede, quale condizione per l’attribuzione, ai fini della qualificazione per la categoria di lavori richiesta dalla documentazione di gara, del beneficio dell’incremento del quinto, che ciascuna delle imprese concorrenti in forma di raggruppamento temporaneo, il presupposto della sussistenza, per ciascuna delle imprese aggregate, di una qualificazione “per una classifica pari ad almeno un quinto dell'importo dei lavori a base di gara” – si interpreti, nella specifica ipotesi di partecipazione come raggruppamento c.d. misto, nel senso che tale importo a base di gara debba, in ogni caso, essere riferito al valore complessivo del contratto ovvero debba riferirsi ai singoli importi della categoria prevalente e delle altre categorie scorporabili della gara (1).
1.Osserva il Collegio che la questione, come emerge con evidenza dalle considerazioni che precedono, riguarda il trattamento da riservare, ai fini della qualificazione, alle imprese che concorrano nella forma aggregata diversa dal raggruppamento orizzontale (in cui oggettivamente unitaria e qualitativamente omogenea è la prestazione destinata ad essere eseguita, sia pure con modalità soggettivamente frazionate) e, segnatamente, di tipo c.d. misto. È noto, infatti, che, relativamente al settore dei lavori: a) i raggruppamenti “orizzontali” sono costituiti da imprese riunite per realizzare un appalto unitario, caratterizzato da un’unica lavorazione (e, quindi, da un’unica categoria richiesta: cfr. art. 48, comma 1, seconda parte d.lgs. n. 50/2016)), essendo esse portatrici delle medesime competenze per l’esecuzione delle prestazioni oggetto dell’appalto; b) per contro, i raggruppamenti “verticali” sono riunioni di imprese in cui uno degli operatori economici interessati è chiamato ad eseguire i lavori della “categoria prevalente”, mentre gli altri sono preposti all’esecuzione delle (distinte) “categorie scorporabili” (art. 48, comma 1, prima parte d.lgs. cit.); c) infine, i raggruppamenti cc.dd. “misti” consistono in una associazione verticale al cui interno sono presenti – in ragione della eterogeneità dei
lavori oggetto dell’affidamento, in cui vengono in rilievo una pluralità di diverse categorie di lavorazioni oltre alla prevalente – sub-raggruppamenti orizzontali (art. 48, comma 6, ad finem d.lgs. cit.). La peculiarità dei raggruppamenti misti è data dalla circostanza che (così come i raggruppamenti verticali) ogni singola impresa non è tenuta ad intervenire nell’ambito di tutte le diverse lavorazioni previste dal bando di gara, ma può essere indicata anche per una sola di esse, ed anche in via parziale, ed è responsabile esclusivamente di quelle assunte in proporzione e nei limiti della sua quota di partecipazione al raggruppamento (cfr. art. 48, comma 5). Tali forme di raggruppamento – di cui è palese la finalità complessivamente proconcorrenziale, di rilievo anche in prospettiva eurocomune, il che sta anche a fondamento, come si è visto, del riconoscimento di un vantaggio premiale nella spendita dei requisiti di qualificazione – hanno trovato spazio nel sistema dei contratti pubblici solo in una fase abbastanza avanzata della legislazione, allorché la possibilità di costituire raggruppamenti orizzontali per l’esecuzione di lavori rientranti nella categoria prevalente o in una delle scorporabili è stata positivamente prevista dall’art. 7, comma 1, lettera f), della legge n. 166 del 2002. A fronte di ciò, l’art. 61, comma 2, del D.P.R. n. 207 del 2010 si è, per parte sua, limitato a riprodurre, invariata, la identica previsione del previgente art. 3, comma 2, del D.P.R. n. 34 del 2000 (approvata, per l’appunto, quando tale eventualità non era contemplata). In definitiva, la previsione ha continuato tralatiziamente ad operare, immutata nel tempo, senza essere integrata o novellata per adeguare la tipologia dei raggruppamenti temporanei di imprese al modello di tipo misto. In tale prospettiva (ed in ciò si incentra e riassume il problema esegetico), mentre il riferimento parametrico all’“importo dei lavori a base di gara” non presentava, nella sua rigidità, alcuna difficoltà in un sistema in cui era contemplata la sola figura dei raggruppamenti orizzontali – e ciò in ragione del rilievo che, in tal caso, il contratto da affidare prevede l’esecuzione di una singola ed unitaria prestazione, il cui importo non potrebbe, in definitiva, che corrispondere a quello posto a base di gara – nella situazione attuale, in cui sono ammessi, accanto ai raggruppamenti verticali, anche raggruppamenti misti, che implicano sub-raggruppamenti orizzontali in un contesto di frazionamento verticale delle prestazioni, la regola diventa incoerente, e genera gli esiti indesiderabili e contraddittori ben evidenziati, in premessa, da C.G.A.R.S., sez. I, 11 aprile 2022, n. 450 cit. D’altra parte, l’evidenziata incoerenza pratica od effettuale– adeguatamente illuminata, nella sua genesi, dal dato storico – si risolve, sul crinale degli ordinari strumenti di interpretazione, nella valorizzazione del limite di una lettura rigorosamente testuale della disposizione in esame, che si rivela malcerta e sollecita direttive esegetiche secondarie di matrice sistematica (cfr. art. 12 prel.). A tal fine, appare significativo considerare, in particolare, l’art. 92, comma 2, dello d.P.R. n. 207 del 2010 in tema di requisiti minimi per la composizione dei raggruppamenti: benché la norma (tra l’altro, espressamente richiamata dall’art. 61, comma 2, in esame) faccia riferimento, nello scolpire la misura minima dei requisiti di qualificazione economico-finanziari e tecnico-
organizzativi che l’impresa mandataria deve assumere nell’ambito di un raggruppamento di tipo orizzontale, ai “requisiti richiesti nel bando di gara” (esattamente come per l’art. 61 del d.P.R. n. 207 del 2010), essa è coerentemente interpretata, per consolidato intendimento, nel senso che “la verifica della situazione ‘maggioritaria’, in caso di raggruppamento misto, [debba] avvenire avendo riferimento alle singole categorie scorporabili (della specifica gara), e non all’intero raggruppamento” (Cons. Stato, sez. V, 9 dicembre 2020, n. 7751; Id., sez. VI, 15 ottobre 2018, n. 5919; nella vigenza del Codice abrogato, già C.G.A.R.S., Sez. I, 11 aprile 2008, n. 306). Nella medesima prospettiva sistematica, l’art. 48, comma 5 d.lgs. 50/2016 è chiara nel limitare la responsabilità per le imprese mandanti alle sole prestazioni effettivamente assunte: sicché, in sostanza, il parametro per la perimetrazione degli obblighi delle mandanti, sia nei confronti della stazione appaltante che nei confronti dei terzi, è costituito dalla singola tipologia di prestazione assunta, ricada nella “categoria prevalente” o in una diversa “categoria scorporata”. Sulle esposte premesse, si giustifica allora, nella prospettiva di una lettura orientata alla necessaria coerenza sistematica del regime di qualificazione dei concorrenti plurisoggettivi, una interpretazione “orientata” (od “adeguatrice”) dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, nel senso che, nei raggruppamenti di tipo misto, i componenti di ciascuno dei subraggruppamenti di tipo orizzontale siano abilitati a partecipare alle gare e ad eseguire i lavori “nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto”, purché siano qualificati per una classifica pari ad almeno un quinto “dell’importo della categoria di lavori cui lo stesso componente partecipa”
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Covid-19 – Sanità – Case di cura – Chiusura – Per casi Covid-19 nonostante le procedure impartite dalla Asl – Non va sospesa.
Non deve essere sospesa l’ordinanza del Sindaco che ha disposto la chiusura temporanea di una casa di Cura nella quale, all’interno della quale nonostante le procedure impartite dalla Azienda sanitaria per il contenimento di casi Covid-19, si sono verificati ulteriori casi di Covid-19, essendo prevalente la funzione preventiva e precauzionale, sottesa a tutte le misure disposte (1).
(1) Ha affermato il decreto che non può sicuramente apprezzarsi, in termini di estrema gravità ed urgenza, ‹‹il pregiudizio all’immagine che potrebbe subire la ricorrente›› nel mentre e con riguardo ai ‹‹quattro pazienti le cui condizioni di salute non ne consentono le immediate dimissioni››, i provvedimenti in questione non escludono che l’accreditato operi in coordinamento, ove di impellente ed ineludibile necessità, con le autorità sanitarie competenti a tutela della salute degli stessi.
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Covid-19
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Giurisdizione – Verifica del possesso - Rinuncia al ricorso – Possibilità di effettuare la verifica.
La rinuncia al ricorso non preclude la verifica del possesso della giurisdizione, trattandosi di questione, in effetti, prioritaria rispetto ad ogni altra, sia di rito che di merito, ma privata di ogni concretezza e incidenza sulla fattispecie sottoposta a giudizio, essendo il giudice vincolato alla pronuncia, di cui ai citati artt. 84 e 35 c.p.a. (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che la disciplina comunitaria non contiene una disposizione, analoga a quella dettata nell’art. 99, comma 5, c.p.a., secondo cui – in presenza di questioni controverse, sottoposte al vaglio dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ove il giudice ritenga che la questione sia di particolare importanza – detta adunanza “può comunque pronunciare il principio di diritto nell’interesse della legge”, anche quando dichiara il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, o comunque estinto, senza effetto – “in tali casi” – sul provvedimento impugnato.
Deve essere considerata, tuttavia, una significativa evoluzione, intervenuta nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in evidente considerazione della funzione nomofilattica della stessa, in quanto finalizzata ad assicurare l’omogenea applicazione delle disposizioni normative, vigenti nell’Unione Europea.
Nella ripartizione di funzioni fra detta Corte e il giudice del rinvio, pertanto, spetta al secondo la valutazione della necessità di una pronuncia in base al citato art. 267 TFUE, di modo che le questioni pregiudiziali sollevate godono di una “presunzione di pertinenza”, tanto da configurare come eccezionali i casi, in cui la medesima Corte rifiuti di pronunciarsi, per difetto di competenza. Tale difetto appare ravvisabile “soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del giudizio principale, qualora la questione sia di tipo teorico o, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto, necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte” (cfr. Corte giustizia UE, sez. III, n.492 del 27 giugno 2013 – causa C-492/11 – Ciro Di Donna contro Società imballaggi metallici Salerno, punti nn. 24 e 25, nonché giurisprudenza conforme ivi citata; sez. II, 7 febbraio 2019 – causa C-49/18 – Carlos Escribano Vindel contro Ministerio de Justicia, punto n. 25).
Quanto sopra, anche in considerazione di eventuali, successive istanze di risarcimento del danno, ex art. 30 c.p.a., ferma restando, peraltro, la decisione da assumere comunque – con ampia discrezionalità dell’organo giudicante – per la liquidazione delle spese giudiziali, alla cui compensazione lo stesso giudice non è certo vincolato da una mera adesione delle parti resistenti, tenuto conto, in particolare, di quanto disposto dall’art. 84, comma 2, c.p.a. (cfr. anche, a quest’ultimo riguardo, Corte di Giustizia, III sezione, causa C-328/17 - Amt, Azienda Mobilità e Trasporti e altri contro Agenzie regionale ligure per il trasporto pubblico locale - sentenza del 28 novembre 2018; in tale sentenza – in rapporto ad una gara a cui la parte ricorrente non aveva partecipato, per tale ragione con pronuncia di inammissibilità della questione, in un primo tempo sollevata innanzi alla Corte Costituzionale e, per di più, dopo il finale autoannullamento del bando – si afferma quanto segue: “sebbene l’esame della questione…..sia solo intesa a consentire al giudice del rinvio di pronunciarsi sulla ripartizione delle spese nel procedimento principale, non vi è dubbio che si tratta di una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione, alla quale la Corte deve rispondere al fine di preservare l’uniformità di applicazione del medesimo”).
La rinuncia non appare, dunque, concettualmente incompatibile con qualsiasi ulteriore apprezzamento del giudice, anche soltanto ai fini dell’eventuale condanna alle spese, che in determinate circostanze – di seguito esaminate – possono comportare una valutazione di sussistenza, o meno, di profili di soccombenza virtuale.
Anche nell’ottica sopra indicata, comunque, la dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse e la rinuncia potrebbero apparire diversamente vincolanti per il giudice, solo nel primo caso chiamato ad acquisire precisi punti di riferimento per una composizione di interessi, correttamente impostata e non lesiva del principio di effettività della tutela, in rapporto al legittimo affidamento determinato dal bando di gara (persistendo per il medesimo giudice il dovere, riconducibile agli articoli 2 e 111 della Costituzione, di valutare in via pregiudiziale la sussistenza della propria giurisdizione, in particolare quando emergano in rapporto alla stessa ragioni di effettività della tutela, nella prospettiva risarcitoria di cui all’art. 34, comma 3, c.p.a.).
La rinuncia al ricorso ritualmente proposta, invece, chiude per volontà della stessa parte ricorrente qualsiasi ulteriore prospettiva, ma non esclude – anche ai soli fini della condanna alle spese – una richiesta di pronuncia chiarificatrice della citata Corte, pur restando virtualmente intangibile il principio dispositivo, implicante poi estinzione del giudizio in corso.
Anche in rapporto a tale intangibilità, in effetti, possono sussistere dubbi, benchè non ancora affrontati dalla giurisprudenza, se non sul piano dei principi generali.
In situazioni come quella in esame, infatti, sopravvenuta carenza di interesse e rinuncia potrebbero equipararsi, in presenza di ravvisabili profili di abuso del diritto e del processo, potenzialmente ostativi per la stessa ammissibilità della rinuncia, tenuto conto della normativa vigente e della disciplina comunitaria, in termini che – come più avanti meglio specificato – stanno progressivamente affermandosi anche nella giurisprudenza nazionale (cfr., sul piano normativo, art. 1175 cod. civ., artt. 37, 88 e 96 c.p.c., art. 26, comma 2 c.p.a., nonché art. 17 CEDU e art. 54 della Carta di Nizza, che, come è noto, con il trattato di Lisbona ha acquistato lo stesso valore giuridico dei Trattati; cfr. anche Corte di Giustizia, causa C-321/05 del 5 luglio 2007 – Kofoed, che pone l’abuso del diritto come principio generale dell’Unione Europea).
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Giurisdizione
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Covid-19 – Calcio – Squadra della Salernitana Calcio – Casi di positività - Ordinanza Asl di divieto di giocare le partite per cinque giorni – Va sospesa.
Va sospeso il provvedimento dell’Azienda Sanitaria di Salerno che, accertato che nella Squadra della Salernitana Calcio si sono verificati casi di positività al Covid, ha disposto la quarantena anche per i calciatori negativi al test e, quindi, il divieto di esercitare sport di squadra di contatto per cinque giorni per tutti gli atleti, ponendosi tale ordinanza in violazione sia dell’art. 2, d.l. 30 dicembre 2021, n. 229 sia della circolare del Ministero della Salute del 18 giugno 2020 (tuttora vigente), con la quale si è in particolare stabilito, con riferimento alle attività sportive, che nel caso di quarantena dell’intero “Gruppo Squadra”, per la accertata positività di uno o più componenti dello stesso, l’intero gruppo possa essere posto “in bolla” e possano così svolgersi gli allenamenti e le partite dei campionati professionistici, previa effettuazione di test nel giorno della gara (1).
(1) Ha chiarito il decreto che sussistano i presupposti per l’accoglimento dell'istanza di misura cautelare monocratica, per la dichiarata impossibilità di recuperare tutte le giornate di gara perse entro la data di conclusione del Campionato di serie A, a fronte del quale non è ravvisabile un concreto pericolo di danno alla salute pubblica laddove venga rispettata la prescrizione della previa effettuazione di test nel giorno della gara ai sensi della suindicata circolare del Ministero della Salute del 18 giugno 2020.
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Covid-19
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Magistrati - Magistrati amministrativi – Magistrati del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia – Nominati dalla Regione – Cessazione – Permanenza o nomina in Commissione tributaria – Possibilità.
Il componente designato dalla Regione siciliana del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, cessato all’esito del sessennio previsto dall’art. 6, comma 4, d.lgs. n. 373 del 2003, può continuare ad essere componente delle commissioni tributarie in qualità di magistrato amministrativo a riposo (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che l’ex componente del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, cessato dalle funzioni per scadenza del sessennio, può considerarsi “magistrato amministrativo a riposo” ai soli ed esclusivi fini della prosecuzione del servizio svolto presso la giurisdizione tributaria, in ragione della richiamata peculiarità della normativa di riferimento, senza che possano venire in rilievo ulteriori conseguenze di stato giuridico in relazione ai componenti del C.G.A.R.S.
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Magistrati
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Processo amministrativo – Rito appalti – Commissione di gara – Impugnazione della composizione per incompetenza – Legame tra la denunciata incompetenza e gli esiti valutativi in relazione alla propria offerta – Necessità.
Contratti della Pubblica amministrazione - Commissione di gara – Nomina - Azienda sanitaria – Competenza del Direttore Generale - Conferimento dell’incarico all’unità operativa interna competente per materia – Non è conferimento di delega.
Le censure volte a contestare il procedimento di nomina della Commissione di gara sono ammissibili se è individuato un legame tra la denunciata incompetenza e gli esiti valutativi in relazione alla propria offerta
Il Direttore Generale di una Azienda sanitaria, titolare del potere di nomina della Commissione di gara, che incarica l’unità operativa interna competente per materia all’esercizio della relativa competenza non ha esercitato il potere di delega, perchè non si è spogliato della propria competenza ma ha semplicemente individuato l’ufficio, interno all’Azienda, che in concreto avrebbe dovuto procedere alla relativa attività materiale (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che l’istituto della delega, su cui si fonda la motivazione della sentenza impugnata, concerne relazioni interorganiche ovvero intersoggettive: ma non anche il riparto interno di competenze tra uffici.
Tale istituto, propriamente inteso, si colloca infatti nell’ambito del modello della c.d. amministrazione indiretta (o esercizio indiretto della funzione amministrativa), e si distingue in delegazione interorganica ovvero intersoggettiva proprio a seconda che il trasferimento dell’esercizio della funzione amministrativa coinvolga figure soggettive diverse, ovvero soltanto organi appartenenti alla medesima struttura. Ne consegue che il richiamo ai princìpi in materia di delega è, a tacer d’altro, anzitutto improprio allorchè vengano in considerazione, come nel caso di specie, delle mere relazioni fra uffici, che non coinvolgono altri organi o enti (in disparte, come si vedrà al punto successivo, la contrarietà di tale richiamo, nel merito, al pacifico ed univoco panorama giurisprudenziale).
La lettura della documentazione prodotta nel giudizio di primo grado evidenzia inoltre, come accennato, che il Direttore Generale ha esercitato le proprie competenze mediante il competente ufficio interno, facendo poi proprie le attività di quest’ultimo con atti dotati di rilevanza esterna (la citata deliberazione n. 236, in particolare, nell’approvare la proposta di aggiudicazione del RUP, dà atto della correttezza e regolarità dell’istruttoria condotta nel procedimento in questione dall’UOC – ABS, ricostruita nella relazione del medesimo ufficio allegata alla delibera in questione, nell’ambito della quale si dà atto anche della nomina della Commissione giudicatrice).
In altre parole, dall’esame degli atti emerge che il Direttore Generale ha esercitato le proprie competenze mediante un ufficio interno (UOC-ABS), verificandone le attività e facendole proprie all’esito di tale verifica: il che esula del tutto dall’ambito applicativo dell’istituto giuridico posto a fondamento del motivo del ricorso di primo grado e del capo di sentenza che lo ha accolto.
Tale condotta, inoltre, proprio in ragione del descritto meccanismo di produzione degli effetti giuridici, appare conforme anche alla regola della identità fra organo titolare del potere di nomina della Commissione e organo competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, portata dal pure invocato art. 216, comma 12, del Codice dei contratti pubblici (“la commissione giudicatrice continua ad essere nominata dall'organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, secondo regole di competenza e trasparenza preventivamente individuate da ciascuna stazione appaltante”).
Come già chiarito dalla giurisprudenza della Sezione, “le regole che governano la scelta della stazione appaltante sono quelle direttamente mutuabili dall'articolo 77 per la parte già in vigore e dall'art. 216, comma 12, d.lvo cit.- quanto alla competenza in ordine alla designazione dei commissari ovvero quanto ai criteri generali di competenza e trasparenza preventivamente individuate da ciascuna stazione appaltante - per come integrate dalle regole aggiuntive che, in applicazione della suindicata disposizione, l'Amministrazione è tenuta ad adottare” (Cons. St. n. 7832 del 2020).
In secondo luogo va osservato che, quand’anche si intendesse l’ufficio autorizzato a nominare la Commissione come organo dell’Azienda, e dunque qualora il richiamo all’istituto della delega fosse stato propriamente operato, occorrerebbe considerare che se pure in dottrina si discute se l’attribuzione normativa del potere di delega debba essere esplicita ovvero possa ricavarsi implicitamente, la giurisprudenza è assolutamente pacifica nel ritenere che nel procedimento di evidenza pubblica le competenze sono delegabili “secondo un principio generale in materia di funzioni amministrative, non sovvertito in materia di appalti” (così, in materia di verifica dell’anomalia, la sentenza di questa Sezione n. 3615 del 2017, seguita dalla sentenza della V Sezione di questo Consiglio di Stato n. 1371 del 2020).
Secondo questo pacifico e consolidato indirizzo giurisprudenziale, pertanto, ove la fattispecie dedotta dovesse sussumersi nello schema della delega del tutto legittimamente il Direttore Generale avrebbe delegato l’unità operativa interna competente per materia all’esercizio della relativa competenza.
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Ambiente – Tutela - Impianti ex Ilva – Ordinanza contingibile ed urgente del Sindaco di Taranto del 27 febbraio 2020 – Ordine di individuare le criticità indicate e ad eliminarle – Sentenza Tar Lecce che ha dichiarato la legittimità dell’ordinanza – Non va sospesa in via monocratica.
Non deve essere sospesa in via monocratica la sentenza del Tar Lecce che ha dichiarato la legittimità dell’ordinanza contingibile ed urgente con la quale il Sindaco di Taranto ha disposto che la società che gestisce l’impianto siderurgico provveda entro 30 giorni ad individuare le criticità indicate e ad eliminarle, avvertendo che in caso di inottemperanza potrebbe procedersi alla sospensione delle attività ricollegabili agli impianti asseritamente fonte delle immissioni e del conseguente rischio sanitario per la popolazione (1).
(1) La sentenza della quale è stata chiesta la sospensione monocratica degli effetti è Tar Lecce, sez. I, 13 febbraio 2021, n. 249
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Ambiente
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Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione – impugnazione – Con motivi aggiunti – Impugnazione ammissione con rito super accelerato - Ammissibilità dei motivi aggiunti.
E’ ammissibile l’atto di motivi aggiunti proposto per gravare l’aggiudicazione intervenuta nelle more del giudizio iniziato con l’impugnazione dell’ammissione di altro concorrente con rito super accelerato ai sensi dell’art. 120, comma 2 bis, c.p.a. (1).
(1) Ha ricordato il C.g.a. che comma 7 ratione temporis vigente dell’art. 120 c.p.a. dispone, con riferimento al primo grado di giudizio, che “i nuovi atti attinenti la medesima procedura di gara devono essere impugnati con ricorso per motivi aggiunti” e ciò “ad eccezione dei casi di cui al comma 2 bis” (deroga inserita proprio dalla fonte che ha introdotto i commi 2 bis e 6 bis nell’articolo in esame).
La regola dettata dal comma 7 si compone di due prescrizioni.
La prima stabilisce l’obbligo di impugnazione con motivo aggiunti degli atti successivi a quelli già impugnati nell’ambito delle procedure di affidamento di cui all’art. 120, comma 1, c.p.a.. Posto che gli atti successivi (lesivi) debbono essere impugnati pena il venir meno dell’interesse a ricorrere avverso i primi, il gravame deve essere disposto, in ragione del principio di concentrazione, davanti al medesimo giudice al fine di assicurare il simultaneus processus. D’altro canto la legittimazione a impugnare gli atti successivi, aggiudicazione inclusa, deriva dalla proposizione del giudizio relativo alla fase antecedente.
La concentrazione processuale garantita dal comma 7 dell’art. 120 c.p.a. è il portato di siffatta relazione bidirezionale che collega le condizioni dell’azione esercitata con l’impugnazione degli atti precedenti rispetto alle condizioni di ammissibilità del gravame avente ad oggetto i provvedimenti successivi.
La seconda prescrizione stabilisce la mancanza dell’obbligo (di impugnazione con motivi aggiunti) in relazione agli atti che seguono i provvedimenti di ammissione ed esclusione impugnati ai sensi dell’art. 120, comma 2 bis, c.p.a.
Il tenore letterale del comma 7 non si spinge oltre. L’unica indicazione che stabilisce è quella relativa all’eccezione rispetto all’obbligo di impugnare con motivi aggiunti gli atti successivi delle procedure di affidamento. Dal che deriva l’assenza dell’imposizione di gravare con motivi aggiunti i provvedimenti posteriori (con conseguente perdurante facoltà di presentare motivi aggiunti verso tali atti), che è cosa diversa dal divieto di impugnarli con motivi aggiunti.
Il tenore letterale del comma 7 non supporta pertanto, dal punto di vista letterale, la previsione del divieto di presentazione di motivi aggiunti successivi a un ricorso presentato ai sensi del comma 2 bis.
Né la ratio dell’istituto introdotto con il comma 2 bis depone nel senso di interpretarlo quale divieto di impugnare i provvedimenti posteriori con motivi aggiunti.
La suddetta previsione (l’eccezione contenuta nel comma 7), infatti, si inscrive e si giustifica in relazione al rito superaccelerato introdotto con il comma 2 bis, che muove da una concezione bifasica della gara, in cui la fase preliminare dell’ammissione, all’esito dell’accertamento dei requisiti di partecipazione, precede quella della valutazione delle offerte.
Specularmente è stato introdotto, con il comma 2 bis dell’art. 120 c.p.a., un meccanismo processuale che riproduce e assicura la biforcazione del procedimento ad evidenza pubblica, distinguendo fra impugnazione dei provvedimenti che individuano i soggetti idonei a parteciparvi e gravame relativo agli atti successivi.
L’obiettivo della legge 28 gennaio 2016, n. 11, art. 1, comma 1, lett. bbb, attuato dall’art. 204, comma 1, lett. b, d.lgs. n. 50 del 2016 con l’introduzione dei commi 2 bis e 6 bis nell’art. 120 c.p.a., è la cristallizzazione definitiva della platea dei concorrenti prima dell’aggiudicazione. In particolare, con esso il Governo è stato delegato a introdurre “un rito speciale in camera di consiglio che consente l’immediata risoluzione del contenzioso relativo all’impugnazione dei provvedimenti di esclusione dalla gara o di ammissione alla gara per carenza dei requisiti di partecipazione”, laddove immediata sta per anteriore al successivo svolgimento della procedura di gara, ossia alla (fase della valutazione delle offerte che culmina con il provvedimento di) aggiudicazione.
L’istituto processuale immesso nel codice per il raggiungimento dell’obiettivo di cristallizzare in via definitiva la platea dei concorrenti prima dell’aggiudicazione si basa sull’onere d’immediata impugnazione della (propria) esclusione e delle (altrui) ammissioni (art. 120, comma 2 bis, c.p.a.), con annessa preclusione della deduzione di vizi attinenti alla fase preliminare dell’ammissione in sede di impugnazione dei successivi provvedimenti di aggiudicazione (“L’omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento anche con ricorso incidentale”). Esso è accompagnato dall’introduzione, al comma 6 bis dell’art. 120 c.p.a., di termini acceleratori del giudizio riguardante la fase preliminare della gara (da cui l’appellativo di giudizio superaccelerato), finalizzati a coadiuvare il raggiungimento dell’obiettivo.
Il suddetto schema processuale comporta, almeno nella fisiologia del suo atteggiarsi, che la legittimazione all’impugnazione dell’aggiudicazione si fondi non sulla mera proposizione del gravame (così come invece succede nelle altre fattispecie nella quale interviene la regola generale di cui al comma 7) ma sulla definizione giurisdizionale dell’ammissione del concorrente.
Viene pertanto meno quella correlazione che spiega il simultaneus processus in relazione alla regola generale contenuta nel comma 7 dell’art. 120 c.p.a.: non si pone un problema di impugnazione degli atti successivi al fine di evitare il sopravvenuto difetto di interesse, né si prospetta una legittimazione fondata sulla proposizione del primo ricorso, posto che il giudizio introdotto da quest’ultimo si è ormai definito.
A fronte della regola generale che chiede l’impugnazione con motivi aggiunti degli atti successivi delle procedure di affidamento rispetto a quelli già gravati, l’eccezione dettata nel comma 7 è funzionale a non intralciare lo scopo del rito superaccelerato, che vuole la predefinizione, anche giurisdizionale, della platea dei partecipanti alla gara.
La finalità del giudizio superaccelerato ne segna la ragion d’essere e influenza i limiti applicativi.
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Processo amministrativo
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Contratti pubblici – Gestione dei rifiuti – Obbligo dichiarativo – Gravi illeciti professionali
In assenza di un accertamento definitivo, cristallizzato in una sentenza o in un provvedimento amministrativo divenuto inoppugnabile, il termine triennale, ex art. 80, comma 10 bis del codice dei contratti pubblici, idoneo, perciò solo, ad elidere la rilevanza dei fatti determinanti l'impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione, decorre, non dalla commissione materiale del fatto in sé, bensì dall'accertamento del fatto.
Solo quest’ultimo, infatti, vale, in quanto tale, ad ascrivere alla mera situazione fattuale una qualificazione giuridicamente rilevante ai fini dell’operatività delle regole espulsive, nei termini legalmente scanditi.
La condotta penale rileva, nella sua dimensione fattuale ed extra-penale, ex art. 80, comma 5, lett. c), del codice dei contratti pubblici, entro il previsto limite temporale triennale ed, anche oltre tale limite, se e in quanto abbia formato oggetto di contestazione in giudizio, ossia allorquando la correlativa azione penale abbia varcato la soglia processuale di instaurazione del giudizio dibattimentale o di una sua forma alternativa per l’emissione di una pronuncia di condanna o di una pronuncia ad essa equiparabile, suscettibile, come tale, di accertare fatti integranti i gravi illeciti professionali.
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Contratti pubblici
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Imposte e tasse – Imu – Convenzione tra Comuni - Riparto del gettito fiscale di Imu e Tasi – Possibilità.
Due comuni, nel quadro di un più vasto accordo di programma plurilivello ex art. 34 t.u.e.l., possono concludere una convenzione, ex art. 15, l. n. 241 del 1990, avente ad oggetto il riparto del gettito fiscale di IMU e TASI proveniente da una grande infrastruttura commerciale insediata sul territorio di entrambi gli enti (1).
(1) Sulla natura e interpretazione degli accordi di programma ex art. 34 t.u.e.l. e degli accordi ex art. 15, l. n. 241 del 1990 v. Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 2999 del 2021; id. n. 1948 del 2021.
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Imposte e tasse
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Processo amministrativo - Ricorsi elettorali – Specificità del motivi - Limiti.
Processo amministrativo - Ricorsi elettorali – Motivi aggiunti – Esclusione.
Nel giudizio elettorale, poi, il principio della specificità dei motivi di censura e dell'onere della prova è da considerarsi attenuato, ancorché si richieda sempre, ai fini dell'ammissibilità del ricorso o delle singole doglianze, che l'atto introduttivo indichi la natura dei vizi denunziati, il numero delle schede contestate e le sezioni cui si riferiscono le schede medesime (tutto ciò non in termini astratti, ma con riferimento a fattispecie concrete (1).
Nel giudizio elettorale con i motivi aggiunti non possono dedursi, in base alle risultanze della verificazione disposta dal giudice, vizi inediti e cioè vizi che non trovano sufficiente e adeguato riscontro in quelli dedotti col ricorso introduttivo; e, in particolare, che nel giudizio elettorale sono ammissibili i motivi aggiunti che costituiscano esplicitazione, puntualizzazione o svolgimento di censure tempestivamente proposte, mentre non sono ammessi nuovi motivi derivanti da ulteriori vizi emersi a seguito delle verifiche istruttorie disposte dal giudice in relazione alle originarie censure, così conciliandosi i contrapposti interessi in gioco della effettività della tutela giurisdizionale e della celerità e speditezza che il giudizio elettorale deve in ogni caso assicurare (2).
(1) Ha ricordato il C.g.a. che l'inammissibilità del ricorso elettorale per genericità dei motivi sussiste solo quando il giudice non sia posto in grado di comprendere quali vizi il ricorrente deduca per sostenere l'invalidità del provvedimento impugnato, così che, fuori da questi stretti limiti, è dovere del giudice stesso interpretare il gravame ed esaminare le censure ancorché non organicamente articolate, ricavandole dal contesto del ricorso e della richiesta avanzata (Cons. St., V, 22 settembre 2011, n. 5345; id., sez. IV, 7 giugno 2005, n. 2930; sez. 17 febbraio 2009, n. 912).
É stato più volte ribadito che ai fini della regolarità ed ammissibilità dei motivi del ricorso, basta che siano sufficientemente specificate le questioni che si intendono proporre al giudice, in modo da permettere l'identificazione dei vizi del provvedimento che si vuole denunciare e la individuazione delle norme ritenute violate, ancorché gli uni e le altre non siano precisamente ed espressamente specificati, poiché la formulazione alquanto sintetica dei motivi non impedisce al giudice ed alle parti resistenti di coglierne il contenuto, considerato anche che l'art 156 c.p.c. esclude la dichiarazione della nullità per inosservanza di forme di un atto processuale che abbia raggiunto il suo scopo (Cons. St., sez. V, 22 settembre 2011, n. 5345; id. 24 marzo 2011, n. 1792); i motivi di ricorso devono considerarsi muniti di adeguata consistenza e specificazione (che ne impone l'esame da parte del giudice) non già quando descrivono le conclusioni cui essi sono indirizzati, ma se e quando indicano pure le ragioni che vengono poste a base di siffatte conclusioni e danno dimostrazione, secondo l'intendimento del ricorrente, del titolo e della causa delle richieste e delle norme che le giustificano (laddove invece, in presenza di motivi generici, non può essere invocato il principio "iura novit curia", perché la conoscenza che il giudice ha e deve avere delle norme dell'ordinamento non esonera il ricorrente dallo specificare adeguatamente le sue richieste, né il principio può essere interpretato nel senso che il giudice debba prestare la sua opera ovviando con la sua attività all'incapacità delle parti di reperire un qualunque fondamento per le loro pretese (Cons. St., sez. V, 22 settembre 2011, n. 5345; id. 13 luglio 2006, n. 4419; id. 8 febbraio 2011, n. 854).
Come si è detto, nel giudizio elettorale, poi, il principio della specificità dei motivi di censura e dell'onere della prova è da considerarsi attenuato, ancorché si richieda sempre, ai fini dell'ammissibilità del ricorso o delle singole doglianze, che l'atto introduttivo indichi la natura dei vizi denunziati, il numero delle schede contestate e le sezioni cui si riferiscono le schede medesime (tutto ciò non in termini astratti, ma con riferimento a fattispecie concrete, Cons. St., sez. V, 11 dicembre 2007, n. 6411, onde evitare inammissibili azioni volte al mero riesame delle operazioni svolte, Cons. St., sez. V, 11 luglio 2008, n. 3430, ovvero meramente esplorative, Cons. St., V, 4 maggio 2010, n. 2439): ciò in considerazione della peculiare situazione di (obiettiva) difficoltà in cui si trova il soggetto che ha interesse ad aggredire le operazioni elettorali illegittime, sulla base di semplici informazioni, pur formalmente dichiarate ed acquisite agli atti del giudizio, ma necessariamente indiziarie, e tenendo conto dell'indefettibile esigenza di assicurare, tuttavia, l'effettività della tutela giurisdizionale, sancita dagli artt. 24 e 113 Cost., così che possono ritenersi ammissibili censure anche parzialmente generiche o che risultino poi affette da errata individuazione del fatto che ha provocato la determinazione illegittima (Cons. St., sez. V, 4 marzo 2008, n. 817).
(2) Negli stessi termini Cons. St., sez. III, 26 ottobre 2018, n. 6126; id., sez. V, 13 aprile 2016, n. 1477; id. 16 marzo 2016, n. 1059; id. 11 febbraio 2016, n. 610; id. 22 marzo 2012, n. 1630.
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Processo amministrativo
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Processo amministrativo - Notifica del ricorso - Notifica nulla – Rinnovazione – Dopo Corte cost. n. 148 del 2021 – Conseguenza.
In conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 9 luglio 2021, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 44, comma 4, c.p.a. nella parte in cui subordinava la possibilità di rinnovazione della notifica nulla, in caso di mancata costituzione del soggetto intimato, all’assenza di una causa imputabile al notificante, va disposto l’annullamento con rinvio al primo giudice della sentenza con cui il ricorso introduttivo del giudizio sia stato dichiarato inammissibile a causa della nullità della notificazione ritenuta imputabile al ricorrente (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che tale conclusione discende dalla efficacia ex tunc della sentenza di accoglimento della Corte costituzionale, alla stregua dell’art. 30, comma 3, l. 11 marzo 1953, n. 87, la quale non trova in questo caso limite in “rapporti esauriti” (essendo pendente il giudizio di appello sulla sentenza dichiarativa della inammissibilità), e dal rilievo che per effetto di essa risulta concretatasi un’ipotesi di lesione del diritto di difesa rilevante ai sensi dell’art. 105 dello stesso codice del processo amministrativo, ancorché derivante dall’applicazione di una norma incostituzionale anziché da errore del giudice o vizio di procedura o della decisione.
Ha aggiunto che si giunge alla medesima conclusione anche a voler tener conto dell’interpretazione data dalla giurisprudenza degli effetti della declaratoria di incostituzionalità di norme processuali, laddove oltre all’eventuale giudicato anteriore alla sentenza della Corte si tende a far salve anche le eventuali preclusioni e decadenze già verificatesi purché estranee all’applicazione della norma dichiarata incostituzionale (cfr. Cass. civ., sez. VI, ord. 24 settembre 2020, n. 20005; Cons. Stato, sez. III, 12 luglio 2018, n. 4264; id., 20 ottobre 2016, n. 4396).
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Processo amministrativo
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Contributi e finanziamenti – Revoca - Per l’assenza originaria dei presupposti
La revoca del contributo, per l’assenza originaria dei presupposti giustificativi già positivamente valutatati dall’Amministrazione, non possa essere equiparata alla revoca del contributo per l’inadempimento del programma di investimenti ovvero per altri fatti sopravvenuti all’ammissione al finanziamento (1)
(1) Al fine di ricostruire la natura giuridica del pubblico potere esercitato dall’Amministrazione procedente, giova distinguere a seconda che la revoca del contributo sia disposta per la carenza originaria o sopravvenuta di un requisito di ammissione al contributo.
Nella prima ipotesi, emerge un’invalidità del provvedimento concessorio -da scrutinare alla stregua dello stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione-, tenuto conto che il contributo non avrebbe potuto essere concesso in assenza di un suo requisito di ammissibilità: in tali casi, l’Amministrazione è abilitata a riesaminare la propria pregressa determinazione –di ammissione dell’operatore economico al finanziamento pubblico – nell’esercizio di un potere di autotutela, in relazione al quale, come correttamente rilevato dal Tar, sussiste la cognizione del giudice amministrativo (cfr. Cass. Sez. Unite, Ord., 30 luglio 2020, n. 16457).
Nella seconda ipotesi, la carenza sopravvenuta del requisito, invece, non influisce sul regime di validità dell’atto concessorio, ma sulla conservazione del bene della vita anticipatamente concesso dall’Amministrazione procedente: una tale carenza, di regola, si traduce nella violazione di un obbligo assunto sul beneficiario, da ottemperare per la conservazione dell’agevolazione economica, suscettibile di accertamento da parte dell’Amministrazione procedente mediante l’esercizio di un potere vincolato, funzionale allo scioglimento di un rapporto amministrativo già costituito.
Non potrebbe diversamente argomentarsi, rilevando che in materia di patti territoriali l’ammissione al contributo avviene soltanto in via provvisoria, occorrendo un’ulteriore attività di accertamento in sede amministrativa ai fini della concessione in via definitiva delle relative agevolazioni economiche.
La distinzione tra concessione in via provvisoria e in via definitiva non esclude, infatti, la natura provvedimentale del (primo) atto di ammissione al contributo, essendosi comunque in presenza di una manifestazione di volontà dispositiva dell’organo procedente, produttiva di effetti costitutivi di un rapporto amministrativo con la parte privata, in tale modo ammessa alla pubblica contribuzione.
La provvisorietà dell’elargizione economica, in particolare, non consente di negare la valenza provvedimentale dell’atto di ammissione al contributo, bensì evidenzia la precarietà della posizione giuridica della parte privata, la quale, al fine di conservare l’utilità provvisoriamente concessa, è tenuta ad adempiere obblighi e doveri imposti dall’Amministrazione procedente, la cui osservanza deve essere verificata nell’ambito di un successivo controllo amministrativo ex artt. 8 e 9, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 123, nonché 12, comma 3, d.m. 31 luglio 2000, n. 320.
Per l’effetto, la mera concessione provvisoria di un contributo economico non può fondare un affidamento legittimo della parte privata sulla conservazione dell’utilità ricevuta, a prescindere dal futuro svolgimento del rapporto amministrativo, occorrendo a tali fini che l’operatore economico rispetti il programma di investimenti approvato dall’Amministrazione, sottoponendosi al successivo controllo amministrativo ai fini della determinazione (nell’an e nel quantum) del contributo allo stesso spettante in via definitiva.
La natura provvisoria del contributo, invece, non può impedire la configurazione in capo al beneficiario di un legittimo affidamento in ordine (anziché alla conservazione del contributo) alla sussistenza dei requisiti originari di ammissibilità al contributo già positivamente valutati dall’Amministrazione procedente.
In tali ipotesi, non si fa questione di fatti o atti futuri ancora da verificare, ma si discorre di presupposti già esaminati in sede amministrativa ai fini dell’adozione di un provvedimento con cui l’organo procedente, spendendo un pubblico potere, decide di ammettere il progetto di investimenti alla pubblica contribuzione.
Al pari di ogni altro atto provvedimentale, tale decisione può essere riesaminata dall’Amministrazione al ricorrere delle condizioni di cui all’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990, tendenti a tutelare il legittimo affidamento comunque ingenerato nella parte beneficiata dall’esercizio del pubblico potere.
In definitiva, l’istante, se non può ritenersi titolare di un legittimo affidamento alla conservazione dell’utilità economica provvisoriamente concessa - che potrà sorgere soltanto all’esito del completamento della fattispecie (a formazione progressiva) concessoria, con l’adozione del provvedimento di concessione in via definitiva del contributo, una volta verificato il corretto adempimento del programma di investimenti -, deve ritenersi titolare di un legittimo affidamento sulla sussistenza dei presupposti (originari) di ammissione al contributo, che danno titolo al finanziamento del progetto di investimenti, facendosi questione di elementi già valutati positivamente dall’Amministrazione procedente.
Alla stregua delle considerazioni svolte, deve ritenersi che la revoca del contributo, per l’assenza originaria dei presupposti giustificativi già positivamente valutatati dall’Amministrazione, non possa essere equiparata alla revoca del contributo per l’inadempimento del programma di investimenti ovvero per altri fatti sopravvenuti all’ammissione al finanziamento.
Nel primo caso l’Amministrazione riesamina una propria decisione, negando l’integrazione di un presupposto già positivamente valutato con una previa decisione provvedimentale; nel secondo caso, l’Amministrazione accerta – con azione vincolata – un inadempimento del beneficiario o, comunque, la mancata verificazione delle condizioni (non esistenti al momento dell’ammissione alla pubblica contribuzione) cui era subordinata l’erogazione del contributo in via definitiva.
Soltanto nel primo caso si pone l’esigenza di tutelare l’affidamento dell’istante da un eventuale riesame di una decisione amministrativa previamente adottata; nel secondo caso, invece, non essendo il contributo negato per effetto di un riesame amministrativo, ma in ragione della mancata verificazione di quelle condizioni che l’istante ben sapeva essere essenziali per la concessione in via definitiva del contributo, non potrebbe configurarsi alcun legittimo affidamento alla conservazione di un’agevolazione ancora provvisoria.
Qualora la revoca del contributo configuri un provvedimento di autotutela, implicando il riesame di una precedente decisione amministrativa sui presupposti (originari) di ammissione alle pubbliche agevolazioni, l’intervento di secondo grado si traduce in un annullamento d’ufficio di un precedente provvedimento, dovendo, pertanto, soddisfare le condizioni di cui all’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990.
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Contributi e finanziamenti
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Processo amministrativo – Covid-19 – Udienze da remoto – Per ragioni prudenziali legate all’emergenza sanitaria – Esclusione – Fattispecie.
Non può essere accolta l’istanza di partecipazione all’udienza pubblica mediante collegamento da remoto sia se formulata ai sensi dell’art. 4, d.l. n. 28 del 2020 che ai sensi dell’art. 7-bis, d.l. n. 105 del 2021 nel caso in cui la parte appellata è costituita con il disgiunto patrocinio di due avvocati solo per uno dei quali è dedotta la sussistenza di una (peraltro generica) situazione di “rischio” sanitario; aggiungasi che nell’istanza non si deduce, né tantomeno si dimostra, che la situazione esposta – peraltro nei termini, meramente ipotetici, di un generico “rischio” – sia effettivamente correlata “a provvedimenti assunti dalla pubblica autorità”, che invero non vengono allegati o almeno dichiarati (1).
(1) Ha aggiunto il decreto che – quand’anche risultasse integrata la fattispecie legale, della quale invece si è riscontrato non constare ex actis la sussistenza – nell’esercizio della facoltà alternativa prevista espressamente dalla norma legislativa andrebbe comunque privilegiata, per preminenti ragioni organizzative della Sezione, l’opzione del rinvio della trattazione dell’affare a data successiva al 31 marzo 2022 (data terminale dell’attuale emergenza sanitaria e dell’applicabilità del cit. art. 7-bis), piuttosto che autorizzare la trattazione da remoto di una singola causa.
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Processo amministrativo
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Covid-19 – Misure di contenimento del contagio – Sale gioco – Chiusura ex d.P.C.M. 14 gennaio 2021 – Non va sospesa.
Deve essere respinta l’istanza di sospensione monocratica del d.P.C.M. 14 gennaio 2021, che ha bloccato l’attività di sale giochi, sale scommesse, sale bingo e casinò fino al 5 marzo prossimo come misura di contrasto all'epidemia da Covid-19 anche se svolte all'interno di locali adibiti ad attività differente (1).
(1) Ha chiarito il decreto che alla luce della ormai lunga esperienza che le autorità scientifiche dovrebbero aver maturato nel monitoraggio e analisi dei fattori più rilevanti di contagio, le misure di precauzione vanno adottate alla luce di una serie di valutazioni complete scientifiche del rischio sulla base di dati ostensibili e specifiche per ciascuna attività soggetta a limitazioni, non essendo sufficiente il semplice richiamo al principio stesso di precauzione e al carattere "non essenziale"
delle attività, che non sembra decisiva giacché, nella fattispecie, oltre a produrre redditi per gli operatori addetti e le loro famiglie, essa è produttiva di introiti importanti per l’Agenzia erariale concedente.
Peraltro, nonostante il decreto abbia rilevato la dubbiosità e incompletezza della valutazione istruttoria, l’istanza di sospensione monocratica è stata respinta, stante la natura prioritaria della precauzione per la salute pubblica, tale natura mantenendosi pur a fronte di un rischio “potenziale” e “presunto” e ferme le eventuali, successive conseguenze di ordine patrimoniale ove, nelle successive fasi del giudizio, un compiuto, specifico e approfondito accertamento scientifico dimostrasse che il dubbio e la indicazione presuntiva del Comitato Tecnico Scientifico non corrispondevano ad un reale fattore di rischio contagio.
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Covid-19
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Sport – Calcio – A.C. Chievo Verona s.r.l. – Mancata iscrizione al Campionato di Serie B per l'anno 2021/2022 – Non va sospesa.
Deve essere respinta l’istanza di sospensione del diniego della concessione, in favore della A.C. Chievo Verona s.r.l., della Licenza Nazionale per l'iscrizione al Campionato di Serie B per l'anno 2021/2022 stante la mancanza di atti di transazione e rateizzazione efficaci per i debiti tributari di cui al punto 14 del Manuale del “Sistema delle Licenze Nazionali” e, per altro verso, il mancato adempimento dei debiti tributari di cui allo stesso punto 14 ed al punto 15 dello stesso Manuale(1).
(1) Ha aggiunto la Sezione che in base alle norme che regolano gli atti propedeutici alla procedura di riscossione dei tributi erariali mediante ruoli:
- la fattispecie dell’art. 19 del d.P.R. n. 602 del 1973 presuppone l’avvenuta formazione e consegna dei ruoli (secondo quanto previsto, tra l’altro, dal d.m. 3 settembre 1999, n. 321, contenente il relativo regolamento), cioè presuppone l’esistenza di un titolo esecutivo (arg. ex art. 49 del d.P.R. n. 602 del 1973);
- l’art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973, per quanto qui rileva, stabilisce, poi, al comma 1, lett. c-bis), che la cartella di pagamento deve essere notificata a pena di decadenza entro il 31 dicembre “del terzo anno successivo a quello di scadenza dell’ultima rata del piano di rateazione per le somme dovute a seguito degli inadempimenti di cui all’art. 15-ter”;
- nelle more della formazione dei ruoli da parte dell’ente impositore e della loro consegna all’agente della riscossione, nonché dell’emissione della cartella di pagamento, il contribuente non versa in una situazione di diritto soggettivo all’ammissione del beneficio della dilazione di pagamento, né peraltro tale situazione giuridica soggettiva è configurabile dopo la formazione e la consegna del ruolo e nemmeno a seguito dell’istanza di dilazione di pagamento;
- lo stesso art. 19 prevede, infatti, al comma 1, che presupposto per l’ammissione al beneficio è, oltre alla detta iscrizione a ruolo, la dichiarazione (o la dimostrazione, per gli importi superiori a 60.000 euro) di una temporanea situazione di obiettiva difficoltà del debitore, da valutarsi da parte dell’agente della riscossione, ed, al comma 1 quater, gli effetti della presentazione della richiesta, tra cui non vi è quello dell’estinzione o della novazione del debito tributario riscuotibile;
- in conclusione, anche a voler ammettere l’utilità della c.d. rateazione in executivis ai fini dell’ammissione al campionato, la società non vantava alcuna pretesa giuridicamente tutelata alla formazione dei ruoli (essendo rimessa alla scelta del creditore il compimento dell’attività esecutiva, pur nei limiti e secondo le norme, anche regolamentari, che disciplinano la riscossione dei tributi erariali) e all’ammissione al beneficio (men che meno a seguito della presentazione dell’istanza soltanto alla data del 28 giugno 2021, improduttiva di effetti giuridici in assenza di atto discrezionale dell’agente della riscossione, dalla portata costitutiva, di concessione del beneficio), la cui soddisfazione possa dirsi preclusa per la sopravvenienza della normativa emergenziale.
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Sport
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Demanio - Demanio marittimo – Concessioni – Attribuzioni.
In tema di concessioni di aree demaniali marittime, il mancato ricorso a procedure di selezione aperta, pubblica e trasparente tra gli operatori economici interessati, tale da determinare un ostacolo all’ingresso di nuovi soggetti nel mercato, ove previsto dalla legislazione regionale comporta non solo l’invasione della competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., ma anche il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., per lesione dei principi di derivazione europea nella medesima materia; tali principi si estendono anche alle concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative le quali hanno come oggetto un bene/servizio limitato nel numero e nell’estensione a causa della scarsità delle risorse naturali; la spiaggia è infatti un bene pubblico demaniale (art. 822 c.c.) e perciò inalienabile e impossibilitato a formare oggetto di diritti a favore di terzi (art. 823 c.c.), sicché proprio la limitatezza nel numero e nell’estensione, oltre che la natura prettamente economica della gestione (fonte di indiscussi guadagni), giustifica il ricorso a procedure comparative per l’assegnazione (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che la Corte Costituzionale, con sentenza 24 febbraio 2017, n. 40, ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 14 della stessa legge che consentiva di confermare a favore degli originari concessionari la titolarità di almeno il 50 per cento delle aree demaniali già attribuite in concessione. Cosicché è del tutto evidente che non può aversi dubbio circa la correttezza dell’art. 8, l. reg. Puglia n. 17 del 2015 che invece prescrive il ricorso alle procedure di evidenza pubblica e non l’assegnazione diretta delle aree demaniali. Secondo la giurisprudenza della Corte, infatti, la disciplina relativa al rilascio delle concessioni su beni demaniali marittimi investe diversi ambiti materiali, attribuiti alla competenza sia statale che regionale. In tale disciplina, particolare rilevanza, quanto ai criteri e alle modalità di affidamento delle concessioni, “assumono i principi della libera concorrenza e della libertà di stabilimento, previsti dalla normativa comunitaria e nazionale” (cfr. sentenza n. 213 del 2011), principi nello specifico salvaguardati dalle procedure indicate dal citato art. 8.
In definitiva, il mancato ricorso a procedure di selezione aperta, pubblica e trasparente tra gli operatori economici interessati, determina un ostacolo all’ingresso di nuovi soggetti nel mercato, non solo risultando invasa la competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., ma conseguendone altresì il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., per lesione dei principi di derivazione europea nella medesima materia. Tale principio si estende anche alle concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative le quali hanno come oggetto un bene/servizio limitato nel numero e nell’estensione a causa della scarsità delle risorse naturali. La spiaggia è infatti un bene pubblico demaniale (art. 822 c.c.) e perciò inalienabile e impossibilitato a formare oggetto di diritti a favore di terzi (art. 823 c.c.), sicché proprio la limitatezza nel numero e nell’estensione, oltre che la natura prettamente economica della gestione (fonte di indiscussi guadagni), giustifica il ricorso a procedure comparative per l’assegnazione (in tal senso si è espressa la Corte di Giustizia Europea che ha affermato che “l’art. 12 della Dir. 2006/123/CE(38) osta a una misura nazionale che preveda l’automatica proroga del titolo concessorio, in assenza di qualsiasi procedura selettiva di valutazione degli operatori economici offerenti" – cfr. sentenza 14 luglio 2016).
Di conseguenza, qualsivoglia normativa nazionale o regionale deve in materia ispirarsi alle regole della Unione Europea sulla indizione delle gare (Cons. Stato, sez. VI, 13 aprile 2017, n. 1763), stante l’efficacia diretta nell’ordinamento interno degli Stati membri delle pronunce della Corte.
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Demanio
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Ricorso straordinario al Capo dello Stato – Ottemperanza – Decisione cautelare – Dinanzi alla Sezione consultiva – Esclusione.
Non è configurabile la competenza complementare del Consiglio di Stato in sede consultiva, atta a consentirgli di interloquire con le forme dell’ottemperanza con un’amministrazione inadempiente ad una decisione cautelare perché ciò implicherebbe, con un’interpretazione praeter legem, un’inedita potestas iudicandi che il legislatore non ha inteso attribuire alla Sezione consultiva
(1) Ha ricordato il parere che l’art. 113 c.p.a. contiene una norma attributiva della competenza per l’ottemperanza, nell’apposita sedes materiae del Libro Quarto, Titolo I, norma che dettaglia, per ciascun provvedimento ottemperando, la relativa potestas iudicandi in capo ad un giudice ben individuato fra quelli appartenenti al plesso della giustizia amministrativa.
Una lettura che volesse limitare la portata dell’art.113 c.p.a. ai soli provvedimenti giurisdizionali definitivi sarebbe, prima di tutto, contraria alla ratio del procedimento di ottemperanza, in secondo luogo, contraria alla lettera della disposizione, ed in ogni caso del tutto disfunzionale.
In presenza di disposizioni che contengono prescrizioni precise e dettagliate in materia, non si comprende perché, per ricostruire la competenza per l’ottemperanza nella fattispecie in esame, ci si debba avvalere di norme che sarebbero generiche, imprecise sotto questo aspetto, e per di più contenute in Libri e Titoli del c.p.a. che non disciplinano ex professo quel giudizio.
Se si conviene che, anche in caso di ottemperanza a provvedimenti cautelari, debba trovare applicazione l’art. 113 c.p.a., si dovrà prendere atto che tale disposizione prevede che il “giudizio di ottemperanza si propone, nel caso di cui all’art.112 comma 2, lettere a) e b) al giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta” e che, per contro, nella procedura di cui al D.P.R. n.1199 del 1971 la Sezione Consultiva, anche in sede cautelare, si limita ad esprimere un parere, ancorchè vincolante, senza emettere direttamente il “provvedimento” decisorio, suscettibile di essere eseguito nei confronti di un’amministrazione riluttante, che è invece oggetto di un apposito decreto ministeriale.
Questo dato letterale esclude che si possa profilare una competenza complementare del Consiglio di Stato in sede consultiva, atta a consentirgli di interloquire con le forme dell’ottemperanza con un’amministrazione inadempiente perché ciò implicherebbe, con un’interpretazione praeter legem, un’inedita potestas iudicandi che il legislatore non ha inteso attribuire alla Sezione consultiva.
Quanto agli artt. 59 e 99 c.p.a., gli stessi si limitano a precisare, come è evidente dal rinvio contenuto nell’art.59 cit. al Titolo I del Libro IV, e dal rinvio al Libro II Titolo II dell’art.99 cit., come il potere che regolano altro non sia che quello specificato e delineato, in punto di competenza, dalle norme del codice in materia di ottemperanza. Detto altrimenti, non sembra possibile inferire da queste disposizioni, che hanno la, limitata, funzione di estendere i poteri dell’ottemperanza anche alla fase cautelare, l’attribuzione di competenza, altra ed aggiuntiva, in capo ad un organo che, si badi bene, come già detto, non emette la misura cautelare, ma si limita ad esprimere un parere in ordine alla sua concedibilità.
Inoltre, il riconoscimento di una cognizione estesa al merito e di poteri di accertamento della nullità di atti in sede di ricorso straordinario risulterebbe in contrasto con la disciplina del ricorso straordinario che, a differenza di quanto previsto dall’art. 134 c.p.a. per il “giudice amministrativo”, non contempla “materie di giurisdizione estesa al merito”, né prevede, a differenza di quanto previsto dall’art. 114, comma 4, lett. b), c.p.a., l’esperibilità di azioni di accertamento, quali, ad esempio, quelle volte a dichiarare la “nullità di atti in violazione o elusione del giudicato”, o di condanna, essendo il rimedio ammesso solo per proporre azioni di annullamento, per motivi di legittimità, di atti amministrativi definitivi (art. 8, comma 1, d.P.R. n. 1199/1971).
Aggiungasi che l’avversa interpretazione rischierebbe di porsi in contraddizione con la natura, ed in ultima analisi, con la funzione ricoperta dal ricorso straordinario. Si tratta di un rito tuttora ancorato – come osservato - ad una struttura, ed a un conseguente regime impugnatorio, che attesa la sua conformazione, è del tutto inidoneo alla gestione di una fase esecutiva con una cognizione estesa al merito. Basti pensare che, nella fase di cognizione, il Supremo organo della giustizia amministrativa interviene con specifico riferimento ad una fase, quella di orientamento della decisione amministrativa, che ha un punto di contatto solo mediato con la decisione finale dell’amministrazione che, unica, potrebbe consentire l’ottenimento del “bene della vita” al quale il ricorrente aspira. Raggiungimento del bene della vita che rappresenta invece l’obiettivo esclusivo del rito dell’ottemperanza. La significativa intermediazione, che caratterizza la presente procedura, esistente tra organo consultivo ed amministrazione, rischierebbe di rendere rarefatto ed artificioso lo stesso procedimento di ottemperanza, anche perché, a volere rispettare lo schema di fondo del rito ex d.p.r. 1199 cit., anche l’ottemperanza sarebbe un giudizio in cui il Consiglio di Stato si dovrebbe limitare a proporre pareri senza poter direttamente decidere in luogo della P.A. E ciò comporterebbe inevitabili inefficienze ed ulteriori ritardi, in palese contrasto con la ratio del rimedio.
Quanto all’ulteriore argomento su cui si fonda l’orientamento da cui si dissente, cioè il rischio di disaccordo tra quanto ritenuto dalla Sezione consultiva in sede cautelare rispetto a diverse valutazioni della Sezione giurisdizionale in sede di ottemperanza, non rappresenta un dubbio fondato, a parere del Collegio. Quella segnalata è invero un’evenienza del tutto fisiologica che, per quanto riguarda l’ottemperanza alle sentenze definitive del giudice civile, è persino stata contemplata dal legislatore al comma 2 dell’art.113, quando ha attribuito la competenza per l’ottemperanza al Tribunale Amministrativo Regionale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che emesso l’ottemperanza.
Fermi gli esposti dirimenti rilievi in punto di competenza, va, comunque, incidentalmente osservato in termini generali che il puntuale adempimento della misura cautelare disposta, a seguito del parere del Consiglio di Stato, “con atto motivato del ministero competente”, ai sensi dell’art. 3, comma 4, l. n. 205 del 2000, costituisce l’oggetto di un preciso obbligo giuridico a carico dell’Amministrazione, cosicché la mancata esecuzione di tale misura, ove ricorrano gli altri elementi della fattispecie, può costituire un illecito e fondare un’azione risarcitoria (anch’essa, tuttavia, non proponibile in sede di ricorso straordinario per le ragioni già esposte).
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Ricorso straordinario al Capo dello Stato
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Edilizia – Convenzione urbanistica – Termini di adempimento delle obbligazioni – Mancata indicazione – Conseguenza.
Edilizia – Convenzione urbanistica – Obbligazioni – Soggetti tenuti all’adempimento – Individuazione.
Anche nei casi in cui la convenzione urbanistica non disponga espressamente in ordine a tutti o a singoli termini di adempimento delle obbligazioni, tale termine non deve – sempre e necessariamente - coincidere con il termine finale di efficacia dello strumento urbanistico secondario, ben potendo dipendere dalla natura dell’opera di urbanizzazione e dal suo carattere di strumentalità con quanto venga edificato (1).
All’adempimento delle obbligazioni derivanti dalle convenzioni urbanistiche sono tenuti non solo i soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono i titoli edilizi nell’ambito della lottizzazione, quelli che realizzano l'edificazione ed i loro aventi causa (2).
(1) Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2019, n. 3127.
Si intende affermare che – fermo il termine generale di adempimento delle obbligazioni del privato alla data di scadenza della convenzione - nel caso di opere di urbanizzazione strettamente connesse alla edificazione ed alla abitabilità di immobili a realizzarsi, occorre verificare – caso per caso – se il termine di adempimento dell’obbligazione di realizzazione di dette opere non debba coincidere con quello di realizzazione dei manufatti edilizi previsti dal piano.
Allo stesso tempo, laddove (anche) a fronte di una edificazione non vi sia un contestuale ed altrettanto tempestivo e coerente adempimento delle altre obbligazioni, ben può il Comune sollecitare al privato (o comunque al soggetto che ha sottoscritto la convenzione) l’adempimento delle proprie obbligazioni. E ciò a maggior ragione laddove l’amministrazione abbia (in tutto o in parte) adempiuto alle proprie per il tramite del rilascio dei titoli autorizzatori edilizi.
Occorre, infatti, ricordare che ciò che si definisce, sul piano negoziale della convenzione, in termini di obbligazioni dei contraenti e loro adempimento, costituisce anche, sul piano pubblicistico della pianificazione urbanistica, perseguimento dell’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio; interesse pubblico che non viene soddisfatto laddove, a fronte della realizzazione parziale di un piano attuativo per il tramite dell’edificazione di quanto consentito, non vi sia anche contestuale realizzazione delle opere di urbanizzazione previste.
L’interesse pubblico alla corretta utilizzazione del territorio per il tramite della pianificazione urbanistica, anche secondaria, si cura e persegue per il tramite della completa e contestuale realizzazione di quanto previsto dal piano approvato; proprio per tale ragione il legislatore, fin dalla legge urbanistica del 1942, ha sempre richiesto approvazione contestuale del piano e dello schema di convenzione.
D’altra parte, diversamente opinando, l’amministrazione (a maggior ragione nei casi in cui abbia rilasciato i titoli edilizi), non potrebbe far altro che attendere (laddove non diversamente previsto) che scada il termine di efficacia del piano (e/o della convenzione) a suo tempo approvati, onde verificare l’intervenuto inadempimento delle obbligazioni, e in particolare di quelle connesse agli oneri di urbanizzazione, con la conseguenza di dover supporre – quasi come ipotesi ordinaria in presenza di patologie del rapporto - che opere di urbanizzazione caratterizzanti un determinato strumento urbanistico vengano verosimilmente realizzate oltre il termine di efficacia del medesimo.
Né l’interesse pubblico può dirsi realizzato solo applicando eventuali sanzioni previste per l’inadempimento.
Pertanto, per un verso, alla luce delle considerazioni innanzi esposte, ben può l’amministrazione sollecitare il privato all’adempimento delle proprie obbligazioni, anche prima della scadenza del termine di efficacia dello strumento urbanistico, a maggior ragione nei casi in cui, per la natura stessa della prestazione, appaia evidente ed inevitabile il superamento del termine di efficacia del piano.
Tale conclusione coincide anche con quanto in generale previsto dagli artt. 1183-1185 c.c., poiché l'inadempimento contrattuale può concretarsi anche prima della scadenza prevista per l'adempimento, qualora il debitore - in violazione dell'obbligo di buona fede - tenga una condotta incompatibile con la volontà di adempiere alla scadenza (Cass civ., sez. II, 21 dicembre 2012, n. 23823).
Per altro verso – laddove si consideri che il termine finale per l’adempimento è proprio quello di efficacia del piano urbanistico – tale termine costituisce in ogni caso anche il dies a quo per l’azione di adempimento o di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, non potendosi ritenere, ex art. 2935 c.c., che – in costanza di termine per adempiere – possa correre la prescrizione, non potendo l’amministrazione in tale lasso di tempo, esercitare i propri diritti (Cons. Stato, sez. IV, 15 ottobre 2019, n. 7008; id. 14 maggio 2019, n. 3127). LINK
(2) Cass. civ., 28 giugno 2013 n. 16401; 15 maggio 2007, n. 11196; id 27 agosto 2002, n. 12571; Cons. Stato, sez. IV, 9 gennaio 2019, n. 199; id., sez. II, 23 settembre 2019, n. 6282.
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Edilizia
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Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto fornitura - Accordo-quadro multioperatore per la fornitura di farmaci biologici a brevetto scaduto – Esistenza di biosimilari - Libertà di prescrizione del medico – Condizione.
L’art. 15, comma 11-quater, lett. c), d.l. n. 95 del 2012 - nella parte in cui dispone che, «al fine di garantire un’effettiva razionalizzazione della spesa e nel contempo un’ampia disponibilità delle terapie» il medico deve anzitutto orientarsi, nello scegliere il farmaco da prescrivere, su uno dei primi tre farmaci classificati nella graduatoria dell’accordo-quadro multioperatore, ai sensi dell’art. 54, d.lgs. n. 50 del 2016, previsto per la fornitura di farmaci biologici a brevetto scaduto per i quali sono attualmente disponibili sul mercato i relativi biosimilari e, solo ove ritenga che nessuno di essi sia appropriato, potrà (continuare a) prescrivere al paziente, con l’obbligo di una adeguata e specifica motivazione, un farmaco diverso da questi, purché “incluso” nel lotto di gara, senza alcuna ripercussione sul regime della rimborsabilità previsto dalla legge, su tutto il territorio nazionale, a carico del Servizio sanitario - non intende riferirsi ai (soli) farmaci ammessi alla gara e/o classificatisi dopo il terzo, ma a tutti i farmaci che, da un punto di vista scientifico, per medesimo principio attivo, per medesimo dosaggio e per medesima somministrazione, hanno le caratteristiche di biosimilarità per rientrare nello stesso lotto unico (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che in virtù di quanto prescrive l’art. 15, comma 11-quater, lett. c), d.l. n. 95 del 2012, secondo una interpretazione di questa disposizione ispirata a ragionevolezza e costituzionalmente imposta, «al fine di garantire un’effettiva razionalizzazione della spesa e nel contempo un’ampia disponibilità delle terapie» il medico deve anzitutto orientarsi, nello scegliere il farmaco, su uno dei primi tre farmaci classificati nella graduatoria dell’accordo-quadro e, solo ove ritenga che nessuno di essi sia appropriato, potrà (continuare a) prescrivere al paziente, con l’obbligo di una adeguata e specifica motivazione, un farmaco diverso da questi, purché “incluso” nel lotto di gara (nel senso che si dirà), senza ovviamente alcuna ripercussione sul regime della rimborsabilità previsto dalla legge, su tutto il territorio nazionale, a carico del Servizio sanitario.
La consolidata giurisprudenza di questa Sezione, nell’avallare il bilanciamento tra l’interesse pubblicistico della stazione appaltante ad indire la gara e il diritto alla salute dei pazienti, ha affermato in più occasioni che l’obbligo di una rigorosa motivazione da parte del medico, che ritenga di dover necessariamente utilizzare un farmaco più costoso rispetto a quelli di gara, non può considerarsi limitativo della libertà prescrittiva, tenuto conto che, attraverso tale motivazione, comunque giustificata dalla necessità di tenere sotto controllo l’ammontare della spesa pubblica sanitaria in virtù della c.d. appropriatezza prescrittiva, il medico può comunque disporre l’utilizzazione del farmaco da lui ritenuto maggiormente appropriato al caso di specie.
La pubblica amministrazione non è infatti sempre tenuta a servirsi del farmaco in assoluto più evoluto, o ritenuto migliore, soprattutto se questo è più costoso di altro di pari e sicura efficacia nella terapia nella maggior parte dei casi trattati, ferma restando la possibilità di acquisire anche il primo, se ciò si rivela, per una parte dei pazienti da trattare, realmente necessario (Cons. St., sez. III, 3 dicembre 2015, n. 5476; id. 14 novembre 2017, n. 5251).
È chiaro dunque che la lett. e) dell’art. 15, comma 11-quater, d.l. n. 95 del 2012, nello stabilire che «eventuali oneri economici aggiuntivi, derivanti dal mancato rispetto delle disposizioni del presente comma, non possono essere posti a carico del Servizio sanitario nazionale», si riferisce non già alla prescrizione di un farmaco appropriato diverso dai primi tre classificati da parte del medico secondo scienza e coscienza, bensì alla prescrizione di un farmaco inappropriato e, cioè, che sia prescritto dal medico, in modo irragionevole e/o immotivato, rispetto alle tre alternative terapeutiche, una delle quali risulti almeno adeguata a tutelare la salute del singolo paziente.
La disposizione rimanda evidentemente, come si è accennato, al concetto di appropriatezza prescrittiva, principio-cardine, ormai, del nostro ordinamento sanitario, e immanente al sistema, per un razionale contenimento della spesa pubblica e un’equilibrata erogazione delle cure a tutti i cittadini senza inutili dispendi, in quanto anche il medico, nel prescrivere il farmaco nella propria autonomia decisionale e secondo scienza e coscienza, deve essere consapevole e viene chiamato dal legislatore ad essere responsabile delle ripercussioni economiche di una scelta non appropriata sull’organizzazione Servizio sanitario nazionale in punto di sostenibilità, laddove il medesimo risultato terapeutico per il paziente possa essere garantito, in condizioni di eguale efficienza e di piena sicurezza, dalla prescrizione di uno dei tre farmaci primi classificati, meno costosi rispetto a detto farmaco, secondo quanto è risultato all’esito di un corretto confronto concorrenziale in sede di gara.
Nell’adozione di questa necessaria linea interpretativa si spiega allora come il legislatore, quando nell’art. 15, comma 11-quater, lett. b), del d.l. n. 95 del 2012, allude ai farmaci “inclusi” nella procedura di cui alla lett. a), prescrivibili dal medico oltre ai primi tre classificati, non intenda riferirsi ai (soli) farmaci ammessi alla gara e/o classificatisi dopo il terzo, ma a tutti i farmaci che, da un punto di vista scientifico, per medesimo principio attivo, per medesimo dosaggio e per medesima somministrazione, hanno le caratteristiche di biosimilarità per rientrare nello stesso lotto unico, perché, diversamente ragionando e considerando, peraltro in modo antiletterale, l’espressione “inclusi” come sinonimo di “ammessi”, l’esclusione dalla gara nei confronti del farmaco più costoso, ma necessario in rapporto al singolo paziente quantomeno per ragioni di continuità terapeutica, costituirebbe un limite irragionevole alla prescrizione del farmaco da parte del medico o alla sua rimborsabilità, nonostante la sua (permanente) insostituibilità per il singolo paziente, e dunque un ostacolo inaccettabile, per mere ragioni di risparmio, al fondamentale diritto alla salute del paziente stesso, con evidente violazione dell’art. 32 Cost.
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Magistrati - Magistrati ordinari – Presidente della Corte di cassazione – Nomina – Difetto di motivazione – Illegittimità – Fattispecie.
E’ illegittima la nomina del Presidente della Corte di cassazione per carenza di motivazione, particolarmente necessaria a fronte, rispetto all’altro candidato, di una minore anzianità all'interno della Cassazione (venticinque anni contro i cinque di Curzio) e di un numero minore di sentenze depositate, ferma restando l’ulteriore attività valutativa del Csm, tenendo conto degli specifici motivi che hanno determinato l’annullamento, restando pertanto piena (ed esclusiva) la discrezionalità delle valutazioni di merito sulla prevalenza di un candidato rispetto agli altri (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che per consolidata giurisprudenza il Testo unico sulla dirigenza giudiziaria, difettando la clausola legislativa a regolamentare e riguardando comunque una materia riservata alla legge (art. 108, 1° comma, Cost.), non costituisce un atto normativo, ma un atto amministrativo di autovincolo nella futura esplicazione della discrezionalità del Csm a specificazione generale di fattispecie in funzione di integrazione, o anche suppletiva dei principi specifici espressi dalla legge: vale a dire si tratta soltanto di una delibera che vincola in via generale la futura attività discrezionale dell’organo di governo autonomo (in termini, tra le tante, Cons. Stato, sez. V, 27 settembre 2021, n. 6476; id. 26 maggio 2020, n. 3339; id. 28 febbraio 2020, nn. 1448 e 1450; id. 7 febbraio 2020, n. 976; id. 22 gennaio 2020, n. 524; id. 9 gennaio 2020, nn. 192 e 195; id. 7 gennaio 2020, nn. 71 e 84; id. 2 gennaio 2020, nn. 8 e 9; id. 2 agosto 2019, n. 5492; id. 17 gennaio 2018, n. 271; id. 6 settembre 2017, nn. 4215 e 4216). Per conseguenza il Testo unico non reca norme, cioè regole di diritto, ma solo pone criteri per un futuro e coerente esercizio della discrezionalità valutativa dell’organo di governo autonomo: sicché un successivo contrasto con le sue previsioni non concretizza una violazione di precetti, ma un discostamento da quei criteri che, per la pari ordinazione dell’atto e il carattere astratto del primo, va di volta in volta giustificato e seriamente motivato. Ove ciò non avvenga, si manifesta un uso indebito e distorto di quel potere valutativo, vale a dire ricorre un eventuale vizio di eccesso di potere, non già di violazione di legge. In ipotesi di denunciato contrasto con il Testo unico, dunque, il sindacato di legittimità del giudice amministrativo deve vagliare se in concreto siano stati indicati e adeguatamente dimostrati esistenti i detti presupposti per derogarvi. Al tempo stesso, ove si rilevi che una previsione del Testo unico si pone in contrasto con la legge, andrà senz’altro ritenuta priva di effetti e non applicata dal giudice, quand’anche non espressamente impugnata.
Il Testo unico, a fronte delle previsioni dell’art. 12 d.lgs. n. 160 del 2006 in relazione al conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi (fra cui le funzioni direttive superiori giudicanti di legittimità, cui si riferisce in particolare il citato art. 12, comma 11, d.lgs. n. 160 del 2006) individua i due parametri generali delle «attitudini» e del «merito» ai fini della valutazione comparativa dei candidati, che confluiscono in un giudizio finale «complessivo e unitario» (art. 2, comma 1, Testo unico).
In relazione alle attitudini il Testo unico distingue poi due categorie di indicatori utili alla valutazione individuale e comparativa dei magistrati: gli indicatori «generali», di cui agli artt. 6 ss. del Testo unico (Sezione I, Capo I, Parte II), e gli indicatori «specifici», previsti dagli artt. 14 ss. (Sezione II del medesimo Capo).
Ai fini della valutazione comparativa delle attitudini, l’art. 26 stabilisce a sua volta che il giudizio è formulato in maniera complessiva e unitaria, frutto della valutazione integrata e non meramente cumulativa degli indicatori, e precisa come «nell’ambito di tale valutazione, speciale rilievo è attribuito agli indicatori individuati negli articoli da 15 a 23 in relazione a ciascuna delle tipologie di ufficio» (cfr. art. 26, comma 3), e cioè agli indicatori specifici.
Il Consiglio di Stato ha chiaramente posto in risalto, in proposito, che lo «speciale rilievo» attribuito agli indicatori specifici ex art. 26, comma 3, Testo unico va inteso “nel senso, evidenziato dalla relazione illustrativa del T.U., che ‘gli elementi e le circostanze sottese agli indicatori specifici, proprio per la loro più marcata attinenza al profilo professionale richiesto per il posto da ricoprire, abbiano un adeguato spazio valutativo e una rafforzata funzione selettiva’, in ordine alle caratteristiche dell’incarico da conferire.
Pertanto, laddove un candidato possa in concreto vantare indicatori specifici, questo ‘speciale rilievo’ che va ad essi dato implica che non se ne possa pretermettere la valutazione e il peso. Il che, se non significa che senz’altro debbano contrassegnare la prevalenza di quel candidato su altri candidati, impone nondimeno l’onere di una particolare ed adeguata motivazione, nella valutazione complessiva, nell’ipotetica preferenza per un candidato che ne sia privo (o sia in possesso di indicatori specifici meno significativi): per modo che ne sia evidenziata e giustificata, attraverso il puntuale esame curriculare, la maggiore ‘attitudine generale’ o il particolare ‘merito’” (Cons. Stato, sez. V, 31 agosto 2021, n. 6127; id. 4 agosto 2021, n. 5475; 29 marzo 2021, n. 2647; id. 20 ottobre 2020, n. 6328; id. 29 ottobre 2018, n. 6137).
La Sezione ha ancora aggiunto, in via preliminare, che il Csm, organo di rilievo costituzionale cui solo spettano le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, nonché le promozioni ed i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati (ex art. 105 Cost.) per garanzia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, è titolare - per quanto qui di rilievo, ai fini del conferimento degli incarichi direttivi - di un’ampia discrezionalità, il cui contenuto resta estraneo al sindacato di legittimità del giudice amministrativo salvo che per irragionevolezza, omissione o travisamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione, senza alcun apprezzamento che possa sconfinare nella valutazione di opportunità, convenienza o condivisibilità della scelta (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 11 maggio 2021, nn. 3712 e 3713; id. 12 febbraio 2021, n. 1257; id. 10 febbraio 2021, n. 1238; id. 10 febbraio 2021, n. 1077; id. 11 gennaio 2021, nn. 331 e 332; id. 16 novembre 2020, nn. 7095 e 7098; id. 19 maggio 2020, n. 3171; id. 14 maggio 2021, n. 3047; id. 9 gennaio 2020, n. 192; id. 5 giugno 2019, n. 3817; 4 gennaio 2019, n. 97; id. 5 marzo 2018, n. 1345; id. 23 gennaio 2018, n. 432; id. 17 gennaio 2018, n. 271).
Di qui un sindacato di legittimità astretto ai vincoli e limiti suesposti indicati dalla giurisprudenza sopra richiamata.
Ad avviso della Sezione l’oggettiva consistenza dei dati curriculari nei termini suindicati avrebbe richiesto una (ben diversa e) più adeguata motivazione in ordine alla conclusione di ritenuta equivalenza dei profili dei candidati, conclusione che non risulta invece allo stato esplicabile né ragionevolmente intellegibile alla luce dello scarno passaggio motivazionale speso dal Csm al riguardo.
Tanto in più in un caso, quale quello in esame, in cui l’importanza del posto a concorso, gli eccellenti profili dei candidati in competizione e la indiscutibile rilevanza dei loro curricula impongono - oltre all’attenta, accurata e completa ricognizione di tutti gli aspetti della rispettiva carriera, anche attraverso la opportuna comparazione - un particolare obbligo di motivazione, puntuale ed analitico, tale da far emergere in modo quanto più preciso ed esauriente le ragioni della prevalenza di un candidato sull’altro.
Ferma infatti l’esclusiva attribuzione al Csm del merito delle valutazioni, su cui non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale, nella specie la motivazione posta a fondamento della valutazione si manifesta gravemente lacunosa e irragionevole.
Di qui l’illegittimità della delibera, considerato del resto che il vizio ravvisato in relazione agli indicatori specifici - cui compete, insieme a quello di cui alla lett. d) dell’art. 21 lo speciale rilievo nella valutazione di cui all’art. 26, comma 3, (oltreché art. 33) Testo unico - risulta di suo efficiente ai fini dell’alterazione dell’equilibrio motivazionale posto a fondamento della delibera, che, accertato il vizio nei termini suindicati, non vale più a sorreggere e giustificare le conclusioni finali cui il Csm è pervenuto.
Ha infine chiarito la Sezione che l’accoglimento dell’appello implica la rieffusione del potere amministrativo, nel rispetto delle competenze e attribuzioni proprie del Csm, in conformità con le superiori statuizioni.
Va infatti ribadito il principio generale, già affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, che l’annullamento degli atti non esautora il Consiglio Superiore della Magistratura dall’esercizio delle funzioni attribuite dalla Costituzione e dalla legge, in particolare di conferire gli incarichi direttivi degli uffici giudiziari, comportando invece l’obbligo di riprovvedere, tenendo conto degli specifici motivi che hanno determinato l’annullamento, restando pertanto piena (ed esclusiva) la discrezionalità delle valutazioni di merito sulla prevalenza di un candidato rispetto agli altri (Cons. Stato n. 4584 del 2020).
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Magistrati
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Edilizia – Oneri di costruzione – Scomputo - Convenzioni accessive a provvedimenti amministrativi ampliativi in materia edilizia – esclusione.
Le convenzioni accessive a provvedimenti amministrativi ampliativi in materia edilizia possano consentire lo scomputo degli oneri di urbanizzazione, ma non anche del costo di costruzione (1).
(1) Osserva la Sezione che l’istituto della datio in solutum consiste nell’accordo negoziale fra creditore e debitore circa l’effettuazione, con effetto estintivo dell’obbligazione, di una prestazione diversa da quella originariamente dedotta in contratto: come tale, l’istituto è espressione della disponibilità del diritto (e del sovrastante rapporto obbligatorio) di cui, viceversa, l’Amministrazione impositrice, per le ragioni sopra enucleate, difetta ex lege ab origine.
Di converso, la locuzione “con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune” contenuta nell’art. 16, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 non dimostra né sottende un’implicita autorizzazione legislativa a convenire pattiziamente forme solutorie alternative a quella monetaria.
In disparte il rilievo che un’eccezione di tale portata richiederebbe una disciplina espressa ed esplicita, è sufficiente considerare che tale locuzione va letta nell’ambito della generale disciplina apprestata dal comma in discorso, afferente alla realizzazione diretta, da parte del privato, delle opere di urbanizzazione: ne consegue che le “modalità” in questione sono solo quelle strettamente afferenti alla concreta esecuzione delle opere de quibus (tempistica, modalità costruttive, qualità dei materiali, et similia).
Peraltro, l’ammissione della negoziabilità delle modalità solutorie delle obbligazioni tributarie (o, comunque, disciplinate dal diritto pubblico) cozzerebbe frontalmente con i principi costitutivi su cui si regge il vigente sistema di contabilità pubblica, fondato sulla generale e rigida indisponibilità anche per l’Amministrazione, salve specifiche e puntuali disposizioni legislative, di tutta la disciplina del tributo (o, comunque, della prestazione patrimoniale imposta) per come delineata dalla legge.
La Sezione esclude anche la possibilità di richiamare l’istituto della compensazione.
La compensazione è un istituto ontologicamente diverso dall’anelata facoltà di scomputo cui il presente giudizio inerisce.
Invero, la compensazione (che, peraltro, nel settore tributario opera solo in base ad espressa previsione normativa – cfr. art. 8, comma 6, l. n. 212 del 2000) valorizza a fini estintivi dell’obbligazione la compresenza, in capo all’Amministrazione ed al contribuente, di individuate ragioni contrapposte di credito/debito, laddove lo scomputo del costo di costruzione derogherebbe, senza alcuna base legislativa, all’ordinaria regula juris di natura pubblicistica per cui il pagamento dei tributi (e, più in generale, delle prestazioni di diritto pubblico) si fa in moneta.
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Edilizia
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Processo amministrativo – Prove – Onere della prova - Giudizi su diritti soggettivi – Limiti.
Processo amministrativo – Appello – Prove nuove – Limiti.
Nei giudizi su diritti soggettivi che si svolgono davanti al giudice amministrativo, la misura e l’ampiezza dell’onere della prova deve essere valutato caso per caso, avuto riguardo al dato sostanziale della disponibilità o meno delle prove in capo alle parti e, su questa base, tarare e calibrare, in modo assai rigoroso, l’esercizio istruttorio “suppletivo” condotto dal giudice (1).
Il potere istruttorio attribuito al giudice d’appello non può essere esercitato per sanare preclusioni e decadenze già verificatesi in primo grado ed imputabili alla parte; è, invece, esercitabile se la lacuna istruttoria è imputabile ad un’omissione del giudice di primo grado (2).
(1) Ha ricordato la Sezione che, con riguardo ai poteri istruttori esercitabili dal giudice amministrativo, il legislatore, ai sensi degli artt. 63, 64 e 65 c.p.a., ha recepito il tradizionale indirizzo giurisprudenziale che ha delineato un modello intermedio, tra quello dispositivo puro e quello inquisitorio puro, c.d. dispositivo con metodo acquisitivo, in cui l’onere della prova si attenua nel più sfumato onere del principio di prova (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 2847 del 2008, n. 7343 del 2005), con la conseguenza che il giudice esercita un potere di soccorso della parte che non è in grado, senza colpa, di fornire la prova dei fatti dedotti, pur potendo fornire un “principio di prova”.
E’ altresì noto che la ragione di tale modello istruttorio riposa sulla necessità di riequilibrare la posizione di sostanziale disparità tra le parti del giudizio, essendo evidente come, nel processo amministrativo impugnatorio per la tutela di interessi legittimi, la posizione processuale della parte privata, nell’accedere alla documentazione rilevante, risenta della condizione di sostanziale inferiorità rispetto alla pubblica amministrazione, con la conseguente necessità dell’intervento in soccorso da parte del giudice amministrativo (artt. 64, comma 3, e 65, commi 1 e 3, c.p.a.).
A differenza dell’art. 2697 c.c., dall’art. 64, comma 1, c.p.a. si ricava una correlazione - tipica del processo amministrativo - tra onere della prova e disponibilità della prova stessa: l’onere della prova cioè sussiste nei limiti della disponibilità e non oltre: il criterio di riparto dell’onere probatorio non è individuato in ragione di uno schema precostituito ed astratto, incentrato sulla valenza dei fatti (costitutiva, ovvero modificativa o estintiva), ma secondo un criterio flessibile ispirato al principio di vicinanza della prova, di modo che – qualora il privato ricorrente non sia nella disponibilità della prova – venga sollevato dal relativo onere, che verrà addossato sulla pubblica amministrazione, la quale dovrà depositare gli atti che siano nella sua disponibilità (art. 64, comma 3, c.p.a.).
Sulle parti grava comunque l’onere di allegare i fatti da provare, e dunque di circoscrivere non solo il thema decidendum, ma anche il thema probandum: è massima consolidata quella secondo cui, sebbene, in tema di prova, il processo amministrativo impugnatorio non sia retto dal principio dispositivo pieno, tuttavia l’attività istruttoria d’ufficio del giudice presuppone quanto meno l’allegazione dei fatti da provare, ad opera delle parti, in maniera sufficientemente circostanziata e precisa (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 4862 del 2001); permane in sostanza l’onere del principio di prova e l’attività istruttoria che può svolgere il giudice amministrativo ha carattere complementare ed integrativo, mai invece sostitutivo della parte rimasta colpevolmente inerte.
Nei contenziosi vertenti su diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo – ove viene in luce uno stretto intreccio fra rapporto paritario e rapporto autoritativo – le regole processuali in materia di poteri istruttori del giudice amministrativo restano identiche: tuttavia nelle liti sui diritti soggettivi, l’onere del principio di prova va valutato con particolare rigore, in relazione ai fatti che rientrano nella disponibilità della parte attrice (sia essa pubblica o privata).
Si deve, infatti, considerare che le norme del processo amministrativo, relative ai poteri istruttori d’ufficio del giudice (artt. 63, 64 e 65 c.p.a.), non distinguono tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione esclusiva, essendo pertanto in astratto applicabili ad entrambi i tipi di giurisdizione; d’altro canto, nel processo civile, non sono esclusi poteri istruttori d’ufficio anche in relazione ai diritti soggettivi (emblematico è il processo del lavoro).
Il giudice amministrativo, nel suo prudente apprezzamento, deve da un lato rispettare il principio della parità delle parti, dall’altro lato – come visto - deve considerare che la ratio della sua iniziativa istruttoria è quella di colmare situazioni effettive di disparità tra le medesime parti, per venire in soccorso di quella parte che, pur con la dovuta diligenza, non è riuscita ad avere la disponibilità delle prove: sicché se deve ammettersi, in astratto, la possibilità di esercizio da parte del giudice amministrativo di poteri istruttori d’ufficio anche in relazione a diritti soggettivi, tuttavia tale esercizio deve costituire una extrema ratio.
In altre parole nei giudizi su diritti soggettivi che si svolgono davanti al giudice amministrativo, la misura e l’ampiezza dell’onere della prova deve essere valutato caso per caso, avuto riguardo al dato sostanziale della disponibilità o meno delle prove in capo alle parti e, su questa base, tarare e calibrare, in modo assai rigoroso, l’esercizio istruttorio “suppletivo” condotto dal giudice.
Analogamente, nel processo su interessi legittimi, si è ad esempio escluso il potere istruttorio d’ufficio da parte del giudice, per la prova di fatti che rientrano nella disponibilità della parte, quale è la prova della qualità di erede ai fini della legittimazione ad agire: il principio dispositivo puro deve trovare integrale applicazione qualora non ricorra quella disuguaglianza di posizioni tra amministrazione e privato, che giustifica in generale l’applicazione, nel processo amministrativo, del principio dispositivo con metodo acquisitivo.
(2) Ha chiarito la Sezione che il potere del giudice di appello di acquisire d’ufficio nuove prove, che ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, è da ritenere esercitabile non sempre e comunque, ma solo se le prove non potevano oggettivamente essere prodotte in primo grado: perché la parte non ne aveva la disponibilità, o perché l’esigenza istruttoria è sorta solo in appello.
Il potere del giudice di appello di acquisire d’ufficio nuove prove, che ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, non è esercitabile quando la lacuna istruttoria è interamente imputabile alla parte, poiché in ossequio al principio dispositivo (anche con metodo acquisitivo), il potere istruttorio d’ufficio del giudice amministrativo può essere esercitato a soccorso della parte che non ha la disponibilità delle prove, ma non a supplenza della parte che, pur avendo la disponibilità delle prove, non le abbia prodotte e non adduca giustificazioni per la sua omissione.
Se la lacuna istruttoria è imputabile ad un’omissione del giudice di primo grado, è invece ammissibile l’integrazione istruttoria in appello.
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Processo amministrativo
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Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi – Servizio Cup di struttura ASL – Coordinamento della Asl – Configurabilità di illecita intermediazione ed interposizione di manodopera – Esclusione.
L’attribuzione dei compiti di coordinamento delle attività degli operatori di sportello CUP affidate all’aggiudicataria del relativo servizio ad una struttura della ASL, non comporta che l’affidamento ha ad oggetto solo la messa a disposizione della prestazione lavorativa degli operatori, integrante una ipotesi di (illecita) intermediazione ed interposizione di manodopera (1).
(1) Ha rilevato la Sezione che la distinzione tra appalto e interposizione di manodopera – con il connesso divieto di ricorrere alla seconda in difetto dei relativi presupposti legittimanti - trova la sua base normativa nel disposto dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003, ai sensi del quale “ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell'articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto, dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d'impresa”.
Trattasi, quindi, di distinzione (e di connesso divieto) che trova il suo contesto applicativo tipico ed esclusivo nei casi in cui il committente e l’affidatario (di una prestazione di facere) si pongano in una relazione di alterità soggettiva, nell’ambito della quale, tra le rispettive strutture organizzative, non siano ravvisabili interferenze, conservando esse la propria autonomia funzionale: ricorrendo tale (ordinaria) situazione organizzativa, infatti, il legislatore ha avvertito l’esigenza di evitare fenomeni di fittizia imputazione del rapporto di lavoro, suscettibili di incidere sulla tutela dei lavoratori e di generare dubbi sulla univoca individuazione della figura datoriale.
Tali essendo i presupposti applicativi (e la stessa ratio) della previsione in esame, è evidente che gli stessi non ricorrono laddove lo stesso legislatore ammetta la legittimità di forme di affidamento diretto di un servizio tra soggetti appartenenti ad un centro di imputazione di interessi sostanzialmente unitario (sebbene formalmente articolato in una duplice soggettività giuridica), siccome accomunati dal perseguimento di un unico obiettivo attraverso la predisposizione di una struttura organizzativa strettamente compenetrata ed unitariamente diretta: quale appunto si riscontra nell’ipotesi della cd. società in house.
E’ noto, infatti, che, ai fini della configurazione del requisito del cd. controllo analogo dell’ente pubblico partecipante nei confronti della società in house, quel che rileva è che il primo abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della seconda, i cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera e propria subordinazione gerarchica: ciò in quanto l’espressione “controllo” non può essere ritenuto sinonimo di un’influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull'assemblea della società e, di riflesso, sulla scelta degli organi sociali, trattandosi invece di un potere di comando direttamente esercitato sulla gestione dell’ente con modalità e con un’intensità non riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal Codice Civile, fino al punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante autonomia gestionale (cfr. Consiglio di Stato, Ad. plen., n. 1 del 3 marzo 2008).
Nello stesso ordine di idee, è stato altresì autorevolmente ritenuto che la società in house non possa qualificarsi come un’entità posta al di fuori dell'ente pubblico, il quale ne dispone come di una propria articolazione interna: essa, infatti, rappresenta un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica, giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle relative condizioni legittimanti “esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa manus del primo» (Corte cost. n. 325 del 3 novembre 2010), talché “l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all'amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell'amministrazione stessa” (Cons. Stato, Ad. plen., n. 1 del 2008, cit.; va solo precisato che tale conclusione non cambia ove si ritenga che, in linea con la più recente normativa europea e nazionale, il ricorso all’in house providing si atteggi in termini di equiordinazione – e non più di eccezionalità – rispetto alle altre forme di affidamento).
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Processo amministrativo – Covid-19 – Giudizio cautelare – Decisione ex artt. 56 c.p.a. e 84, comma 1, d.l. n. 18 del 2020 – Fissazione dell’udienza di merito ex art. 55, comma 10, c.p.a. – Esclusione.
Con il decreto assunto in via monocratica ex art. 84, comma 1, d.l. n. 18 del 2020 non può essere fissata la decisione la data della discussione sul merito del ricorso, ai sensi dall’art. 55, comma 10, c.p.a., e ciò in quanto detta fissazione scavalcherebbe completamente la fase cautelare e non rispetterebbe le prerogative del collegio che si vedrebbe privato della possibilità di stabilire se accogliere o respingere l’istanza in fase cautelare o, addirittura, decidere con sentenza in forma semplificata (1).
(1) Il decreto ha evidenziato che la decisione cautelare monocratica speciale di cui all’art. 84, comma 1, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 non sostituisce esaustivamente la ordinaria fase collegiale in sede cautelare, ma costituisce un primo gradino della tutela cui deve necessariamente seguire la decisione del collegio, che resta il dominus della questione cui spetta la decisione finale.
Il decreto ha chiarito che in una controversia che presenta aspetti di complessità incompatibili con il carattere sommario della fase cautelare, essendo necessario l’approfondimento del fumus nel merito, anche tramite fissazione della udienza ex art. 55, comma 10, c.p.a., tale ultima decisione non può essere assunta in sede monocratica.
Ha aggiunto che benché, con il decreto si debba accertare, con gli stessi criteri utilizzati dal collegio, la sussistenza dei presupposti della pronuncia cautelare, nella fase decisoria il decreto non è completamente libero nel suo contenuto perché non può determinare una riduzione o un condizionamento dei poteri valutativi e decisori riservati in via definitiva al collegio.
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Processo amministrativo
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Edilizia – Distanze – Violazione - Norme tecniche di attuazione – Rapporto con il principio di prevenzione.
Le norme tecniche di attuazione, ove prescrivano la distanza minima di cinque metri dal confine, non vietano l’operatività del principio di prevenzione; la prescrizione contenuta nelle suddette norme, non prevedendo un obbligo inderogabile di rispettare la distanza di cinque metri ma ammettendo talune deroghe, consente l’operatività del predetto principio (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che dal combinato disposto degli artt. 871, 872 e 83 cod. civ. si ricava, in via interpretativa, l’esistenza del cd. principio di prevenzione. Esso comporta che il confinante che costruisce per primo ha una triplice facoltà, potendo edificare: i) rispettando una distanza dal confine pari alla metà di quella imposta dal codice civile; ii) sul confine; iii) a una distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta.
In questa sede rileva stabilire se tale principio possa operare anche nel caso in cui trovino applicazione fonti di diritto pubblico.
Le Sezioni unite della Cassazione hanno affermato che la portata “integrativa” dell’art. 36, d.lgs. n. 380 del 2001 non si limita soltanto alle prescrizioni che impongono una distanza minima, ma “si estende all’intero impianto di regole e principi dallo stesso dettato per disciplinare la materia, compreso il meccanismo della prevenzione”, aggiungendo, però, che i regolamenti locali possono eventualmente escludere l’operatività di tale meccanismo “prescrivendo una distanza minima delle costruzioni dal confine o negando espressamente la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza” (Cass. civ., sez. un., 19 maggio 2016, n. 10318).
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Edilizia
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Cittadinanza – Concessione – Diniego – Per vicinanza a movimento responsabile di attività delittuose – Legittimità.
È legittimo il diniego di riconoscimento della cittadinanza italiana opposto allo straniero simpatizzante o comunque idealmente vicina o in contatto con un movimento responsabile di attività gravemente delittuose, e ciò in quanto la sicurezza della Repubblica è interesse di rango certamente superiore rispetto all’interesse di uno straniero ad ottenere la cittadinanza italiana (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che il provvedimento di concessione della cittadinanza, ai sensi dell'art. 9, comma 1, lett. f), l. n. 91 del 1992, è atto squisitamente discrezionale di "alta amministrazione", condizionato all'esistenza di un interesse pubblico che con lo stesso atto si intende raggiungere e da uno status illesae dignitatis (morale e civile) di colui che lo richiede (Cons. St., sez. III, 13 novembre 2018, n. 6374; id. 27 febbraio 2019, n. 1390; id. 14 febbraio 2017, n. 657; id. 25 agosto 2016, n. 3696; id., sez. I, 20 gennaio 1993, n. 1878/94; id. 12 aprile 1995, n. 1834/91; id. 26 agosto 1998, n. 1108/96; id. 3 marzo 1999, n. 29/99).
L'Amministrazione, dopo aver accertato l'esistenza dei presupposti per proporre la domanda di cittadinanza, effettua una valutazione ampiamente discrezionale, che non può che tradursi in un apprezzamento di opportunità, circa lo stabile inserimento dello straniero nella comunità nazionale, sulle ragioni che inducono lo straniero a chiedere la nazionalità italiana e riguardo alle sue possibilità di rispettare i doveri che derivano dall'appartenenza alla comunità nazionale.
Nella valutazione articolata che spetta all'Amministrazione per concedere o meno la cittadinanza assumono rilievo tutti gli aspetti da cui è possibile desumere l’integrazione del richiedente nella comunità nazionale, sotto il profilo della conoscenza e osservanza delle regole giuridiche, civili e culturali che la connotano.
Sono, perciò, in rilievo tutti quegli aspetti che farebbero dello straniero un buon cittadino, quali la perfetta integrazione nel tessuto sociale italiano, l’assenza di precedenti penali, considerazioni di carattere economico e patrimoniale per cui si possa presumere che egli sia in grado di adempiere ai doveri di solidarietà economica e sociale richiesti a tutti i cittadini, pur senza stretti limiti reddituali imposti per legge, le condizioni familiari e di irreprensibilità della condotta.
Riconoscimento, quello della cittadinanza, per sua natura irrevocabile e che dunque presuppone che nessun dubbio, nessuna ombra di inaffidabilità del richiedente sussista, anche con valutazione prognostica per il futuro, circa la piena adesione ai valori costituzionali su cui Repubblica Italiana si fonda.
Tale valutazione discrezionale può essere sindacata in questa sede nei ristretti ambiti del controllo estrinseco e formale; il sindacato del giudice non può dunque spingersi al di là della verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole (Cons. St., sez. VI, 9 novembre 2011, n. 5913).
Ha aggiunto la Sezione che a fronte degli importanti interessi della comunità nazionale coinvolti nel procedimento l’interesse del cittadino di altro Stato a conseguire la cittadinanza italiana è inevitabilmente recessivo e sottoposto a severa verifica istruttoria, affidata non solo alle autorità locali di pubblica sicurezza (il Prefetto e il Questore, i quali nella fattispecie, come prospettato dall’appellante, non hanno evidenziato criticità), ma anche agli organismi specificamente preposti ai servizi di sicurezza dello Stato, che invece nella presente fattispecie hanno evidenziato - con modalità compatibili con la riservatezza (pure consentita perché dovuta a esigenze di sicurezza nazionale: si pensi alla tutela delle fonti di informazione) e dunque non soggette ai pieni canoni di trasparenza che debbono caratterizzare l’attività amministrativa ordinaria - possibili criticità (Cons. St., sez. II, 31 agosto 2020, n. 5326).
Come più volte chiarito (Cons. St., sez. II, 31 agosto 2020, n. 5326), non sono negati diritti fondamentali della persona garantiti a livello costituzionale, comunitario o internazionale; è stato invece negato un beneficio la cui concessione è subordinata ad una valutazione di opportunità politico-amministrativa altamente discrezionale e informata a principi di cautela, nell’interesse nazionale, senza che sia peraltro preclusa al richiedente la riproposizione dell’istanza, alla luce di eventuali successivi ed ulteriori elementi (in tesi) “favorevoli” alla sua posizione.
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Cittadinanza
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Sport - Daspo – Comportamenti violenti durante gli allenamenti – Legittimità.
E’ legittimo il provvedimento di Daspo inflitto per minacce all’arbitro durante un allenamento calcistico, potendo l’allenamento rientrare nella “manifestazione sportiva”.
(1) La Sezione ha segnalato la presenza, sul punto, di orientamenti diversi anche dei giudici penali.
L’art. 6, l. 13 dicembre 1989 n. 401 prevede che il provvedimento Daspo possa essere adottato nei confronti “delle persone che risultano denunciate o condannate anche con sentenza non definitiva nel corso degli ultimi cinque anni per uno dei reati di cui all'art. 4, primo e secondo comma, l. 18 aprile 1975, n. 110, all'art. 5, l. 22 maggio 1975, n. 152, all'art. 2, comma 2, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, l. 25 giugno 1993, n. 205, all'art. 6-bis, commi 1 e 2, e all'art. 6-ter della presente legge, ovvero per aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza, (…).
La disposizione indica con chiarezza che le condotte sanzionabili sono non soltanto quelle realizzate “in occasione” di una manifestazione sportiva, ma anche quelle poste in essere “a causa” della manifestazione sportiva stessa.
In tale quadro di riferimento non è dubitabile che gli episodi in contestazione verificatisi durante l’allenamento di una squadra di calcio partecipante alle competizioni previste dalle federazioni sportive (come definite dall’art. 2 bis, comma 1, d.l. 20 agosto 2001 n. 336, convertito nella l. 19 ottobre 2001 n. 377) sono strettamente collegati con le “manifestazioni sportive”, secondo un rapporto di diretta causalità.
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Sport
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Militari, forze armate e di polizia - Pensione - Previdenza complementare - Transiti da un Corpo militare dello Stato ad un altro - Portabilità.
Nell’ordinamento militare vige la regola della portabilità della previdenza complementare (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che un militare che transiti da un Corpo militare dello Stato ad un altro (ivi inclusa la Guardia di finanza), senza soluzione di continuità, ha il diritto di non perdere la complessiva posizione previdenziale, anche complementare, maturata nel Corpo di provenienza Ha precisato la Sezione che l’art. 1913 del codice dell’ordinamento militare richiama espressamente, quanto alla previdenza complementare, il d.lgs. n. 124 del 1993 (“Fermo restando quanto previsto per i dipendenti pubblici dal decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124…”): ne consegue che l’esegesi giurisprudenziale relativa a tale disciplina normativa, per una scelta operata direttamente dal codice dell’ordinamento militare, si estende per relationem anche all’impiego militare Tanto in coerenza con il generale principio di specificità ed autosufficienza dell’ordinamento militare, secondo cui tale ordinamento (e, in particolare, lo statuto del personale militare) è costituito dalle sole norme recate dal codice ovvero da esso richiamate, oppure da leggi speciali che espressamente vi deroghino.
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Militari, forze armate e di polizia
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Atto amministrativo – Atto condizionato – Possibilità – Limiti.
L’apposizione di elementi accidentali al provvedimento amministrativo è, in linea generale, consentita, purché essa non determini una violazione del principio di legalità (e dei suoi corollari) e non distorca la finalità per la quale il potere è stato attribuito all’amministrazione (1).
(1) Sul punto, la Sezione ha richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui: a) da tempo è ammesso l'istituto del provvedimento (di solito, abilitativo) condizionato, con ciò superando le perplessità che furono in passato manifestate in dottrina, che costruiva l'atto amministrativo all'interno della teoria generale degli atti giuridici, a sua volta modellata, com'è noto, su quella positiva del negozio giuridico di diritto tedesco e che, quindi, non credeva possibile l'apposizione di elementi accidentali nel provvedimento amministrativo (Cons. Stato, sez. VI, 6 novembre 2018, n. 6265; id., sez. V, 29 novembre 2004, n. 7762; id., sez. IV, 25 novembre 2011, n. 6260; id. 25 giugno 2013, n. 3447; id., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5615); b) “…costituisce inutile aggravio procedurale (perché non bilanciato da una sufficiente ragione di interesse pubblico) l'arresto di un procedimento, che può invece proseguire sotto la condizione sospensiva del perfezionamento di altra procedura presupposta (Cons. Stato, sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5615; id., sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3447; id. 19 aprile 2018, n. 2366).
Nel caso di specie, Il provvedimento di destituzione dal servizio veniva adottato con la seguente formula: “il presente provvedimento dispiegherà gli effetti inflittivi, a decorrere dalla data di adozione, subordinatamente all’eventuale reviviscenza, per qualunque causa, del primitivo rapporto di pubblico impiego.
La Sezione ha, peraltro, precisato che con riferimento al provvedimento in esame, tale condizione non rende né incerti gli effetti tipici del provvedimento né li distorce in modo incompatibile alla finalità per la quale il potere è stato attribuito all’amministrazione, sicché essa appare pienamente compatibile con le coordinate generali poste in apertura dell’esame del presente motivo di censura.
In ogni caso, anche qualora si dovesse ritenere viziata la condizione, dovrebbe, al più, ritenersi viziata la sola clausola condizionante, poiché il vizio che controparte adduce essere dell’intero provvedimento sarebbe, in realtà, a tutto voler concedere, solo dell’elemento accidentale.
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Atto amministrativo
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Leggi e decreti – Codice civile - Art. 10 delle preleggi – Applicabilità ai regolamenti degli Enti Locali.
Regolamenti – Enti locali – Pubblicità - Regime specifico – Possibilità.
Leggi e decreti – Codice civile - Art. 10 delle preleggi – Scopo della “vacatio legis” – Conoscenza legale di un testo definitivo.
Regolamenti – Enti locali – Pubblicità - Possibilità di osservazioni al testo - Obbligo di pronuncia da parte dell’organo che ha emesso la deliberazione – Sussiste
La disposizione di cui all’art. 10 delle preleggi, nella sua inequivoca redazione testuale, è applicabile a tutti i regolamenti degli Enti locali, essendo questi ultimi pienamente inseriti nel contesto delle fonti del diritto e non distinguendo il predetto art. 10 in ordine alla natura governativa o meno dei regolamenti (1).
É riservata all’esercizio dell’autonomia degli Enti locali l’introduzione di una diversa modalità e regime di pubblicazione: così che uno Statuto potrebbe legittimamente prevedere termini maggiori o forme più incisive di pubblicità del regolamento (1).
La fase di vacatio legis di cui all’art. 10 delle preleggi assolve esclusivamente alla funzione di rendere conoscibile (e far presumere conosciuto) un testo normativo che concorre ad integrare le fonti del diritto, nel suo testo già definitivo e non suscettibile di ulteriori modifiche (1).
La fase di pubblicazione della deliberazione è un istituto di partecipazione popolare (di antichissima origine) che insieme alla necessità di apprestare un meccanismo legale di presunzione di conoscenza nei confronti dei terzi (non direttamente incisi dai provvedimenti, mentre ai destinatari l’atto va comunque notificato) è rivolto anche a rendere possibile la presentazione di osservazioni oppure opposizioni da parte di chiunque vi abbia interesse; opposizioni che, una volta presentate, generano l’obbligo per l’organo emanante di provvedere su di esse e che dunque potrebbero condurre anche ad una modifica della deliberazione stessa prima della sua entrata in vigore (1).
(1) La Sezione, nel ritenere applicabile ai regolamenti degli Enti locali la disposizione di cui all’art. 10 delle preleggi, ha respinto l’opposta tesi difensiva secondo la quale sarebbe stata ostativa a tale interpretazione la previsione di cui all’art. 3 comma 2 delle preleggi, a norma del quale il potere regolamentare di altre autorità è esercitato nei limiti delle rispettive competenze, “in conformità delle leggi particolari” (e dunque in conformità alla disciplina del d.lgs. n. 267 del 2000 che norma la sola fase della pubblicazione delle deliberazioni all’Albo ex artt. 124 e 134). Ha osservato la Sezione che l’art. 3, comma 2, che va coordinata con l’art. 10, riserva alla legislazione speciale i presupposti di esercizio del potere regolamentare (condizioni, modalità e soprattutto ambiti e materie di disciplina), ma pur sempre restando fermo il regime generale di entrata in vigore delle norme che è sanzionato dall’art. 10 e che fa salva la possibilità di una diversa disciplina, da individuarsi caso per caso, essendo previsto che i regolamenti “divengono obbligatori nel decimoquinto giorno successivo a quello della loro pubblicazione, salvo che sia altrimenti disposto”.
Ciò implica che è riservata all’esercizio dell’autonomia degli Enti locali l’introduzione di una diversa modalità e regime di pubblicazione: così che uno Statuto potrebbe legittimamente prevedere termini maggiori o forme più incisive di pubblicità del regolamento (salvo verificarsi la possibilità di termini più brevi).
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Leggi e decreti
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Elezioni – Lista – Contrassegno - Omissione - Esclusione della lista – Legittimità.
E’ legittima l’esclusione della Lista “Prima Napoli” dalle elezioni amministrative al Comune di Napoli per non aver indicato il contrassegno della lista nel relativo modulo (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che il d.P.R. 6 maggio 1960, n. 570, per i Comuni con popolazione inferiore ai diecimila abitanti prevede che “é obbligatoria la presentazione di un contrassegno di lista, anche figurato. Il contrassegno deve essere depositato a mano su supporto digitale o in triplice esemplare in forma cartacea”; nell’art. 32, n. 1), per la presentazione delle candidature nei Comuni con popolazione superiore ai diecimila abitanti, indica “con la lista devesi anche presentare:1) un modello di contrassegno depositato a mano su supporto digitale o in triplice esemplare in forma cartacea”.
Entrambe le norme devono essere quindi interpretate nel senso della obbligatorietà della prescrizione in ordine al contrassegno, essendo evidente che le esigenze di formalità in funzione della celerità e speditezza del procedimento elettorale sussistono maggiormente per i Comuni più grandi. Nel contesto della suddetta esigenza di certezza delle situazioni giuridiche nel celere procedimento elettorale anche la ratio della disposizione di consentire alle tipografie all’uopo incaricate la facile riproduzione del contrassegno, che dovrà essere oggetto di votazione sui manifesti elettorali e sulle schede di votazione, risulta assolutamente prevalente sulla necessità di consentire eventuali integrazioni documentali.
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Elezioni
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Impresa mandante di un raggruppamento temporaneo – Presentazione concordato in bianco o con riserva ex art. 161, comma 6, legge fallimentare – Autorizzato dal tribunale - Necessità.
La presentazione di una domanda di concordato in bianco o con riserva, ai sensi dell’art. 161, comma 6, legge fallimentare non integra una causa di esclusione automatica dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali, essendo rimesso in primo luogo al giudice fallimentare in sede di rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 186 bis, comma 4, e al quale l’operatore che ha chiesto il concordato si deve tempestivamente rivolgere fornendo all’uopo le informazioni necessarie, valutare la compatibilità della partecipazione alla procedura di affidamento in funzione e nella prospettiva della continuità aziendale; la partecipazione alle gare pubbliche è dal legislatore considerata, a seguito del deposito della domanda di concordato anche in bianco o con riserva, come un atto che deve essere comunque autorizzato dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale ove già nominato, ai sensi dell’art. 186 bis, comma 4, da ultimo richiamato anche dagli artt. 80 e 110 del codice dei contratti; a tali fini l’operatore che presenta domanda di concordato in bianco o con riserva è tenuto a richiedere senza indugio l’autorizzazione, anche qualora sia già partecipante alla gara, e ad informarne prontamente la stazione appaltante; l’autorizzazione giudiziale alla partecipazione alla gara pubblica deve intervenire entro il momento dell’aggiudicazione della stessa, non occorrendo che in tale momento l’impresa, inclusa quella che ha presentato domanda di concordato in bianco o con riserva, sia anche già stata ammessa al concordato preventivo con continuità aziendale (1).
(1) La questione è stata sollevata dalla sez. V del Consiglio di Stato con ordinanza 8 gennaio 2021, n. 313.
La Sezione ha sottoposto all’Alto Consesso le questioni: “a) se la presentazione di un’istanza di concordato in bianco ex art. 161, comma 6, legge fallimentare (r.d. n. 267 del 1942) debba ritenersi causa di automatica esclusione dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali, ovvero se la presentazione di detta istanza non inibisca la partecipazione alle procedure per l’affidamento di commesse pubbliche, quanto meno nell’ipotesi in cui essa contenga una domanda prenotativa per la continuità aziendale; b) se la partecipazione alle gare pubbliche debba ritenersi atto di straordinaria amministrazione e, dunque, possa consentirsi alle imprese che abbiano presentato domanda di concordato preventivo c.d. in bianco la partecipazione alle stesse gare, soltanto previa autorizzazione giudiziale nei casi urgenti, ovvero se detta autorizzazione debba ritenersi mera condizione integrativa dell’efficacia dell’aggiudicazione; c) in quale fase della procedura di affidamento l’autorizzazione giudiziale di ammissione alla continuità aziendale debba intervenire onde ritenersi tempestiva ai fini della legittimità della partecipazione alla procedura e dell’aggiudicazione della gara;”.
Ha chiarito l’Adunanza plenaria che dal complessivo (e innegabilmente complesso) dato testuale ricavabile dal codice dei contratti, nella versione applicabile sempre ratione temporis, se ne potrebbe ricavare allora la duplice conclusione per cui la partecipazione a nuove gare sarebbe preclusa non solo a chi ha presentato domanda di concordato in bianco ma, più in generale, in tutti i casi in cui l’operatore che ha presentato domanda di concordato preventivo a norma dell’art. 161 non sia stato ancora ammesso alla procedura. Il che, nei casi di concordato con continuità, non solo condurrebbe al sicuro insuccesso dell’istituto ma contrasterebbe frontalmente con quanto si è sempre letto, in questi anni, all’art. 186 bis, comma 4, dove si dice chiaramente che tra il deposito della domanda e il decreto di apertura della procedura la partecipazione alle gare pubbliche è possibile purché sia autorizzata dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale, se nominato (un ulteriore indice, in favore della possibilità di partecipare alle gare anche prima dell’ammissione al concordato, si ricava inoltre dall’art. 5, d.m. 31 gennaio 2015 in tema di regolarità contributiva).
Da questo inciso della norma fallimentare – “se nominato”, nella formulazione in vigore dal 2013 al 2019, divenuto attualmente (come confermato anche, quando finalmente sarà in vigore, dall’art. 95 del codice della crisi) “ove già nominato” – già l’ANAC (con la determinazione n. 5 dell’8 aprile 2015) e la dottrina hanno ricavato la convinzione che esso dimostrerebbe come l’art. 186 bis, comma 4, contempli (anche) l’ipotesi del concordato in bianco o con riserva, dal momento che per il concordato preventivo ordinario la nomina del commissario giudiziale è doverosa, sicché l’uso della formula ipotetica si spiegherebbe solo se riferita al concordato in bianco dove, invece, la nomina del commissario giudiziale è una facoltà lasciata al tribunale.
In epoca più recente queste distonie tra il codice dei contratti e la legge fallimentare sono andate riducendosi, se è vero che l’art. 80, comma 5, lett. b) fa ora (di nuovo) testuale rinvio all’art. 186 bis della legge fallimentare (come già prima era avvenuto con l’art. 38 del vecchio codice) e quindi anche al suo comma 4; e che l’art. 110 è stato riscritto in occasione dell’adozione proprio del codice della crisi d’impresa (ad opera dell’art. 372 di tale codice), prevedendosi che alle imprese che hanno depositato domanda di concordato con riserva si applichi l’art. 186 bis della legge fallimentare e che per la partecipazione alle gare, tra il momento di tale domanda e quello del decreto di ammissione, sia sempre necessario l’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto. Dove il primo periodo, nel fare rinvio all’art. 186 bis, ha una valenza di chiarimento o di interpretazione autentica; laddove invece il secondo periodo ha carattere innovativo, introducendo - per l’avvenire - un elemento di ulteriore garanzia che si aggiunge al controllo giudiziale.
L’Adunanza plenaria ritiene quindi che, sulla scorta dell’art. 186 bis, comma 4, della legge fallimentare, la presentazione di una domanda di concordato in bianco o con riserva non possa considerarsi causa di automatica esclusione né inibisca la partecipazione alle procedure per l’affidamento di contratti pubblici. In particolare non si può ritenere che la presentazione di una tale domanda comporti per ciò solo la perdita dei requisiti generali di partecipazione - il cui eventuale successivo recupero in caso di buon esito della procedura non varrebbe neppure ad elidere una simile cesura, in ragione del noto principio di continuità sempre ribadito da questo Consiglio (Cons. St., A.P., n. 8 del 2012 e n. 8 del 2015) - ostando a tale ricostruzione, oltre che la lettera dell’art. 186 bis, la veduta e ribadita funzione prenotativa e protettiva dell’istituto del concordato con riserva che, come spiegato nella relazione ministeriale all’art. 372 del codice della crisi d’impresa, da strumento di tutela non può tradursi nel suo contrario, ossia in un ostacolo alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale in quanto proprio tale prospettiva postula che resti consentito, per quanto “vigilato”, l’accesso al mercato dei contratti pubblici (non pertinente è il richiamo a Cons. St., A.P., n. 2155 del 2010, perché precedente le novità sul concordato introdotte a partire dal 2012).
Questa conclusione, che subordina la partecipazione alle procedure di gara al prudente apprezzamento del tribunale, vale sia per l’ipotesi che l’impresa abbia già assunto la qualità di debitore concordatario nel momento in cui è indetta la (nuova) procedura ad evidenza pubblica, che per il caso in cui, all’inverso, la domanda di concordato segua temporalmente quella già presentata di partecipazione alla gara. In questo senso la formula “partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici”, contenuta nell’art. 186 bis, comma 4 (e da ultimo all’art. 110, comma 4, del codice dei contratti), deve essere letta nel suo significato più pieno e più coerente con quella esigenza di controllo giudiziale ab initio che, realizzandosi sin dal momento in cui si costituisce il rapporto processuale con il giudice fallimentare, rappresenta il punto di equilibrio tra la tutela del debitore e quella dei terzi.
qualora come nel caso di specie l’impresa presenti la domanda di concordato dopo avere già presentato la domanda di partecipazione alla gara, dovrà chiedere al tribunale di essere autorizzata a (continuare a) partecipare alla procedura (in tal senso già Cons. St, sez. V, n. 6272 del 2013). Sebbene la legge non indichi un termine ad hoc per la presentazione di una tale istanza (di autorizzazione), è del tutto ragionevole ritenere che, secondo un elementare canone di buona fede in senso oggettivo, l’istanza debba essere presentata senza indugio, anche per acquisire quanto prima l’autorizzazione ed essere – per quanto si dirà - nella condizione utile di poterla trasmettere alla stazione appaltante con la procedura ad evidenza pubblica ancora in corso.
In casi di questo tipo, il richiamo alla buona fede, e agli obblighi di protezione che ne discendono nel corso delle trattative e della formazione del contratto (cfr. Cons. St., A.P., n. 5 del 2018), vale anche a ritenere che della avvenuta presentazione della domanda di concordato ai sensi dell’art. 161, comma 6, l’operatore debba mettere prontamente a conoscenza la stazione appaltante, trattandosi di un’informazione rilevante, ancorché la domanda di concordato sia pubblicata nel registro delle imprese e sia quindi in linea di principio conoscibile. Qualora fosse omessa tale informazione valuterà la stazione appaltante l’incidenza di una condotta reticente, (ma) senza automatismi e alla luce di quanto si è chiarito di recente con la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 16 del 2020.
Quanto sinora evidenziato dispensa l’Adunanza dal dare risposta al secondo quesito, siccome incentrato sull’assunto che la questione della partecipazione, possibile o meno, alle gare pubbliche debba trovare la sua soluzione sulla base dell’art. 161, comma 7, della legge fallimentare, a seconda che detta partecipazione sia qualificabile come un atto di ordinaria ovvero di straordinaria amministrazione; quando invece, per quanto in precedenza osservato, il legislatore con l’art. 186 bis, comma 4, ha considerato nello specifico la partecipazione alla gara come un atto (ovvero, anche se non soprattutto, una condotta complessiva), da sottoporre comunque e sempre al controllo giudiziale del tribunale fallimentare.
La centralità e l’importanza che riveste l’autorizzazione del giudice fallimentare, ai fini della partecipazione alla gara, conduce a ritenere che il rilascio e il deposito di tale autorizzazione debba intervenire prima che il procedimento dell’evidenza pubblica abbia termine e, dunque, prima che sia formalizzata da parte della stazione appaltante la scelta del miglior offerente attraverso l’atto di aggiudicazione. Si tratta di una posizione che già è stata fatta propria dalla giurisprudenza più recente di questo Consiglio (Cons. St, sez. V, n. 1328 del 2020), alla quale si è richiamata anche l’ANAC (delibera n. 362 del 2020), e che ha il pregio di individuare un limite temporale definito, (più) idoneo ad assicurare l’ordinato svolgimento della procedura di gara, senza far carico l’amministrazione aggiudicatrice e gli altri concorrenti dei possibili ritardi legati ai tempi di rilascio (o di richiesta) dell’autorizzazione.
Così rispondendosi in linea generale al terzo quesito, è comunque rimesso alle stazioni appaltanti nel singolo caso concreto valutare se un’autorizzazione tardiva ma pur sempre sopraggiunta in tempo utile per la stipula del contratto di appalto o di concessione possa avere efficacia integrativa o sanante.
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Sanità pubblica – Regione Puglia – Accreditamento – Automatica conseguenza dell’autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio delle strutture sanitarie - Art. 19, comma 3, l. reg. Puglia n. 9 del 2017 - Violazione art. 117, comma 3, Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 117, comma 3, Cost., dell’art. 19, comma 3, l. reg. Puglia n. 9 del 2017, nella versione antecedente alle modifiche introdotte dagli artt. 49, comma 1, l. reg. 30 novembre 2019, n. 52 e 9, comma 1, l. reg. 7 luglio 2020, nella parte in cui introduce una deroga al principio generale in forza del quale l’autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio delle strutture sanitarie e sociosanitarie non produce effetti vincolanti ai fini della procedura di accreditamento istituzionale, che si fonda sul criterio di funzionalità rispetto alla programmazione regionale (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 19, comma 3, l. reg. n. 9 del 2017 - nella versione antecedente alle modifiche introdotte dagli artt. 49, comma 1, l. reg. 30 novembre 2019, n. 52 e 9, comma 1, l. reg. 7 luglio 2020, dichiarate costituzionalmente illegittime rispettivamente con sentenza 12 marzo 2021, n. 36 e 15 ottobre 2021, n. 195 (dichiarate costituzionalmente illegittime rispettivamente con sentenza 12 marzo 2021, n. 36 e 15 ottobre 2021, n. 195, a mente della quale “L’autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio non produce effetti vincolanti ai fini della procedura di accreditamento istituzionale, che si fonda sul criterio di funzionalità rispetto alla programmazione regionale, salvo che non si tratti di modifiche, ampliamento e trasformazione di cui all’art. 5, comma 2, inerenti strutture già accreditate”) - pone, in presenza di strutture già accreditate per altre attività, l’obbligo dell’Amministrazione di prendere atto ai fini del rilascio di un ulteriore provvedimento di accreditamento – e senza la mediazione costitutiva di una propria autonoma e specifica valutazione quanto alla funzionalità rispetto alla programmazione regionale – della già intervenuta autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio di attività costituenti modifiche, ampliamento e trasformazione di cui all’art. 5, comma 2, evenienza questa già sopra acclarata.
In siffatte evenienze viene, dunque, introdotta una deroga al principio generale in forza del quale l’autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio delle strutture sanitarie e sociosanitarie non produce effetti vincolanti ai fini della procedura di accreditamento istituzionale, che si fonda sul criterio di funzionalità rispetto alla programmazione regionale.
È, infatti, finanche esplicitata nell’economia della suindicata fattispecie normativa (L’autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio non produce effetti vincolanti ai fini della procedura di accreditamento istituzionale…. salvo che non si tratti di modifiche, ampliamento e trasformazione di cui all’art. 5, comma 2, inerenti strutture già accreditate) la circostanza che, in presenza delle condizioni derogatorie ivi espressamente previste (modifiche, ampliamento e trasformazione di cui all’art. 5, comma 2, inerenti strutture già accreditate), l’accreditamento risulti legato, sotto il profilo genetico, da un rapporto vincolato e automatico con il distinto e presupposto provvedimento autorizzatorio, senza che, nei suddetti casi, sull’an del rilascio possano in alcun modo interferire valutazioni discrezionali dell’Amministrazione nell’ambito (come avviene di norma) di un apposito procedimento amministrativo, da ritenersi viceversa indispensabile siccome forma indefettibile della funzione amministrativa.
In altri termini, in presenza delle menzionate fattispecie derogatorie, il provvedimento di rilascio dell’accreditamento si pone come misura rigorosamente attuativa di norme vincolanti che rendono la statuizione amministrativa atto dovuto ed a contenuto vincolato.
Ad avviso della Sezione la menzionata disposizione si pone in contrasto con l’art. 117, comma 3, Cost., in relazione ai principi fondamentali posti dalla legge statale in materia di tutela della salute nella specie declinati agli artt. 8, comma 4, 8 bis, 8-ter e 8-quater, d.lgs. n. 502 del 1992, per le medesime ragioni già evidenziate dal Giudice delle leggi nelle decisioni del 12 marzo 2021, n. 36 e del 15 ottobre 2021, n. 195, non direttamente applicabili in quanto riferite a norme diverse da quella qui in rilievo, ma replicabili nei principi ivi affermati siccome riferiti a una fattispecie parimenti governata da una vincolante sequenza di effetti giuridici ampliativi, geneticamente collegati in via ordinaria a distinti e autonomi provvedimenti, ma qui scandita, per effetto di derogatorie previsioni normative regionali, da rigidi automatismi ingeneranti una non consentita sovrapposizione tra autorizzazione e accreditamento.
Com’è noto, la competenza regionale in materia di autorizzazione ed accreditamento di istituzioni sanitarie private deve essere inquadrata nella più generale potestà legislativa concorrente in materia di tutela della salute, che vincola le Regioni al rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato e nel reticolo delle disposizioni sopra menzionate il legislatore statale pone in rapporto di autonomia i provvedimenti di autorizzazione e di accreditamento di strutture sanitarie, dovendo soggiungersi che la necessità della mediazione costitutiva di un atto di accreditamento s’impone anche nel caso di ampliamento di una struttura preesistente ai sensi dell’art. 8 quater, comma 7, d.lgs. n. 502 del 1992 (Corte cost. n. 132 del 2013).
La res controversa oggi all’esame appare, dunque, del tutto speculare rispetto a quelle scrutinate dalle pronunce appena ricordate: viene, invero, nuovamente in rilievo una deroga incentrata su un’autorizzazione già rilasciata che vincola, secondo la legge regionale, il successivo accreditamento.
La Sezione ha escluso che assuma rilievo la circostanza che la norma in argomento, e vigente al momento dell’atto impugnato in prime cure, sia stata successivamente abrogata. La Corte costituzionale ha costantemente affermato la persistenza della rilevanza della questione anche nel caso in cui la norma sottoposta a scrutinio sia sostituita da una successiva, perché la legittimità dell’atto deve essere esaminata, in virtù del principio tempus regit actum, con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione (sentenze 24 aprile 2013, n. 78; 11 luglio 2012, n. 177; nonché, tra le altre, sentenze 25 novembre 2011, n. 321; 11 giugno 2010, n. 209 ; 28 novembre 2008, n. 391; 20 novembre 2000 n. 509). Segnatamente, in una vicenda analoga a quella qui in rilievo la Corte, nella sentenza n. 177 del 2021, ha precisato che “Il fatto che la norma da scrutinare sia stata sostituita da una successiva, poi dichiarata costituzionalmente illegittima, non toglie di per sé rilevanza alla questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la disposizione precedente; questa Corte ha avuto modo di precisare in altre occasioni, infatti, che, ove un determinato atto amministrativo sia stato adottato sulla base di una norma poi abrogata – o, come nella specie, dichiarata costituzionalmente illegittima – la legittimità dell’atto deve essere esaminata, in virtù del principio tempus regit actum, «con riguardo alla situazione di fatto e di diritto» esistente al momento della sua adozione (sentenza n. 209 del 2010, nonché, in precedenza, sentenza n. 509 del 2000)”.
Del resto, i due istituti giuridici dell'abrogazione e della illegittimità costituzionale delle leggi non sono eguali fra loro, ma si muovono su piani diversi ed hanno, soprattutto, effetti diversi. Mentre la dichiarazione di incostituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge rende la norma inefficace ex tunc e quindi estende la sua invalidità a tutti i rapporti giuridici ancora pendenti al momento della decisione della Corte, restandone così esclusi soltanto i «rapporti esauriti», (cfr. l’art. 136 Cost., e l’art. 30, comma 3, l. 11 marzo 1953, n. 87) l’abrogazione, salvo il caso (in questo caso non ricorrente) dell’abrogazione con effetti retroattivi, opera solo per l’avvenire, atteso che anche la legge abrogante é sottoposta alla regola di cui all’art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale (c.d. Preleggi), secondo cui “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.
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Sanità pubblica
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Contratti della Pubblica amministrazione - Esclusione dalla gara – Grave illecito professionale – Derivante da sentenza penale di condanna non definitiva – Termine di efficacia della causa di esclusione – Mancanza di una previsione legislativa – Art. 57, par. 7, della direttiva 2014/24/UE – Diretta applicabilità – Termine di tre anni dal fatto che ha originato la condanna non definitiva
Allorquando un’impresa sia esclusa dalla gara d’appalto per grave illecito professionale derivante dalla condanna del suo titolare con sentenza penale non definitiva, in assenza di una specifica disposizione normativa (riferendosi i commi 10 e 10-bis dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 alla sentenza penale definitiva ovvero alla esclusione disposta con provvedimento amministrativo), è direttamente applicabile l’art. 57, par. 7, della direttiva 2014/24/UE, con la conseguenza che la causa di esclusione non può essere fatta valere se sono decorsi tre anni dal fatto che ha originato la condanna non definitiva (1).
(1) Ha chiarito il Tar che l’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 non stabilisce alcunché in ordine all’efficacia temporale della causa di esclusione, laddove il fatto valutabile come illecito professionale, ai sensi del comma 5, lett. c), derivi da una sentenza penale non definitiva.
I commi 10 e 10-bis dell’art. 80, infatti, si occupano della durata dell’esclusione, nell’ipotesi in cui essa si tragga dalla sentenza penale di condanna definitiva, che non fissi la durata della pena accessoria della incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (commi 10 e 10-bis, primo periodo), ovvero nel caso di adozione di un provvedimento amministrativo di esclusione (con decorrenza dal passaggio in giudicato della sentenza, ove contestato in giudizio: comma 10-bis, secondo periodo).
Allorquando invece venga in rilievo un fatto che, come nella specie, sia valutato quale illecito professionale in base a una sentenza penale di condanna non definitiva, occorre rifarsi alla “norma di cui all’art. 57, par. 7, della direttiva 2014/24/UE, il quale ha previsto, in termini generali, che il periodo di esclusione per i motivi di cui al paragrafo 4 (all’interno del quale rientrano sia la causa di esclusione per gravi illeciti professionali [lett. c)], sia quella delle «false dichiarazioni […] richieste per verificare l’assenza di motivi di esclusione» [lett. h)]) non può essere superiore a «tre anni dalla data del fatto in questione»)” (di recente, Cons. Stato, sez. V, 27 gennaio 2022 n. 575)
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Militari, forze armate e di polizia - Attività extraistituzionali - Difetto di autorizzazione – Conseguenze.
Autorità amministrative indipendenti - Autorità di regolazione dei trasporti - Coefficiente di maggiorazione – Applicazione – Competenza.
L’Autorità di regolazione dei trasporti è competente ad applicare un “coefficiente di maggiorazione” finalizzato ad assicurare la remunerazione di tutti i costi totali efficienti connessi all’attività del Gestore dell’infrastruttura dei trasporti ferroviari (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che il legislatore ha costruito un sistema in cui il pedaggio per l’accesso all’infrastruttura ferroviaria viene determinato dal Gestore, mentre l’Autorità definisce i criteri in applicazione dei quali il Gestore giunge alla quantificazione delle tariffe. Il potere di determinazione del canone, anche nella sua componente aggiuntiva rispetto alla copertura dei costi diretti, deve ritenersi previsto dall’art. 17, comma 1, d.lgs. n. 112 del 2015 già citato, secondo cui “l’Autorità di regolazione dei trasporti, di cui all’art. 37, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214, definisce, fatta salva l’indipendenza del gestore dell'infrastruttura e tenendo conto dell’esigenza di assicurare l’equilibrio economico dello stesso, i criteri per la determinazione del canone per l’utilizzo dell’infrastruttura ferroviaria da parte del gestore dell’infrastruttura e dei corrispettivi dei servizi di cui all’art. 13”.
Tale conclusione trova supporto nei principi ai quali si deve ispirare il particolare settore che viene in discorso, caratterizzato, da un lato, dalla presenza di una risorsa non replicabile (la rete ferroviaria) ‒ che dà origine alla situazione di monopolio naturale ‒ sottoponendola ad uno speciale regime giuridico, che la rende disponibile alle imprese per l’esercizio della loro attività economica; dall’altro, dalla peculiare relazione finanziaria tra lo Stato, che è proprietario della rete, e la principale impresa ferroviaria utilizzatrice della rete stessa.
In tale contesto, anche al fine di preservare l’indipendenza imprenditoriale del Gestore – principio ribadito dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, con sentenza 3 ottobre 2013, nella causa C 369/11 (secondo cui: “La Repubblica italiana, non garantendo l’indipendenza del Gestore dell’infrastruttura per la determinazione dei diritti di accesso all’infrastruttura e la ripartizione della capacità di infrastruttura ferroviaria, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli articoli 4, paragrafo 1, e 30, paragrafo 3, della direttiva 2001/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2001, relativa alla ripartizione della capacità di 39 infrastruttura ferroviaria e all’imposizione dei diritti per l’utilizzo dell’infrastruttura ferroviaria, come modificata dalla direttiva 2007/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2007”) – assume un particolare significato la presenza di un’Autorità indipendente dal Governo e dagli operatori economici del settore, alla quale è affidato il compito di regolare ex ante i criteri di determinazione del canone di accesso all’infrastruttura (così le sentenze del Consiglio di Stato n. 4215 del 2020 e n. 4216 del 2020).
Posto che l’attuale livello di contribuzione statale, così come stabilito dal contratto di programma per la manutenzione, risulta coprire poco meno del 50% dei costi operativi, ammortamenti e remunerazione del capitale investito (sicché, per garantire l’equilibrio economico del Gestore, poco più del 50% dei costi, deve essere recuperato tramite il pedaggio) e che i costi diretti ammontano a circa il 16% dei costi totali, se l’Autorità potesse agire ‒ così come prospettato dalle Società appellanti ‒ solo su questa componente dei costi, la sua funzione risulterebbe del tutto residuale, in contrasto anche con l’ampia attribuzione di competenze di cui al comma 2, dell’art. 37, d.l. n. 201 del 2011.
Appare dunque ineludibile una interpretazione conforme al diritto europeo (in base cioè al sistema istituito dalla direttiva 2001/14), secondo cui la competenza ministeriale di cui al citato art. 18, d.lgs. n. 112 del 2015, lungi dall’essere intesa come potere ordinario di tariffazione, va configurata come funzione residuale e straordinaria, finalizzata alla copertura (ex post) di costi imprevisti derivanti da urgenti necessità di investimento mediante la maggiorazione del canone fissato dal gestore dell’infrastruttura.
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Militari, forze armate e di polizia
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Covid-19 – Aiuti economici - Incentivo alla produzione e alla fornitura di dispositivi medici e di dispositivi di protezione individuale - Diniego – Non va sospeso monocraticamente.
Non può essere accolta l’istanza di sospensione cautelare monocratica del rigetto dell’istanza di ammissione alle agevolazioni disposte con ordinanza 23 marzo 2020, n. 4 del commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica (incentivo alla produzione e alla fornitura di dispositivi medici e di dispositivi di protezione individuale), e ciò sia perchè il danno paventato ha natura patrimoniale e appare comunque ristorabile anche a seguito della delibazione collegiale della domanda cautelare, sia perchè, nella prospettiva del bilanciamento degli interessi propria della fase cautelare monocratica del giudizio, appare prevalente la necessità di garantire il pieno ed immediato perseguimento delle finalità di interesse generale cui la procedura di agevolazioni finanziarie in questione è preordinata (1).
(1) V. anche Tar Lazio, sez. III ter, dec., 30 maggio 2020, n. 4124
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Covid-19
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerte in aumento - Aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa - Art. 59, comma 4, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016 – Divieto.
Nelle gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa principio del divieto delle offerte in aumento trova espressa previsione nella disposizione dell’art. 59, comma 4, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, con la quale il legislatore ha recepito l’orientamento della giurisprudenza che aveva affermato, sotto il vigore del precedente testo del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, la sussistenza, in via implicita, del predetto divieto (1).
(1) Cons. Stato, sez. III, 29 maggio 2017, n. 2542.
La Sezione ha chiarito che l’art. 59, d.lgs. n. 50 del 2016 in parola non va tuttavia interpretato in modo formale ed isolato, ma in modo sostanziale e sistematico, tenendo conto della peculiarità del caso concreto (ossia delle caratteristiche della gara e del criterio di aggiudicazione prescelto).
Nell’art. 59 l’espressione “offerte” è declinata al plurale, anziché al singolare (come in altre previsioni del codice), il che lascia intendere come essa si riferisca non solo al “prezzo” della complessiva offerta della prestazione oggetto di gara, ma altresì ai “prezzi” posti “a base di gara” delle singole prestazioni di cui si compone l’appalto secondo le valutazioni espresse dall’amministrazione nell’esercizio della propria autonomia negoziale.
La portata dell’art. 59 va inoltre definita alla luce dei principi di imparzialità dell’azione amministrativa e di tutela della par condicio dei concorrenti che, in virtù dell’influenza del diritto europeo, devono essere garantiti in via prioritaria nelle procedure ad evidenza pubblica.
Le gare che prevedono il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa si risolvono nella scelta dell’offerta che si presenta come la migliore sotto il profilo tecnico e che, al contempo, si contraddistingue per offrire il prezzo più basso. Tale criterio di scelta realizza una doppia competizione tra gli operatori sia sotto profilo tecnico che economico, con una preponderante prevalenza per la componente tecnica poiché il punteggio complessivo da attribuire all’offerta deve prevedere “un tetto massimo per il punteggio economico entro il limite del 30 per cento”.
Come ricordato, i criteri di aggiudicazione “garantiscono la possibilità di una concorrenza effettiva” e la stazione appaltante, “al fine di assicurare l'effettiva individuazione del miglior rapporto qualità/prezzo […] individua criteri tali da garantire un confronto concorrenziale effettivo sui profili tecnici” (art. 95, commi 1 e 10-bis, d.lgs. n. 50 del 2016).
La stazione appaltante è, pertanto, chiamata ad individuare prima e applicare dopo i criteri di aggiudicazione in modo coerente con il fine di garantire un “confronto concorrenziale effettivo sui profili tecnici” dell’offerta. In questo contesto, l’importo a base d’asta gioca un ruolo fondamentale per il regolare svolgimento del “confronto concorrenziale sui profili tecnici” poiché esso fissa il limite estremo al di sopra del quale non è possibile offrire e quindi, specularmente, fissa il limite all’interno del quale dovrà svolgersi la competizione in relazione alla componente tecnica.
Una volta stabilita la soglia massima di offerta per una data prestazione o servizio (ossia il prezzo che l’amministrazione è disposta a corrispondere), i concorrenti sono consapevoli che non saranno presi in considerazione in relazione a quella specifica prestazione o servizio (che in senso generico possono essere definiti “prodotti”) offerte che presentano un costo superiore a quello di soglia massima. La previa fissazione di una soglia massima di offerta impone allora agli operatori di calibrare le proprie offerte tecniche in relazione al costo economico che dovranno sostenere per i “prodotti” da offrire e che sarà poi remunerato dalla stazione appaltante a seguito dell’aggiudicazione.
Proprio nelle gare da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, dove la componente tecnica assume un peso relativo maggiore rispetto a quella economica, il valore tecnico del “prodotto” è strettamente parametrato al prezzo offerto. Il rigoroso rispetto della soglia massima di offerta, che l’amministrazione può decidere di porre “a base di gara”, consente che il confronto concorrenziale si svolga in modo effettivo ed imparziale; diversamente, il superamento della soglia si risolve nella inesorabile violazione del principio di imparzialità e di tutela della par condicio, alterando di fatto il confronto concorrenziale “sui profili tecnici” dell’offerta oppure favorendo comportamenti opportunistici dei concorrenti che potrebbero fare affidamento su condotte amministrative non rispettose degli auto-vincoli posti in gara oppure ancora agevolando comportamenti ondivaghi della commissione esaminatrice destinati a refluire in esiti difformi tra loro. In questo caso, il concorrente che - eludendo le disposizioni di gara - riesce ad offrire un “prodotto” superiore dal punto di vista tecnico, verrà di fatto avvantaggiato dalla commissione in sede di valutazione della componente tecnica, ricevendo così, per questa componente, un punteggio superiore a scapito degli operatori rispettosi della legge di gara. Il mancato rispetto della soglia massima di offerta consentirà, infatti, al concorrente di mettere a disposizione della stazione appaltante un “prodotto” ad un prezzo superiore alla soglia e quindi verosimilmente un “prodotto” superiore (anche) dal punto di vista tecnico rispetto ad un omologo “prodotto” che, avendo un costo inferiore, è obiettivamente posizionato in un segmento di mercato meno performante
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Comunicazione - Modalità – Individuazione.
È la stazione appaltante che sceglie, nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa, la modalità con la quale comunicare al concorrente la richiesta di integrazione documentale in applicazione dell’istituto del soccorso istruttorio ma deve assicurare forme telematiche tali da garantire con ragionevole certezza che la comunicazione sia giunta presso il domicilio elettronico del destinatario in modo da poter desumere che questi possa averne avuto contezza, salvo fornire idonea prova contraria (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che il Codice dei contratti non predetermina una specifica forma telematica di comunicazione della richiesta di soccorso istruttorio, a differenza di quanto prevede per il provvedimento di esclusione dalla gara (da comunicare tramite p.e.c.). L’assenza di una forma espressa di comunicazione dell’atto contenente la richiesta di soccorso istruttorio non significa tuttavia che per esso possa predicarsi una qualunque forma di comunicazione.
Spetterà alla stazione appaltante, nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa, scegliere la forma telematica più idonea di comunicazione, in relazione alla tipologia o al contenuto del provvedimento da comunicare, nel rispetto pur sempre dei principi imperativi posti dall’ordinamento a tutela del destinatario che si pongono quali limiti esterni all’esercizio della stessa discrezionalità.
Alla luce dei principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), dei principi di trasparenza, di parità di trattamento e di proporzionalità nell’affidamento dei contratti pubblici (art. 30, d.lgs. n. 50 del 2016) e dei principi di collaborazione e di buona fede nei rapporti con l’amministrazione la richiesta di soccorso istruttorio deve essere comunicata con forme telematiche tali da garantire con ragionevole certezza che la comunicazione sia giunta presso il domicilio elettronico del destinatario in modo da poter desumere che questi possa averne avuto contezza, salvo fornire idonea prova contraria.
La disposizione dell’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, ha in parte qua una chiara portata intrusiva nella sfera giuridica del concorrente e può comportare un effetto sfavorevole poiché, qualora non si ottemperi alla richiesta di integrazione documentale entro il termine stabilito, si estingue in via immediata, mediante l’espulsione dalla gara, il rapporto amministrativo e negoziale instauratosi a seguito della partecipazione alla procedura ad evidenza pubblica. La richiesta di soccorso è quindi idonea, ove non riscontrata nei termini, a produrre effetti pregiudizievoli irreversibili non solo per gli interessi individuali del concorrente interessato ad aggiudicarsi l’appalto, ma anche per l’interesse pubblico di cui è portatrice la stazione appaltante a stipulare il contratto con il miglior offerente.
La modalità telematica di comunicazione della presenza della richiesta di soccorso istruttorio nella c.d. “Area Comunicazioni” mediante mail ordinaria non è in grado di assicurare ragionevole certezza in ordine al recepimento dell’atto e quindi alla conoscenza o conoscibilità della presenza della richiesta di soccorso da parte del destinatario; ragionevole certezza che invece è indispensabile, come si è evidenziato, per le conseguenze che discendono dalla natura e dal regime giuridico previsto per l’istituito, oltre che per il corretto svolgimento delle operazioni di gara.
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Edilizia – Condono - Opere soggette a vincolo idrogeologico – Esclusione.
Le opere soggette a vincolo idrogeologico non sono condonabili ove siano in contrasto con il suddetto vincolo, anche se questo sia stato apposto, senza che residui alcun diaframma di discrezionalità in capo all'amministrazione interessata dalla domanda di condono ai fini del suo accoglimento, dovendosi anzi provvedere alla demolizione delle opere abusive (1).
(1) La Sezione ha preliminarmente ricordato che sotto il profilo urbanistico-edilizio la giurisprudenza ha più volte ricordato che l'autorizzazione rilasciata, anche per silentium, ai sensi dell'art. 97, d.lgs. n. 259 del 2003 assorbe in sé e sintetizza ogni altra autorizzazione, ivi comprese quelle richieste dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il Testo unico delle disposizioni in materia edilizia (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, 16 aprile 2014 n. 1955).
Lo stesso art. 87 del citato decreto legislativo del 2003, inoltre, postula che il parere dell'ARPA sia richiesto esclusivamente ai fini della concreta attivazione dell'impianto e non anche ai fini del perfezionamento del titolo abilitativo, perché non sussiste un onere per il richiedente di allegare siffatto parere in sede di presentazione dell'istanza di titolo edilizio, né un obbligo di far pervenire il parere medesimo all'ente procedente entro il termine di novanta giorni di cui al comma 9 dell'art. 87 (cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. VI, 20 agosto 2019 n. 5756 e 12 gennaio 2011 n. 98).
Il Codice delle comunicazioni elettroniche, con riferimento alle infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, prevede pertanto la confluenza in un solo procedimento di tutte le tematiche rilevanti, con finale rilascio (in forma espressa o tacita) di un titolo abilitativo, qualificato come autorizzazione. La fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica è considerata dal legislatore di preminente interesse generale, oltre che libera (artt. 3 e 86, d.lgs. n. 259 del 2003).
L'art. 8, l. 22 febbraio 2001, n. 36, inoltre, nel disciplinare il riparto di competenze tra le Regioni, le Province e i Comuni in materia, stabilisce che i comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici. La Corte Costituzionale, con la sentenza 11 marzo 2003, n. 331, ha chiarito che nell’esercizio dei suoi poteri il comune non può rendere di fatto impossibile la realizzazione di una rete completa di infrastrutture per le telecomunicazioni, trasformando i criteri di individuazione, che pure il comune può fissare, in limitazioni alla localizzazione con regole diverse da quelle previste dalla legge quadro n. 36 del 2001.
La Sezione ha aggiunto che ai fini della controversia sottoposta al suo esame assume rilievo preminente quanto sancito dall'art. 8, comma 6, l. 36 del 2001 alla cui stregua: “I comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”.
La disciplina in oggetto è stata intesa dalla prevalente giurisprudenza (cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. VI 13 marzo 2018 n. 1592) nel senso che alle Regioni ed ai Comuni è consentito - nell'ambito delle proprie e rispettive competenze - individuare criteri localizzativi degli impianti di telefonia mobile (anche espressi sotto forma di divieto) quali ad esempio il divieto di collocare antenne su specifici edifici (ospedali, case di cura ecc.) mentre non è loro consentito introdurre limitazioni alla localizzazione, consistenti in criteri distanziali generici ed eterogenei (prescrizione di distanze minime, da rispettare nell'installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all'esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico-artistici o individuati come edifici di pregio storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi).
Con riferimento al cd. terzo condono ha ricordato come la giurisprudenza abbia chiarito (Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019 n. 4991) che l’art. 32, d.l. n. 269 del 2003, convertito con modificazioni dalla l. n. 326 del 2003, fissa limiti più stringenti rispetto ai precedenti primo e secondo condono, di cui alle leggi n. 47 del 1985 e 23 dicembre 1994, n. 724, escludendo la possibilità di conseguire il condono nelle zone sottoposte a vincolo paesaggistico qualora sussistano congiuntamente queste due condizioni ostative: a) il vincolo di inedificabilità sia preesistente all'esecuzione delle opere abusive; b) le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo non siano conformi alle norme e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici. In tal caso l'incondonabilità non è superabile nemmeno con il parere positivo dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, (cfr., in termini, Cons. Stato, sez. IV, 17 settembre 2013 n. 4619).
Pare il caso di soggiungere che il d.l. n. 269 del 2003 disciplina in maniera più restrittiva, rispetto al “primo condono edilizio” di cui alla l. n. 47 del 1985, la fattispecie in questione poiché, con riguardo ai vincoli ivi indicati (tra cui quelli a protezione dei beni paesistici, ma anche quello idrogeologico), preclude la sanatoria sulla base della anteriorità del vincolo senza la previsione procedimentale di alcun parere dell'Autorità ad esso preposta, con ciò collocando l'abuso nella categoria delle opere non suscettibili di sanatoria.
Inoltre, sebbene la presenza di un vincolo idrogeologico non comporti l'inedificabilità assoluta dell'area, la sua presenza impone ai proprietari l'obbligo di conseguire, prima della realizzazione dell'intervento, il rilascio di apposita autorizzazione da parte della competente amministrazione, in aggiunta al titolo abilitativo edilizio (Cons. Stato, sez. V, 24 settembre 2009 n. 43731 e sez. IV, 3 novembre 2008 n. 5467). Per quanto attiene all'interferenza di tale disciplina con quella in materia di condono edilizio, si segnala la formulazione di cui all’art. 32 l. n. 47 del 1985, a mente del quale “il rilascio della concessione o dell'autorizzazione in sanatoria per opere eseguite su aree sottoposte a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”, eccetto i casi in cui si tratti di "opere insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione e che risultino: a) in difformità dalla legge 2 febbraio 1974, n. 64 e successive modificazioni e dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, quando possano essere collaudate secondo il disposto del quarto comma dell'articolo 35; b) in contrasto con le norme urbanistiche che prevedono la destinazione ad edifici pubblici od a spazi pubblici, purché non in contrasto con le previsioni delle varianti di recupero di cui al capo III; c) in contrasto con le norme del decreto ministeriale 1° aprile 1968, n. 1404 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13 aprile 1968, e con agli articoli 16, 17 e 18 della legge 13 giugno 1991, n. 190 e successive modificazioni, sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico”.
Da tale complessiva statuizione deriva che le opere soggette a vincolo idrogeologico non sono condonabili ove siano in contrasto con il suddetto vincolo, anche se questo sia stato apposto (ma non è questo il caso) “successivamente alla presentazione dell'istanza di condono” (Cons. Stato, sez. IV, 21 dicembre 2012, n. 6662), senza che residui alcun diaframma di discrezionalità in capo all'amministrazione interessata dalla domanda di condono ai fini del suo accoglimento, dovendosi anzi provvedere alla demolizione delle opere abusive (Cons. Stato, sez. IV, 14 giugno 2018, n. 3659).
Giova rammentare anche che, anche in base alla normativa intervenuta successivamente in materia di condono edilizio (art. 32, comma 27, lettera d, d.l. n. 269 del 2003, c.d. terzo condono), a conferma di quanto rilevato pocanzi, non sono suscettibili di sanatoria le opere abusive che “siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
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Edilizia
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Processo amministrativo - Fascicolo di causa giudiziaria – Accesso - Soggetti legittimati – Individuazione.
Seppure il novero dei soggetti che sono abilitati all’accesso al fascicolo processuale comprende le parti non costituite, deve pur sempre trattarsi di soggetti cui sia possibile attribuire la qualità di “parti” o perché siano state destinatarie della notificazione di una qualche “chiamata in giudizio” o perché rivestano comunque la veste di “litisconsorti necessari” o, nel processo amministrativo impugnatorio, di “controinteressati pretermessi” (1).
(1) Quanto alla disciplina applicabile all’ “accesso” agli atti del (di un) fascicolo d’ufficio, ritiene il Collegio che debba distinguersi tra atti e provvedimenti del giudice e atti dei fascicoli parte:
- il rilascio di copia degli atti del processo a “chiunque vi abbia interesse”, anche senza essere parte del giudizio, è previsto solo per i provvedimenti del giudice (art. 7 disp. att. cod. proc. amm.; art. 744 c.p.c.);
- la visione ed il rilascio di copia degli atti dei fascicoli di parte risulta invece disciplinato dall’art. 76 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, applicabile al processo amministrativo in virtù del rinvio di cui all’art. 39, comma 1, c.p.a., nel senso della limitazione di tali facoltà solo alle parti e/o ai loro difensori muniti di procura
La Sezione ha quindi escluso che siffatta soluzione appare configurare una eccessiva restrizione del diritto di difesa di chi aspira a conoscere gli atti di un processo in cui non sia evocato come parte, atteso che questi può sempre avere accesso agli atti processuali attraverso l’intervento nel processo (con la precisazione che, ove si tratti di intervento non contenente domande nuove, lo stesso non comporta il pagamento del contributo unificato), con ciò acquisendo la veste di “parte costituita” e quindi il pieno titolo all’accesso al fascicolo processuale (cfr. ordinanza Tar Napoli, sez. I, n. 235 del 2019).
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Processo amministrativo
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara - Controllo societario – Condizione.
La sussistenza di una posizione di controllo societario ai sensi dell’art. 2359 cod. civ. fra due concorrenti è condizione necessaria, ma non anche sufficiente perché si possa inferire il reciproco condizionamento fra le offerte formulate; il giudizio presuntivo necessario per la dimostrazione dell’esistenza di un “unico centro decisionale” di provenienza delle offerte deve infatti rispettare i canoni tipici della “prova logica” (in termini di gravità, precisione e concordanza degli elementi utilizzati) e superare l’eventuale “controprova logica”, essendo consentito alle imprese delle quali si ipotizza il collegamento sostanziale dimostrare che il rapporto di collegamento non ha influito sul rispettivo comportamento nell’ambito della gara (1).
(1) La Sezione ha ricordato che la sussistenza di una posizione di controllo societario ai sensi dell’art. 2359 cod. civ. fra due concorrenti <<[…] è condizione necessaria, ma non anche sufficiente perché si possa inferire il reciproco condizionamento fra le offerte formulate. A tal fine (recependo un’indicazione fornita in modo netto dalla Corte di giustizia) è altresì necessario che venga fornita adeguata prova circa il fatto “[che] la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili a un unico centro decisionale”>> (Cons. Stato, sez. V, 4 gennaio 2018, n. 58).
Va invero osservato che solo nel sistema normativo anteriore alle modifiche di cui al d.l. 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla l. 20 novembre 2009, n. 166, la sussistenza di situazioni di controllo rappresentava in modo pressoché automatico ragione di esclusione dalla gara, a prescindere dalla prova in concreto circa il reciproco condizionamento delle offerte (cfr. l’abrogato comma 2 dell’art. 34, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163: “Non possono partecipare alla medesima gara concorrenti che si trovino fra di loro in una delle situazioni di controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile […]”).
Tale assetto è però mutato per effetto della sentenza della Corte di Giustizia CE, sez. IV, 19 maggio 2009, in C-538/07 dalla quale è scaturita la riformulazione degli artt. 34 e 38, comma 2, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, nonché l’inserimento, nell’ambito del comma 1 del citato art. 38, di una nuova lettera m-quater che prevedeva l’esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento dei soggetti “che si trovino, rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”).
Il complessivo disegno normativo che ne è derivato ha comportato il superamento del pregresso sostanziale automatismo (Cons. Stato, sez. VI, 2 febbraio 2015, n. 462).
La previsione normativa frutto dell’intervento conseguente alla pronuncia della Corte di Giustizia CE sopra richiamata risulta riprodotta nel vigente art. 80, comma 5, lett. m), d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, il quale stabilisce che le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico che “[…] si trovi rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all'art. 2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”.
Sul punto va osservato che anche la giurisprudenza penale – pur facendo governo di principi e di parametri normativi differenti – ha osservato che in tema di turbata libertà degli incanti il collegamento, formale o sostanziale, tra società partecipanti alla gara per l'aggiudicazione di un appalto pubblico non è di per sé sufficiente a configurare il delitto previsto dall'art. 353 cod. pen., occorrendo la prova che, dietro la costituzione di imprese apparentemente distinte, si celi un unico centro decisionale di offerte coordinate o che le imprese, utilizzando il rapporto di collegamento, abbiano presentato offerte concordate. Tale ricostruzione - ha rilevato la Suprema Corte - si pone in linea con la sopra richiamata giurisprudenza comunitaria secondo cui, in base all'ordinamento comunitario, due imprese, anche se collegate, possono partecipare alla medesima procedura qualora non sia dimostrato che il loro rapporto abbia influito sul loro rispettivo comportamento nell'ambito di tale gara; in altri termini, detta giurisprudenza ha solo escluso che, in presenza di un controllo o collegamento formale, l'impresa possa automaticamente essere esclusa dalla partecipazione ad una gara, in assenza della prova della esistenza di un accordo collusivo (Cass. pen., sez. VI, 17 settembre 2019, n. 42371).
Ciò premesso, la giurisprudenza (cfr., più di recente, Tar Sardegna, sez. II, 4 dicembre 2019, n. 869), nell’interpretazione ed applicazione della richiamata vigente disciplina, ha chiarito che il giudizio presuntivo necessario per la dimostrazione dell’esistenza di un “unico centro decisionale” di provenienza delle offerte deve rispettare i canoni tipici della “prova logica” (in termini di gravità, precisione e concordanza degli elementi utilizzati) e superare l’eventuale “controprova logica”, essendo consentito alle imprese delle quali si ipotizza il collegamento sostanziale dimostrare che il rapporto di collegamento non ha influito sul rispettivo comportamento nell’ambito della gara, e che il motivo escludente previsto dall’art. 80, comma 5, lett. m), d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 deve essere applicato con rigore ed equilibrio, così da scongiurare il rischio di incidere ingiustificatamente - oltre che sulla libertà d’impresa delle concorrenti - sul canone di massima partecipazione alle gare pubbliche.
Giova poi osservare che ancora prima della entrata in vigore dell'art. 34, comma 2, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, la giurisprudenza aveva elaborato alcune regole di esperienza che potevano dirsi sufficientemente attendibili sotto il profilo della ragionevolezza e della logica: in particolare, veniva affermata l'esistenza di un centro decisionale unitario laddove tra imprese concorrenti vi fosse intreccio parentale tra organi rappresentativi o tra soci o direttori tecnici, contiguità di sede, utenze in comune (c.d. indici soggettivi), oppure, anche in aggiunta, identiche modalità formali di redazione delle offerte, strette relazioni temporali e locali nelle modalità di spedizione dei plichi, significative vicinanze cronologiche tra gli attestati SOA o tra le polizze assicurative a garanzia delle offerte (c.d. indici oggettivi).
La ricorrenza di questi indici, non uno solo di essi bensì un numero sufficiente legato da nesso oggettivo di gravità precisione e concordanza tale da giustificare la correttezza dello strumento presuntivo, è stato ritenuto sufficiente a giustificare l'esclusione dalla gara dei concorrenti che si trovino in questa situazione (cfr. cit. Tar Sardegna, sez. II, 4 dicembre 2019, n. 869).
La giurisprudenza ha, inoltre, escluso che sussista in ogni caso un incondizionato obbligo della stazione appaltante di attivare un autonomo sub-procedimento di verifica, nel contraddittorio delle parti, circa la riferibilità delle offerte ad un unico centro decisionale: tale eventualità, invero, potrebbe porsi solo laddove l’Amministrazione non sia in grado di individuare degli elementi obiettivi tali da fondare, anche solo in via indiziaria ma pur sempre con connotato di univocità, la probabile sussistenza di un medesimo centro decisionale, pur a fronte di una (formale) pluralità di offerte (Cons. Stato, sez. V, 19 marzo 2018, n. 1753).
Tutto ciò precisato, l'accertamento della stazione appaltante e la valutazione che ne consegue sono sindacabili in sede giurisdizionale solo se viziati da manifesta illogicità o travisamento dei fatti (la decisione espulsiva deve fondarsi, invero, sulla ritenuta integrazione della fattispecie escludente, su cui la motivazione è chiamata a concentrarsi attesa la natura necessitata dell’atto al ricorrere dei presupposti di legge), vizi che non si ravvisano nel caso in esame.
In particolare, gli elementi evidenziati dalla stazione appaltante possono considerarsi idonei e sufficienti a denunciare l’esistenza di una relazione tra i concorrenti interessati, tale da far ritenere che le rispettive offerte possano provenire da un unico centro decisionale.
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Informativa antimafia – Presupposti – Dichiarazioni di collaboratori di giustizia – Rilevanza
E’ legittima l’interdittiva antimafia che si basi, oltre che su precedenti penali del titolare della società interdetta, anche su dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, atteso che se è vero che nel processo penale tali dichiarazioni non possono essere poste alla base del giudizio di colpevolezza se non si acquisiscono i c.d. riscontri esterni (artt. 192, 197 bis e 210 c.p.p.), le stesse, per la diversità tra la logica del “più probabile che non “ e quella dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”, possono essere correttamente considerate, ad colorandum, unitamente a tutti gli altri elementi indiziari (1).
(1) Ha chiarito il parere che il sistema della documentazione antimafia, previsto dal d.lgs. n. 159 del 2011 (c.d. Codice antimafia), si fonda sulla distinzione tra le fondamentali misure di prevenzione amministrative: le comunicazioni antimafia (artt. 87-89) - richieste per l’esercizio di qualsivoglia attività dei privati soggetta ad autorizzazione, concessione, abilitazione, iscrizione ad albi, segnalazione certificata di inizio attività (c.d. s.c.i.a) e c.d. silenzio assenso - e le informazioni antimafia (artt. 90-95), operanti nei rapporti dei privati con le pubbliche amministrazioni (es. contratti pubblici, concessioni e finanziamenti).
In particolare, la comunicazione antimafia consiste nell’attestazione, a carico di determinati soggetti individuati dall’art. 85, d.lgs. n. 159 del 2011, della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'art. 67 (art. 84, comma 2).
L’informazione antimafia, invece, rispetto alla comunicazione presenta un quid pluris individuabile nella valutazione discrezionale da parte del Prefetto del rischio di permeabilità mafiosa capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell'impresa. Infatti, l’autorità prefettizia esprime un motivato giudizio, in chiave preventiva, circa il pericolo di infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa, interdicendole l’inizio o la prosecuzione di qualsivoglia rapporto con l’Amministrazione o l’ottenimento di qualsiasi sussidio, beneficio economico o sovvenzione (“l'informazione antimafia consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'art. 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 91, comma 6, nell'attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4”, art. 84, comma 3).
In ordine alla forma, il parere ha precisato che non si richiedono all’informativa antimafia formalismi linguistici, né formule sacramentali, essendo idoneo a sorreggere la valutazione discrezionale del provvedimento prefettizio anche un apparato motivazionale asciutto, scarno, finanche poco elaborato, dal quale, però, si evincono le ragioni sostanziali che giustificano la valutazione di permeabilità mafiosa dell’impresa sulla base degli elementi raccolti dagli organi competenti.
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Informativa antimafia
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Processo amministrativo - Covid-19 – Camera di consiglio cautelare – Istanza di rinvio per consentire la discussione orale - Art. 84, comma 5, d.l. n. 18 del 2020 – Va accolta – Limiti.
L’art. 84, comma 5, d.l. n. 18 del 2020 va interpretato nel senso che ciascuna delle parti ha facoltà di chiedere il differimento dell’udienza a data successiva al termine della fase emergenziale Covid-19 allo scopo di potere discutere oralmente la controversia, quando il Collegio ritenga che dal differimento richiesto da una parte non sia compromesso il diritto della controparte ad una ragionevole durata del processo e quando la causa non sia di tale semplicità da non richiedere alcuna discussione potendosi pur sempre, nel rito cartolare, con la necessaria prudenza, far prevalere esigenze manifeste di economia processuale (e ciò in particolare nella fase cautelare, mentre la pretermissione della discussione nel giudizio di merito va valutata anche alla luce di potenziali effetti irreversibili sul diritto di difesa che andrebbero per quanto possibile evitati stante la necessaria temporaneità e proporzionalità delle misure processuali semplificate legate alla situazione pandemica “acuta” ) (1).
(1) La Sezione ha preliminarmente ricordato che rito processuale emergenziale dettato dall’art. 84, comma 5, d.l. n. 18 del 2020, per il periodo che va dal 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, ha previsto il rinvio della trattazione e la «rimessione in termini» in relazione a quelli che, per effetto della sospensione dei termini processuali disposta dal comma 1 dello stesso art. 84, comma 1, «non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo».
La norma sembra dunque autorizzare il giudice a disporre il rinvio della trattazione della causa solo per consentire il compiuto esercizio del contraddittorio scritto di cui all’art. 73 c.p.a. (impedito dalla sospensione dei termini predisposta dal 8 marzo 2020 e fino al 15 aprile 2020), senza accordare alla parte alcuna facoltà di chiedere un differimento al solo fine di potere discutere oralmente la causa.
Ha aggiunto la Sezione che il contraddittorio cartolare «coatto» ‒ cioè non frutto di una libera opzione difensiva, bensì imposto anche contro la volontà delle parti che invece preferiscano differire la causa a data successiva al termine della fase emergenziale, pur di potersi confrontare direttamente con il proprio giudice ‒ non appare una soluzione ermeneutica compatibile con i canoni della interpretazione conforme a Costituzione, che il giudice comune ha sempre l’onere di esperire con riguardo alla disposizione di cui deve fare applicazione.
Il contraddittorio cartolare «coatto» costituirebbe una deviazione irragionevole rispetto allo “statuto” di rango costituzionale che si esprime nei principi del «giusto processo».
Ed invero, il comma 2 dell’art. 111 Cost., nello stabilire che il «giusto processo» ‒ qualsiasi processo ‒ debba svolgersi «nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità», impone, non solo un procedimento nel quale tutti i soggetti potenzialmente incisi dalla funzione giurisdizionale devono esserne necessariamente “parti”, ma anche che queste ultime abbiamo la possibilità concreta di esporre puntualmente (e, ove lo ritengano, anche oralmente) le loro ragioni, rispondendo e contestando le quelle degli altri; lo stesso art. 24 Cost. ‒ comprendendo, oltre al diritto di accesso al giudizio, anche il diritto di ottenere dal giudice una tutela adeguata ed effettiva della situazione sostanziale azionata ‒ non può che contenere anche la garanzia procedurale dell’interlocuzione diretta con il giudice;
La tesi ermeneutica esposta è corroborata anche dall’interpretazione convenzionalmente orientata, sancita dalla Corte costituzionale (a partire dalle sentenze nn. 348 e 349 del 2007) quale logico corollario del rinnovato rango interposto delle norme della Carta europea dei diritti dell’uomo (sia pure con la particolarità che, in tal caso, il giudice nazionale è tenuto ad una previa ricognizione degli esiti dell’attività ermeneutica condotta dalla giurisdizione internazionale). É noto che la Corte europea ha offerto una interpretazione evolutiva dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, che ha finito per ricomprendervi anche il processo e, prima ancora, il procedimento amministrativo (al concetto di «tribunale» sono state ascritte anche le autorità amministrative che, pur non esercitando una funzione propriamente giurisdizionale, sono tuttavia capaci di adottare «criminal offences» o che comunque incidono su «civil rights and obligations»);
Ebbene, il processo cartolare «coatto» si porrebbe in contrasto con la citata norma convenzionale, così come interpretata dalla Corte europea dei diritti, sotto un duplice aspetto.
In primo luogo, il divieto assoluto di contraddittorio orale potrebbe rilevarsi un ostacolo significativo per il ricorrente che voglia provocare la revisione in qualsiasi punto, in fatto come in diritto, della decisione resa dall’autorità amministrativa.
Sotto altro profilo, sarebbe evidente il contrasto con il principio della pubblicità dell’udienza: è noto che la Corte europea ha ritenuto che alcune situazioni eccezionali, attinenti alla natura delle questioni da trattare (quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso) possano giustificare che si faccia a meno di un’udienza pubblica, purché l’udienza a porte chiuse, per tutta o parte della durata, deve essere «strettamente imposta dalle circostanze della causa» (ex plurimis, sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia e sentenza 26 luglio 2011, Paleari contro Italia); anche, secondo la Corte Costituzionale la pubblicità del giudizio non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative, purché, tuttavia, obiettive e razionali (sentenze n. 212 del 1986 e n. 12 del 1971). Sennonché, l’imposizione dell’assenza forzata, non solo del pubblico, ma anche dei difensori, finirebbe per connotare il rito emergenziale in termini di giustizia “segreta”, refrattaria ad ogni forma di controllo pubblico.
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Processo amministrativo
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Esclusione – Appalti sotto soglia – Esclusione automatica ex art. 1, comma 3, d.l. n. 76 del 2020 – Ambito di applicazione – A tutte le gare sotto soglia.
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Esclusione – Appalti sotto soglia – Esclusione automatica ex art. 1, comma 3, d.l. n. 76 del 2020 – Applicazione – Motivazione da parte della stazione appaltante – Non occorre.
L’art. 1, comma 3, d.l. n. 76 del 2020 - che prevede l’esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi dell’art. 97, commi 2, 2 bis e 2 ter, d.lgs. n. 50 del 2016, anche qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque - ha introdotto una disciplina emergenziale, temporanea e derogatoria del codice dei contratti, con scadenza al 31 dicembre 2021, applicabile a tutte le gare e non solo a quelle legate all’emergenza sanitaria (1).
Nelle gare per l’affidamento dei contratti pubblici sotto soglia l’applicazione, da parte della stazione appaltante, dell’esclusione automatica dalla gara, prevista dall’art. 1, comma 3, d.l. n. 76 del 2020, delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi dell’art. 97, commi 2, 2 bis e 2 ter, d.lgs. n. 50 del 2016, anche qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque, non deve essere enunciata e motivata negli atti di gara e ciò in quanto, diversamente opinando, si minerebbe l’obiettivo, che è alla base della novella normativa, di celerità delle procedure (2).
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Pubblica istruzione – Abilitazione all’insegnamento - Scuola secondaria di primo e secondo grado - Procedura straordinaria per esami - Requisito di servizio “specifico” – Possesso – Deroga solo per docenti di ruolo della scuola statale – Non va sospeso
Non deve essere sospeso il bando ha indetto la procedura straordinaria, per esami, per l'accesso ai percorsi di abilitazione all'insegnamento nella scuola secondaria di primo e secondo grado, nella parte in cui ha previsto per i soli docenti di ruolo della scuola statale di poter prescindere dal possesso del requisito di servizio “specifico” ex art. 2, comma 1, lett. b) del bando stesso (1).
(1) Ha chiarito l’ordinanza che non è nella specie conferente il richiamo alla Corte di Giustizia Ue che, con la sentenza 28 novembre 2014, cause riunite nn. 22/2013, 61/2013, 63/2013, 418/2013 (sentenza Mascolo), ha dichiarato l’illegittimità della normativa nazionale, nella misura in cui mancava la possibilità di trasformare il rapporto operando la “stabilizzazione”. Tale sentenza infatti non deroga alla regola del concorso pubblico e l’equiparazione sancita in via generale dall’Accordo Quadro (allegato alla dir. n. 1999/ 70/ CEE) non implica il superamento di un requisito meritocratico (servizio specifico di un anno sull’insegnamento messo a concorso) derogabile solo per i soggetti aventi rapporto a tempo indeterminato (proprio perché soggetti che hanno superato un concorso abilitante)
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Pubblica istruzione
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Rifiuti – Rifiuti urbani – Indifferenziati non pericolosi - Trattati meccanicamente da un impianto ai fini del recupero energetico - Spedizione di rifiuti - Previsioni dell’art. 16 della direttiva del 2008 e considerando n. 33 - Prevalenza rispetto alla classificazione risultante dal Catalogo Europeo Rifiuti – Rimessione alla Corte di Giustizia Ue
Devono essere rimesse alla Corte di Giustizia Ue le questioni se in riferimento ad una fattispecie in cui rifiuti urbani indifferenziati, non contenenti rifiuti pericolosi, siano stati trattati meccanicamente da un impianto ai fini del recupero energetico (operazione R1/R12, ai sensi dell’allegato C) del Codice dell’Ambiente) e, all’esito di tale operazione di trattamento, risulti, in tesi, che il trattamento non abbia sostanzialmente alterato le proprietà originarie del rifiuto urbano indifferenziato, ma agli stessi venga assegnata la classificazione CER 19.12.12., non contestata dalle parti; ai fini del giudizio in ordine alla legittimità delle obiezioni, da parte del Paese di origine, alla richiesta di autorizzazione preventiva alla spedizione in un Paese europeo presso un impianto produttivo per l’utilizzo, in co-combustione o, comunque, come mezzo per produrre energia, del rifiuto trattato, sollevate dall’Autorità preposta nel Paese di origine sulla base dei principi della direttiva 2008/98/CE, ed in particolare di obiezioni quali quelle, nella fattispecie, basate: - sul principio della protezione della salute umana e dell’ambiente (art. 13); - sul principio di autosufficienza e prossimità, stabilito dall’art. 16, comma 1, secondo il quale “Gli Stati membri adottano, di concerto con altri Stati membri qualora ciò risulti necessario od opportuno, le misure appropriate per la creazione di una rete integrata e adeguata di impianti di smaltimento dei rifiuti e di impianti per il recupero dei rifiuti urbani non differenziati provenienti dalla raccolta domestica, inclusi i casi in cui detta raccolta comprenda tali rifiuti provenienti da altri produttori, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili.”; - sul principio, stabilito dallo stesso art. 16, comma 2, ultimo periodo, secondo cui “Gli Stati membri possono altresì limitare le spedizioni in uscita di rifiuti per motivi ambientali come stabilito nel regolamento (CE) n. 1013/2006”; - sul considerando (33) delle premesse della stessa direttiva del 2008, secondo il quale “Ai fini dell’applicazione del Regolamento CE n. 1013 del 2006….relativo alle spedizioni di rifiuti, i rifiuti urbani non differenziati di cui all’art. 3, paragrafo 5 dello stesso rimangono rifiuti urbani non differenziati anche quando sono stati oggetto di un’operazione di trattamento dei rifiuti che non ne abbia sostanzialmente alterato le proprietà”: il Catalogo Europeo rifiuti (nella fattispecie CER 19.12.12., rifiuti prodotti da impianti di trattamento meccanico per operazioni di recupero R1/R12) e le relative classificazioni interferiscano o meno ed, in caso di risposta positiva, in quali termini e confini, con la disciplina euro-unitaria relativa alla spedizione di rifiuti che, prima del trattamento meccanico, erano rifiuti urbani indifferenziati; in particolare, se, con riferimento alle spedizioni di rifiuti risultanti dal trattamento di rifiuti urbani indifferenziati, le previsioni dell’art. 16 della direttiva del 2008 richiamata ed il relativo considerando n. 33, espressamente concernenti la spedizione di rifiuti, siano o meno prevalenti rispetto alla classificazione risultante dal Catalogo Europeo Rifiuti; precisando, qualora ritenuto opportuno e utile dalla Corte, se il suddetto Catalogo abbia carattere normativo o costituisca, invece, una mera certificazione tecnica idonea alla omogenea tracciabilità di tutti i rifiuti.
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Rifiuti
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Covid-19 – Sardegna - Commercio al dettaglio di libri - Chiusura fino al 26 aprile 2020 – Non va sospeso.
Non va sospesa l’ordinanza n. 19 del 13 aprile 2020 adottata dal Presidente della Regione Autonoma della Sardegna, nella parte in cui dispone che sono “confermate in Sardegna, almeno fino al 26 aprile 2020, salvo nuova proroga esplicita, le misure maggiormente restrittive di ulteriore chiusura delle attività di commercio al dettaglio di libri” (1).
(1) Ha ricordato il decreto che il d.P.C.M. 10 aprile, all’art. 2, recante le “Misure di contenimento del contagio per lo svolgimento in sicurezza delle attività produttive industriali e commerciali” al comma 1, prevede che “Sull’intero territorio nazionale sono sospese tutte le attività produttive industriali e commerciali, ad eccezione di quelle indicate nell’allegato 3”. Nell’allegato 3 del d.P.C.M. sono indicate alcune attività produttive (fra le quali il commercio al dettaglio di libri) che potrebbero riprendere la loro attività, nel rispetto delle necessarie precauzioni, a partire dal 14 aprile.
Ha aggiunto il decreto che l’art. 3, comma 1, d.l. n. 19 del 2020 prevede che, “Nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 2, comma 1, e con efficacia limitata fino a tale momento, le regioni, in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, possono introdurre misure ulteriormente restrittive, tra quelle di cui all'articolo 1, comma 2, esclusivamente nell'ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l'economia nazionale”.
Per effetto di tali disposizioni, i Presidenti delle Regioni non hanno la possibilità di disporre misure meno restrittive di quelle imposte con d.P.C.M. a livello nazionale ma possono introdurre misure ulteriormente restrittive (di quelle imposte con d.P.C.M.) in relazione a specifiche situazioni di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso.
Ha aggiunto il decreto che l’ordinanza impugnata ha effetto fino al 26 aprile 2020, per un numero oramai limitatissimo di giorni feriali, salvo nuova proroga esplicita, e che (anche) la questione riguardante il commercio al dettaglio di libri sarà a brevissimo oggetto di una nuova valutazione da parte dell’Autorità regionale che vi dovrà provvedere nel rispetto di quanto stabilito dalle indicate disposizioni normative e sulla base di eventuali situazioni specifiche di rischio sanitario presenti nel territorio sardo o in una parte di esso.
Aggiungasi che, nella valutazione dei contrapposti interessi, nell’attuale situazione emergenziale, a fronte di una compressione di alcune libertà individuali, deve essere accordata prevalenza alle misure approntate per la tutela della salute pubblica.
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Covid-19
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Edilizia – Sicilia – Attività edilizia – Chiusura di verande e balconi di superficie inferiore a 50 mq. – Titolo edilizio – Non occorre - Condizione – Opera precaria – Individuazione.
In Sicilia, ai sensi dell’art. 20, l. reg. 16 aprile 2003, n. 4 – norma che riveste il carattere della specialità – la chiusura di “terrazze” e di “verande”, di superficie inferiore a 50 mq., non necessita di autorizzazione o di concessione purché venga rispettata la procedura dettata dalla stessa norma e purché si tratti di opera “precaria”, dovendo, per individuare la precarietà, farsi riferimento ai metodi e ai materiali usati nella realizzazione delle opere, giacché esula dal citato art. 20, l.reg. n. 4 del 2003 il criterio della “funzionalità” inerente la natura duratura o meno delle esigenze che le opere sono destinate a soddisfare; conseguentemente, deve escludersi che rientrino nella nozione di precarietà le strutture in muratura o in laterizi o comunque ancorate definitivamente mediante l’uso di leganti cementizi o derivati e quelle non smontabili e non rimovibili se non mediante attività demolitoria a carattere distruttivo (1).
(1) Il C.g.a. ha chiarito che a corroborare questa tesi milita anche la considerazione del rapporto tra il concetto di precarietà, requisito indispensabile per l’operare dell’esclusione della necessità di una previa autorizzazione o concessione edilizia, e le esigenze di sicurezza.
Tale precisazione non è di poco momento se si considera che erroneamente, a volte, si è ritenuto di escludere la ricorrenza del carattere in parola in ipotesi di opere “stabilmente infisse” al suolo. D’altra parte, questa interpretazione trova sostegno nel comma 2 dell’art. 20, l. reg. 16 aprile 2003, n. 4 il quale prevede che, nelle ipotesi in cui a norma della stessa disposizione non è necessario l’ottenimento della previa autorizzazione o concessione, «contestualmente all’inizio dei lavori il proprietario dell’unità immobiliare deve presentare al sindaco del comune nel quale ricade l’immobile una relazione a firma di un professionista abilitato alla progettazione, che asseveri le opere da compiersi e il rispetto delle norme di sicurezza … vigenti». È evidente, pertanto, che la norma non introduce alcuna deroga a disposizioni diverse da quelle urbanistiche e, in particolare, a quelle in materia di sicurezza. Tra queste ultime rientrano, certamente, quelle che richiedono la denuncia al Genio civile o, nelle zone sismiche, la previa autorizzazione (C.g.a., sez. cons., 10 gennaio 2012, n. 241).
Difficilmente, difatti, una tettoia che, in base al disposto del citato art. 20, può essere realizzata (in concorrenza anche gli altri presupposti prescritti) senza autorizzazioni o concessioni urbanistiche fino a un’estensione di 50 m², potrebbe essere considerata rispondente alle disposizioni in materia di sicurezza pur senza essere stabilmente ancorata al suolo. Da ciò deriva che, a pena di privare di significato la disciplina derogatoria dettata dalla norma regionale, il concetto di precarietà in essa contenuto deve essere interpretato nel senso di non escludere la sussistenza di “idonei meccanismi di ancoraggio” proprio in quanto funzionali alle esigenze di sicurezza a cui l’art. 20 non consente di derogare.
Si può dunque affermare che, per le opere realizzate secondo il disposto dell’art. 20 della l.r. n. 4/2003, la nozione di “precarietà” è ancorata esclusivamente al concetto di “facile rimovibilità” (e non anche a quelli di “funzionalità occasionale”, di “destinazione urbanistica” e/o di “instabilità strutturale”, “stagionalità” o “temporaneità”), dovendo pertanto restare escluse dall’ambito di operatività della deroga introdotta dalla predetta norma speciale - pur se strumentali alla copertura di verande o balconi, alla chiusura di terrazze (di collegamento o meno, ed in tal caso non superiori a 50 m²) ed alla copertura di spazi interni (cortili, chiostrine e simili) o “aperti almeno da un lato” - le strutture in muratura o in laterizi (o comunque ancorate definitivamente mediante l’uso di leganti cementizi o derivati) e quelle non smontabili e non rimovibili se non mediante attività demolitoria a carattere distruttivo (C.g.a., sez. cons., 3 settembre 2015, n. 771).
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Edilizia
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Pubblica istruzione – Concorso – Posto comune - Servizio svolto su posti di sostegno senza specializzazione – Non rileva.
Il servizio svolto senza specializzazione su posti di sostegno non integra l’annualità di servizio specifico per partecipare al concorso su posto comune (1).
(1) Ha chiarito il parere che l’aver prestato servizio su di un posto di sostegno è situazione in termini essenziali diversa rispetto all’aver prestato servizio su di un posto comune. Il diverso trattamento riservato a tali servizi dal legislatore non configura, dunque, una discriminazione rilevante ai sensi della normativa richiamata dai ricorrenti. Si tratta, invero, di categorie per le quali, in relazione alla specifica finalità del procedimento concorsuale, volto al superamento del fenomeno del precariato individuando un precariato professionalmente “qualificato” modulato anche sulla tipologia dei posti da ricoprire, sono presenti differenze essenziali; inoltre, la ratio sottesa alla previsione legislativa rende sussistenti oggettive ragioni giustificative del diverso trattamento riservato ai servizi svolti su posti comuni e su posti di sostegno, ai fini della copertura della prima delle predette tipologie di posti. Sotto il profilo, ancora, della compatibilità della disposizione legislativa in esame alla normativa comunitaria, si osserva che la stessa non risulta violativa dei principi affermati dalla sentenza “Mascolo” e della direttiva 1999/70/Ce che impone il divieto di discriminazione dei lavoratori a tempo determinato. Non sussiste alcun contrasto con il diritto europeo così come interpretato dalla richiamata sentenza “Mascolo”, che, invero, attiene più propriamente alla disciplina (art. 4 della legge 124/99), che consente di reiterare, anche per periodi molto lunghi, i contratti a tempo determinato con il medesimo lavoratore. La Corte di Giustizia, con la sentenza 26 novembre 2014 resa nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri, ha statuito che le esigenze di continuità didattica che inducono ad assunzioni temporanee di dipendenti del comparto scuola possono costituire una ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1, lett. a), dell’accordo quadro, che giustifica sia la durata determinata dei contratti conclusi con il personale supplente, sia il rinnovo di tali contratti in funzione delle esigenze di continuità didattica, fatto salvo il rispetto dei requisiti fissati al riguardo dall’accordo quadro. Tuttavia, ha ritenuto che nel caso in esame il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare queste esigenze abbia, di fatto, un carattere non provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, e non sia giustificato ai sensi della lettera a), del punto 1, della clausola citata. Conclusivamente, la Corte di giustizia afferma che la disciplina in esame, sebbene limiti formalmente il ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato per provvedere a supplenze annuali per posti vacanti e disponibili nelle scuole statali solo per un periodo temporaneo fino all’espletamento delle procedure concorsuali, non consente di garantire che l’applicazione concreta di tale ragione obiettiva, in considerazione delle particolarità dell’attività di cui trattasi e delle condizioni del suo esercizio, sia conforme ai requisiti dell’accordo quadro
A seguito di tale pronuncia, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge n. 124/1999, per violazione dell’art. 117, primo comma Cost., in relazione alla clausola 5, comma 1, dell’accordo quadro più volte citato, nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino.
Non si è, dunque, di fronte ad una normativa che incentiva il fenomeno del precariato, quanto piuttosto a disposizioni tese alla sua (graduale) eliminazione.
Ha aggiunto il parere che la diversa disciplina dettata per i docenti di ruolo nella considerazione del servizio prestato quale requisito di accesso alla procedura abilitante è comunque giustificata da ragioni oggettive e non irragionevoli
Il requisito del servizio triennale prestato presso istituzioni scolastiche statali di cui uno di carattere specifico (cioè svolto sulla medesima classe di concorso o tipologia di posto per cui si partecipa) vale - oltre alla ragionevole delimitazione della platea degli stabilizzandi ad un precariato “qualificato”, come tale meritevole di considerazione con precedenza rispetto alla posizione della generalità dei precari - anche ad introdurre un requisito meritocratico e, dunque, di qualificazione professionale minima per conseguire l’abilitazione all’insegnamento con un meccanismo semplificato rispetto a quello ordinariamente previsto. Orbene, a differenza del docente non di ruolo con contratto a tempo determinato, ove il requisito dell’annualità di servizio specifico è necessario a ritenere sussistente la predetta qualificazione professionale, il legislatore ha ragionevolmente ritenuto che lo stesso non fosse necessario per i docenti di ruolo.
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Pubblica istruzione
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Giurisdizione - Risarcimento danno – Responsabilità precontrattuale – Affidamento - Conflitto di giurisdizione
Avverso la sentenza del giudice ordinario che abbia declinato la giurisdizione su una controversia avente ad oggetto la responsabilità precontrattuale della p.a., va sollevato conflitto di giurisdizione innanzi alle Sezioni unite della Corte di Cassazione, dovendosi aderire all’orientamento delle medesime Sezioni unite, secondo cui le predette liti vanno attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario, essendo la responsabilità precontrattuale della p.a. sussumibile nell’ambito della c.d. responsabilità da contatto sociale qualificato (in senso contrario: Adunanza plenaria, sentenze nn. 7, 19, 20 e 21 del 2021).
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Giurisdizione
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara - Obblighi dichiarativi – Art. 80, comma 5, lett. c e b-bis, d.lgs. n. 50 del 2016 – False dichiarazioni - Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
È rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione relativa alla consistenza, alla perimetrazione e agli effetti degli obblighi dichiarativi gravanti sugli operatori economici in sede di partecipazione alla procedura evidenziale, con particolare riguardo ai presupposti per l’imputazione della falsità dichiarativa, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c e b-bis, d.lgs. n. 50 del 2016 (1).
(1) Ha premesso la Sezione che l’art. 80 applicabile ratione temporis è quello risultante dal testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 5, comma 1, d. l. 14 dicembre 2018, n. 135, convertito dalla l. 11 febbraio 2019, n. 12. La disposizione transitoria dello stesso art. 5, comma 2 prevede infatti, che “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano alle procedure i cui bandi o avvisi, con i quali si indicono le gare, sono pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto [...]”, cioè successivamente al 15 dicembre 2018.
Ciò detto, le irregolarità di carattere dichiarativo sono normativamente definite nel quadro delle “situazioni” concretanti “gravi illeciti professionali”, idonei, come tali, a “rendere dubbia” l’”integrità” e l’”affidabilità” del concorrente.
Sotto un profilo generale, fondano sull’obbligo – di ordine e di matrice propriamente precontrattuale – che grava su ogni operatore economico di fornire alla stazione appaltante ogni dato o informazione comunque rilevante, al fine di metterla in condizione anzitutto di acquisire, e quindi di valutare tutte le circostanze e gli elementi idonei ai fini della ammissione al confronto competitivo.
In quanto tale – operando nella logica relazionale del “contatto sociale qualificato” strutturato dalla procedura evidenziale – esso è anzitutto “di diritto comune”, facendo capo alla regola di condotta di cui agli artt. 1337 e 1338 del codice civile, che impone un generale (e, peraltro, reciproco) dovere di chiarezza e di completezza informativa.
Nel contesto evidenziale, di matrice pubblicistica, tale obbligo (manifestazione del “principio di correttezza”: cfr. art. 30, comma 1 del Codice) è vieppiù qualificato dalla professionalità che si impone agli operatori economici che intendano accedere, in guisa concorrenziale, al mercato delle commesse pubbliche: la quale vale a conferire speciale ed autonomo rilievo, presidiato dalla sanzione espulsiva, alla omissione delle “informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”, di cui fa espressa parola la lettera c-bis del comma 5, ad finem, sintetizzandone la complessiva ratio.
Si tratta, così acquisito, di obbligo essenzialmente strumentale, finalizzato (solo) a mettere in condizione la stazione appaltante di conoscere tutte le circostanze rilevanti per l’apprezzamento dei requisiti di moralità e meritevolezza soggettiva: non obbligo fine a se stesso, ma servente.
Nondimeno, la sua (distinta) previsione come (specifico, legittimo ed autonomo) motivo di esclusione testimonia (ad onta della, non decisiva, scissione della lettera c) e della successiva lettera c-bis) da ultimo operata dal d.l. n. 135 del 2018, convertito dalla l. n. 12 del 2019) della sua attitudine a concretare, in sé, una forma di grave illecito professionale: nel qual caso, il necessario nesso di strumentalità rispetto alle valutazioni rimesse alla stazione appaltante finisce per dislocarsi dal piano del concreto apprezzamento delle circostanze di fatto, rimesso alla mediazione valutativa della stazione appaltante, al piano astratto di una illiceità meramente formale e presunta, operante de jure.
Si intende, perciò, la necessità di una puntuale perimetrazione della portata (e dei limiti) degli obblighi informativi. Sui quali si scaricano, con evidente tensione, opposti e rilevanti interessi: da un lato quello di estromettere senz’altro dalla gara i soggetti non affidabili sotto il profilo della integrità morale, della correttezza professionale, della credibilità imprenditoriale e della lealtà operativa; dall’altro, quello di non indebolire la garanzia della massima partecipazione e di non compromettere la necessaria certezza sulle regole di condotta imposte agli operatori economici, presidiate dalla severa sanzione espulsiva.
L’equilibrio tra questi due interessi va garantito da una acquisizione del principio di tipicità dei motivi di esclusione (espressamente scolpito all’art. 83, comma 8 del Codice) non limitato al profilo (di ordine formale) della mera preclusione alla introduzione di fattispecie escludenti non normativamente prefigurate (c.d. numerus clausus), ma esteso al profilo ( di ordine sostanziale) della sufficiente tipizzazione, in termini di tassatività, determinatezza e ragionevole prevedibilità delle regole operative e dei doveri informativi.
È un problema che si pone, in modo particolare, per le omissioni dichiarative (ovvero per le dichiarazioni reticenti): per le quali occorre distinguere il mero (e non rilevante) nihil dicere (che, al più, legittima la stazione appaltante a dimostrare, con mezzi adeguati, “che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali”, diversi dalla carenza dichiarativa, idonei “a rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”) dal non dicere quod debetur (che, postulando la violazione di un dovere giuridico di parlare, giustifica di per sé – cioè in quanto illecito professionale in sé considerato – l’operatività, in chiave sanzionatoria, della misura espulsiva).
Chiaro, in tal senso, il riferimento al comportamento dell’operatore che abbia “omesso le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura (cfr. lettera c), oggi c-bis): che pone, peraltro, il problema di conferire determinatezza e concretezza all’elemento normativo della fattispecie, per individuare con precisione le condizioni per considerare giuridicamente dovuta l’informazione.
La giurisprudenza ha, ancora di recente e da ultimo, ritenuto che l’individuazione tipologica dei gravi illeciti professionali avesse carattere meramente esemplificativo, potendo, per tal via, la stazione appaltante desumere il compimento di gravi illeciti professionali da ogni vicenda pregressa, anche non tipizzata, dell’attività professionale dell’operatore economico di cui fosse accertata la contrarietà a un dovere posto in una norma civile, penale o amministrativa (cfr. ex permultis, Cons. Stato, sez. V, 24 gennaio 2019, n. 586; id. 25 gennaio 2019, n. 591; id. 3 gennaio 2019, n. 72; id., sez. III, 27 dicembre 2018, n. 7231), se stimata idonea a metterne in dubbio l’integrità e l’affidabilità.
Tale conclusione (verisimilmente agevolata dal tenore testuale aperto della lettera c) del comma 5 dell’art. 80:“tra questi rientrano”), è rimasta anche dopo la modifica dell’art. 80, comma 5, realizzata con il già citato art. 5 d.-l. n. 135 del 2018, che ha sdoppiato nelle successive lettere c-bis) e c-ter) la preesistente elencazione, mantenendo peraltro nella lett. c), ma espungendo il richiamato inciso, la richiamata previsione di portata generale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 22 luglio 2019, n. 5171).
Siffatta opzione esegetica è mossa, esplicitamente o implicitamente, dalla sopra evidenziata generalizzazione degli obblighi informativi precontrattuali, ancorati ad una clausola generale di correttezza professionale (cfr. art. 30, comma 1), intorno alla quale si addensa e coagula la stessa dimensione di lealtà, affidabilità e credibilità dell’operatore professionale: cui si assume plausibilmente imposto, a pena di esclusione automatica, un dovere generale di clare loqui, al fine di mettere la stazione appaltante in condizione di elaborare – nella prospettiva del “corretto svolgimento della procedura di selezione” – le proprie “decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione” (cfr. ancora la lettera c).
È evidente che, in siffatta prospettiva, gli obblighi informativi decampano dalla logica della mera strumentalità, diventando obblighi finali, dotati di autonoma rilevanza: di dal che l’omissione, la reticenza, l’incompletezza divengono – insieme alle più gravi decettività e falsità – forme in certo senso sintomatiche di grave illecito professionale in sé e per sé.
In questo quadro, ancorché non univocamente (in senso parzialmente contrario, e.g. Cons. Stato, sez. III, 23 agosto 2018, n. 5040; id., sez. V, 3 aprile 2018, n. 2063; id., sez. III, 12 luglio 2018, n. 4266), link si è interpretato l’ultimo inciso l’art. 80, comma 5, lett. c), attribuendogli il rigoroso significato di una norma di chiusura, che impone agli operatori economici di portare a conoscenza della stazione appaltante tutte le informazioni relative alle proprie vicende professionali, anche non costituenti cause tipizzate di esclusione (Cons. Stato, sez. V, 11 giugno 2018, n. 3592; id. 25 luglio 2018, n. 4532; id. 19 novembre 2018, n. 6530; id., sez. III, 29 novembre 2018, n. 6787).
In senso parzialmente diverso, si è, tuttavia, osservato che siffatto generalizzato obbligo dichiarativo, senza la individuazione di un generale limite di operatività, “potrebbe rilevarsi eccessivamente oneroso per gli operatori economici, imponendo loro di ripercorrere a beneficio della stazione appaltante vicende professionali ampiamente datate o, comunque, del tutto insignificanti nel contesto della vita professionale di una impresa” (Cons. Stato, sez. V, 22 luglio 2019, n. 5171; id. 3 settembre 2018, n. 5142).
La necessità di un siffatto limite generale di operatività deriva, del resto, dall’art. 57, § 7 della Direttiva 2014/24/UE, che ha, per giunta, fissato in tre anni dalla data del fatto la rilevanza del grave illecito professionale, in ciò seguita dalle Linee guida ANAC n. 6/2016, precedute dal parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato n. 2286/2016 del 26 ottobre 2016, che ha affermato, tra altro, la diretta applicazione nell’ordinamento nazionale della previsione di cui al predetto paragrafo.
Per tal via, la più recente giurisprudenza si è orientata alla individuazione anzitutto di un limite temporale all’obbligo dichiarativo, ancorato alla postulata irrilevanza di illeciti commessi dopo il triennio anteriore alla adozione degli atti indittivi (cfr., tra le varie, Cons. Stato, sez. V, 5 marzo 2020, n. 1605).
In termini più significativi, è, nondimeno, maturata una prospettiva diversa, che muove dalla distinzione tipologica, risultante dalla previsione normativa, di due fattispecie distinte: a) l’omissione delle informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione, che comprende anche la reticenza, cioè l’incompletezza, con conseguente facoltà della stazione appaltante di valutare la stessa ai fini dell’attendibilità e dell’integrità dell’operatore economico (cfr. Cons. Stato, sez. V, 3 settembre 2018, n. 5142); b) la falsità delle dichiarazioni, ovvero la presentazione nella procedura di gara in corso di dichiarazioni non veritiere, rappresentative di una circostanza in fatto diversa dal vero, cui conseguirebbe, per contro, l’automatica esclusione dalla procedura di gara, deponendo in maniera inequivocabile nel senso dell’inaffidabilità e della non integrità dell’operatore economico (laddove, per l’appunto, ogni altra condotta, omissiva o reticente che sia, comporterebbe l’esclusione dalla procedura solo per via di un apprezzamento da parte della stazione appaltante che sia prognosi sfavorevole sull’affidabilità dello stesso) (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 aprile 2019, n. 2407).
La distinzione può essere approfondita e precisata, osservando che l’ordito normativo – peraltro frutto di vari interventi correttivi, integrativi e, nel caso della lettera c), anche diairetici stratificati nel tempo – fa variamente riferimento: a) alla falsità di “informazioni” fornite (lettera c-bis), di “dichiarazioni” rese e di “documentazione” presentata (lettere f-bis, f- ter e g, nonché il comma 12), talora, peraltro, dando rilevanza alla mera (ed obiettiva) “non veridicità”, talaltra ai profili di concreta “rilevanza o gravità” ovvero ai profili soggettivi di imputabilità (evocati dal riferimento alla negligenza, alla colpa, anche grave, o addirittura al dolo); b) alla attitudine “fuorviante” delle informazioni (intesa quale suscettibilità di influenzare il processo decisionale in ordine all’esito della fase di ammissione); c) alla mera “omissione” (di informazioni dovute).
Inoltre, si distingue, con esclusivo riguardo alle falsità dichiarative e documentali, secondo che le stesse rimontino a condotte (attive od omissive), a loro volta poste in essere (cfr. comma 6), prima ovvero nel corso della procedura.
In altri termini, è un dato positivo la distinzione tra dichiarazioni omesse (rilevanti in quanto abbiano inciso, in concreto, sulla correttezza del procedimento decisionale), fuorvianti (rilevanti nella loro attitudine decettiva, di “influenza indebita”) e propriamente false (rilevanti, per contro, in quanto tali).
E se si considera che la reticenza corrisponde, in definitiva, alla c.d. mezza verità (la cui attitudine decettiva opera, quindi, in negativo, in relazione a ciò che viene taciuto, costituendo, quindi, una forma di omissione parziale), le informazioni fuorvianti son quelle che manifestano attitudine decettiva in positivo, per il contenuto manipolatorio di dati reali: una sorta di mezza falsità).
La distinzione è, già sul ridetto piano normativo, legata a diverse conseguenze: mentre le prime tre ipotesi (dichiarazioni omesse, reticenti e fuorvianti) hanno rilievo solo in quanto si manifestino nel corso della procedura, la falsità è più gravemente sanzionata dall’obbligo di segnalazione all’ANAC gravante sulla stazione appaltante in forza del comma 12 e della possibile iscrizione (in presenza di comportamento doloso o gravemente colposo e subordinatamente ad un apprezzamento di rilevanza) destinata ad operare anche nelle successive procedure evidenziali, nei limiti del biennio (lettere f-ter e g, quest’ultima riferita, peraltro, alla falsità commessa ai fini del rilascio dell’attestazione di qualificazione).
Con il che la falsità (informativa, dichiarativa ovvero documentale) ha attitudine espulsiva automatica oltreché (potenzialmente e temporaneamente) ultrattiva; laddove le informazioni semplicemente fuorvianti giustificano solo – trattandosi di modalità atta ad influenzare indebitamente il concreto processo decisionale in atto – l’estromissione dalla procedura nella quale si collocano.
Appare evidente che, in siffatta prospettiva ermeneutica, l’omissione (e la reticenza) dichiarativa si appalesano per definizione insuscettibili (a differenza della falsità e della manipolazione fuorviante, di per sé dimostrative di pregiudiziale inaffidabilità) di legittimare l’automatica esclusione dalla gara: dovendo sempre e comunque rimettersi all’apprezzamento di rilevanza della stazione appaltante, a fini della formulazione di prognosi in concreto sfavorevole sull’affidabilità del concorrente.
Per giunta, la distinzione può essere articolata – anche in specifica considerazione delle ragioni di doglianza, affidate all’appello in esame – sotto un distinto e concorrente profilo.
In effetti, la distinzione tra dichiarazioni false (che importano sempre l’esclusione) e dichiarazioni semplicemente omesse (per le quali si pone l’illustrata alternativa tra la tesi, formalistica, dell’automatica esclusione e quella, sostanzialistica, della rimessione al previo e necessario filtro valutativo della stazione appaltante) trae fondamento dal rilievo che la falsità, come predicato contrapposto alla verità, costituisce frutto del mero apprezzamento di un dato di realtà, cioè di una situazione fattuale per la quale possa alternativamente porsi l’alternativa logica vero/falso, accertabile automaticamente (anche in sede giudiziale, in virtù della pienezza dell’accesso al fatto garantita dalle regole del processo amministrativo: cfr. art. 64 cod. proc. amm.).
Per contro, la dichiarazione mancante non potrebbe essere apprezzata in quanto tale, dovendo essere, volta a volta, valutate le circostanze taciute, nella prospettiva della loro idoneità a dimostrare l’inaffidabilità del concorrente.
Tale valutazione, in quanto frutto di apprezzamenti ampiamente discrezionali, non potrebbe essere rimessa all’organo giurisdizionale, ma andrebbe necessariamente effettuata (eventualmente a posteriori) dalla stazione appaltante; a differenza della falsità, che è di immediata verifica e riscontro, anche in sede contenziosa.
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Contratti della Pubblica amministrazione
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Agricoltura – Quote latte – Annate 2003-2004 - Versamento mensile del prelievo supplementare – E’ facoltativo.
Per l’annata lattiera 2003-2004 il versamento mensile del prelievo supplementare dovuto dalle Aziende produttrici, non può essere ritenuto obbligatorio, ma solo facoltativo, essendo in diretto contrasto con la disciplina del Regolamento n. 3950 del 1992 (1).
(1) Ha ricordato la Sezione che l’obbligo di trattenuta e di versamento mensile a carico degli acquirenti, introdotto dall’art. 5, d.l. n. 49 del 2003, convertito nella legge n. 119 del 2003, non è applicabile all’annata lattiera 2003-2004, essendo in diretto contrasto con la disciplina del Regolamento n. 3950 del 1992, il quale prevedeva solo la facoltà e non anche l’obbligo degli acquirenti di effettuare le trattenute. L’art. 2, paragrafo 2, comma 3, del detto Regolamento aveva previsto con chiarezza la ‘facoltatività’ della trattenuta effettuabile dall’acquirente, come si desume dal suo dato testuale, per cui “qualora i quantitativi consegnati da un produttore superino il quantitativo di riferimento a sua disposizione, l’acquirente è autorizzato a trattenere a titolo di anticipo sul prelievo dovuto, secondo modalità determinate dallo Stato membro, un importo del prezzo del latte su ogni consegna di tale produttore che supera il quantitativo di riferimento a sua disposizione”; “l’autorizzazione” a trattenere implica che non vi fosse di per sé un obbligo, potendo essere tale trattenimento, a titolo di anticipo, solo una delle possibili modalità di riscossione (Cons. Stato, sez. III, 27 dicembre 2017, n. 6119; 22 dicembre 2017, n. 6050, n. 6049, n. 6048, n. 6047; 11 dicembre 2017 n. 5836).
Ne deriva che per l’annata lattiera 2003-2004 il versamento mensile non poteva essere ritenuto obbligatorio, ma solo facoltativo, con un ulteriore profilo di illegittimità comunitaria degli atti impugnati.
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Agricoltura
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Edilizia – Ristrutturazione edilizia - Interventi edilizi sulle preesistenze con incrementi volumetrici – Non rientrano nella ristrutturazione.
Non rientrano nella nozione di ristrutturazione urbanistica “ordinaria” tutti gli interventi edilizi sulle preesistenze che comportino incrementi volumetrici e, nelle zone vincolate (come quella in esame, per come emerge dall’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune con atto n. 429/2019 del 18-2-2020), quelli che comportino modifiche della sagoma degli edifici (1).
(1) Ha ricordato il parere che l’art. 10 del Testo unico edilizia (nella formulazione vigente alla data di adozione del provvedimento impugnato) prevede che “Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: …c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti…nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni”.
Da tale norma è dato di ricavare la sostanziale assimilabilità dell’intervento di ristrutturazione edilizia caratterizzato da incrementi volumetrici ovvero di sagoma e prospetti a quello di nuova costruzione, quantomeno per le porzioni che costituiscono un novum rispetto alla preesistenza.
In buona sostanza, quando l’intervento edilizio sulla preesistenza modifichi quest’ultima con riferimento ai parametri urbanistico-edilizi sopra evidenziati, l’opera in relazione a questi ultimi deve essere valutata come una innovazione rilevante in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio ed è soggetta, per le parti di interesse, alle regole generali che presidiano e disciplinano l’edificazione sul territorio comunale.
Sicchè la realizzazione di interventi di ristrutturazione edilizia “pesante” restano assoggettati al previo rilascio del permesso di costruire e soggiacciono al regime delle distanze previsto dalla normativa urbanistica.
Questo Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, IV, 2-4-2019, n. 2163; IV, n. 5466/2020) ha, invero, chiarito che, indipendentemente dalla qualificazione di un intervento in termini di ristrutturazione o di nuova costruzione, nell’ipotesi in cui un manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte poiché esso – quanto alla sua collocazione fisica – rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare le norme sulle distanze; precisandosi, altresì, che la distanza preesistente può essere conservata quando ci si contenga nei limiti preesistenti di altezza, volumetria e sagoma dell’edificio, mentre si ha un novum e, dunque, una nuova costruzione per ciò che eccede (cfr. Cons. Stato, IV, 12-10-2017, n. 4728).
Dai principi giurisprudenziali innanzi richiamati, emerge chiaramente che ove l’intervento edilizio di ristrutturazione comporti incrementi volumetrici ovvero modifiche della sagoma, che si realizzino, come nella fattispecie in esame, nell’incremento dell’altezza del preesistente manufatto e nella realizzazione di una copertura piana in luogo di quella originaria inclinata, tali parti, connotate da innegabili profili di novità rispetto alla preesistenza, soggiacciono al limite delle distanze e non possono essere assorbiti dalla regola della mera osservanza delle distanze preesistenti applicabile alla porzione di edificio originaria
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Edilizia
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Giurisdizione – Sanità – Struttura sanitaria accreditata - Controlli esterni in ambito sanitario – Lazio - Riduzione di sanzioni – Controversia - Giurisdizione del giudice amministrativo.
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto l’applicazione di una disposizione che regola il potere di ammissione al beneficio della riduzione di sanzioni correlate ai controlli esterni in ambito sanitario ai sensi dell’art. 9, commi 2, 3 e 4, l. reg. Lazio 28 dicembre 2018, n. 13, potere autoritativo peraltro previsto da una disciplina finalizzata alla riduzione del contenzioso, e dunque connesso a profili di gestione che involgono valutazioni tipicamente pubblicistiche sottese alla cura, nel modo migliore, dell’interesse della collettività di cui l’amministrazione è in questa materia attributaria (1).
(1) Rientra invece nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto l’impugnazione della sanzione pecuniaria, nel caso di «inappropriatezza» dei ricoveri effettuati, in relazione all’entità della remunerazione dovuta ad una clinica privata accreditata presso il Servizio sanitario regionale, allorché venga in rilievo la «congruità» dei ricoveri effettuati.
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Giurisdizione
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Magistrati – Giudici di pace - Tutela assistenziale e previdenziale del lavoratore subordinato – Esclusione – Compatibilità con norme comunitarie - Rimessione alla Corte di Giustizia Ue.
Magistrati – Giudici di pace - Incarico – Periodo di otto anni – Proroga - Compatibilità con norme comunitarie - Rimessione alla Corte di Giustizia Ue.
Deve essere rimessa alla Corte di Giustizia Ue la questione se gli artt. 20, 21, 31, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, le direttive n. 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato (clausole 2 e 4), n. 1997/81/CE sul lavoro a tempo parziale (clausola 4) n. 2003/88/CE sull’orario di lavoro (art. 7), n. 2000/78/CE (art. 1, 2 comma 2 lett. a) in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana di cui alla l. n. 374 del 1991 e s.m. e d.lgs. n. 92 del 2016 come costantemente interpretata dalla giurisprudenza, secondo cui i giudici di pace, quali giudici onorari, risultano oltre che non assimilati quanto a trattamento economico, assistenziale e previdenziale a quello dei giudici togati, completamente esclusi da ogni forma di tutela assistenziale e previdenziale garantita al lavoratore subordinato pubblico (1).
Deve essere rimessa alla Corte di Giustizia Ue la questione se la clausola 5 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE, osti all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana, secondo cui l’incarico a tempo determinato dei giudici di pace quali giudici onorari, originariamente fissato in 8 anni (quattro più quattro) possa essere sistematicamente prorogato di ulteriori 4 anni senza la previsione, in alternativa alla trasformazione in rapporto a tempo indeterminato, di alcuna sanzione effettiva e dissuasiva (1).
(1) La controversia ha per oggetto la richiesta da parte di un giudice di pace che ha svolto l’incarico per lunghi anni e che ha goduto di varie conferme, di accertamento di un rapporto di lavoro pubblico a tempo pieno o part time con conseguente condanna del ministero al pagamento delle differenze retributive medio tempore maturate, oltre oneri previdenziali e assistenziali
La Sezione ha ricordato che secondo la normativa italiana come costantemente interpretata dalla giurisprudenza interna, il rapporto di servizio dei giudici di pace, qualificato dalla legge come onorario, non presenta gli elementi tipici del rapporto di lavoro subordinato e segnatamente del rapporto di pubblico impiego, essendo alle dipendenze del Ministero della Giustizia.
Ne consegue il mancato riconoscimento di ogni forma di tutela di tipo previdenziale ed assistenziale, anche in riferimento alla tutela della salute, della maternità e della famiglia oltre che del diritto irrinunciabile per qualsiasi lavoratore (art. 36 Cost.) alle ferie.
I giudici c.d. togati o di carriera sono invece titolari di un rapporto di lavoro in regime di diritto pubblico ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165.
La Sezione ritiene, tuttavia, dubbia la conformità al diritto dell’Unione di siffatta disciplina in base alla nozione di “lavoratore” di tipo senz’altro sostanziale invalsa nell’ambito del diritto dell’UE, svolgendo i giudici di pace funzioni giurisdizionali del tutto assimilabili a quelle dei giudici c.d. togati e/o comunque a quelle di un prestatore di lavoro alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione.
Ai fini del diritto comunitario i giudici possono essere considerati lavoratori ai sensi della clausola 2 punto 1 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, dal momento che la sola circostanza che i giudici siano qualificati come titolari di una carica giudiziaria non è sufficiente di per sé a sottrarre questi ultimi dal beneficio dei diritti previsti dall’accordo quadro (Corte di Giustizia U.E., 1.3.2012, O'Brien, C-393/10).
In base alla clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale e al principio di non discriminazione, il diverso trattamento di un lavoratore a tempo parziale rispetto ad un lavoratore a tempo pieno comparabile può giustificarsi solo con “ragioni oggettive”. Orbene, la nozione di “ragioni oggettive” ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale dev’essere intesa nel senso che essa non autorizza a giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo parziale e i lavoratori a tempo pieno per il fatto che tale differenza di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta. Tale nozione richiede, al contrario, che la disparità di trattamento in causa risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria (v., per analogia con la clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, sentenza 13.9.2007 Del Cerro Alonso C-307/05 punti 57 e 58).
Va ricordato che considerazioni di bilancio non possono giustificare una discriminazione (v., in tal senso, sentenze del 23 ottobre 2003, Schönheit e Becker, C-4/02 e C-5/02, 22 aprile 2010, Zentralbetriebsrat der Landeskrankenhäuser Tirols, C-486/08).
La mera qualificazione legislativa di un rapporto di pubblico servizio come rapporto onorario non appare da sola ad escludere né la sussistenza, di fatto e diritto, di un rapporto di lavoro subordinato, né ingiustificate discriminazioni a danno dei lavoratori pubblici a tempo parziale e/o determinato in assenza della determinazione di criteri oggettivi e trasparenti sottesi ad un'esigenza reale di discriminazione, stante l'assenza nella legge 374/1991 istitutiva del giudice di pace (e nella normativa secondaria attuativa) di elementi precisi e concreti che contraddistinguano il rapporto di impiego del giudice di pace, anche nel particolare contesto in cui s’inscrive, e la correlata assenza di idoneità e di necessità della normativa discriminatoria richiamata (vedasi in particolare punti 4-5-6-7) a conseguire un obiettivo che sia diverso da quello di sfruttare in modo intensivo, continuativo ed a tempo pieno una forza lavoro, a costi esigui, senza approntare alcuna garanzia o tutela a fini previdenziali ed assistenziali, nè garantire la continuità del servizio, ma sopperendo ad essa con indebite, ingiustificate reiterazioni di rapporti di lavoro a tempo determinato.
Né tali ragioni obiettive - ad avviso della Sezione - potrebbero rinvenirsi nella possibilità astratta del giudice di pace di esercitare l’attività di avvocato al di fuori del circondario in quanto, come affermato dalla Corte di Giustizia UE con riguardo ai magistrati onorari britannici, “non si può sostenere che i giudici a tempo pieno e i recorder non si trovino in una situazione comparabile a causa delle divergenze tra le loro carriere” rilevando invece se essi svolgano o meno la stessa attività (Corte di Giustizia U.E., 1.3.2012, O'Brien, C-393/10).
Del pari non potrebbero costituire “ragioni obiettive”, secondo il Collegio, le differenze pur esistenti in punto di modalità di selezione, apparendo ciò del tutto illogico oltre che sproporzionato, e non potendo ostare il mancato superamento del concorso pubblico (art. 97 Cost.) attesa la previsione di cui all’art.2126 c.c. in tema di rapporto di lavoro di fatto.
Parimenti irrilevante - ad opinione della Sezione - è la formale qualificazione del compenso corrisposto quale indennità, non potendosene invece del tutto escludere il carattere sinallagmatico, assolvendo esso la funzione di compensare i particolari oneri connessi al servizio istituzionale concretamente svolto, con un sistema parzialmente a cottimo ovvero in parte fisso ed in parte correlato alla quantità dei provvedimenti giurisdizionali emanati.
Nemmeno infine la durata a tempo determinato del rapporto può rilevare quale “ragione obiettiva”, sia perché il lavoratore a tempo determinato deve in linea di principio godere degli stessi diritti del lavoratore a tempo indeterminato, sia in quanto l’esaminato meccanismo di proroga sistematica degli incarichi per una durata di 15 anni - ovvero pari ad una significativa porzione della vita lavorativa della persona - e suscettibile di ulteriore proroga ha di fatto operato una sorta di “stabilizzazione” del rapporto “onorario. In questo modo è anche difficile negare (come pur autorevolmente opina la Corte di Cassazione) l’inserimento del giudice di pace nell’apparato organizzativo dell’Amministrazione della Giustizia.
D'altra parte, preme evidenziare se anche si volesse conferire a tali differenze ordinamentali la valenza di "ragioni obiettive" che giustifichino una discriminazione fra giudici di carriera e giudici di pace, tale differenziazione potrebbe solo consentire di escludere il diritto alla piena assimilazione e quindi l'applicabilità ai giudici di pace dello stesso trattamento economico e previdenziale dei giudici di carriera, ma non certo legittimare la negazione di qualsiasi diritto in presenza di un'acclarata attività continuativa ed a tempo pieno in regime di subordinazione, addirittura la negazione della stessa sussistenza di un rapporto di lavoro di fatto ai sensi e nei limiti di cui all’art. 2126 c.c. (nello specifico di pubblico impiego, non essendo ipotizzabile una fattispecie di lavoro subordinato presso una pubblica amministrazione al di fuori del pubblico impiego) e di tutti i diritti ad esso correlati, sia alla luce della normativa costituzionale e legislativa interna, sia alla luce della richiamata normativa e giurisprudenza comunitaria: diritto ad un'equa retribuzione, diritto alla pensione, alla tutela della salute e della maternità, alla continuità del rapporto in caso di abusiva reiterazione del rapporto a tempo determinato.
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Magistrati
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Processo amministrativo - Rito appalti – Definizione della causa nella camera di consiglio di revoca dell’ordinanza cautelare - Possibilità
Processo amministrativo - Rito appalti - Bando di gara – Impugnazione immediata clausole del bando - Solo quelle che impediscono la partecipazione.
La sentenza in forma semplificata, che può definire la causa in materia di contratti pubblici ex art. 120, comma 6, c.p.a., come modificato dall'art. 4, comma 4, lett. a), d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, può essere pronunciata, quale modalità di definizione della controversia, anche se nell’udienza in camera di consiglio non venga discussa, direttamente, la “domanda cautelare”, bensì una qualsiasi altra questione da discutere ad un’udienza qualificabile come “cautelare”, come quella sull’istanza di revoca o modifica dell’ordinanza cautelare (1).
Il bando di gara o di concorso o la lettera d'invito, normalmente impugnabili con l'atto applicativo, conclusivo del procedimento concorsuale, devono considerarsi immediatamente impugnabili allorché contengano clausole impeditive dell'ammissione dell'interessato alla selezione; in tale ipotesi, infatti, dette clausole, precludendo esse stesse la partecipazione dell'interessato alla procedura concorsuale, appaiono idonee a generare una lesione immediata, diretta ed attuale nella situazione soggettiva dell'interessato ed a suscitare, di conseguenza, un interesse immediato all'impugnazione, dal momento che questo sorge al momento della lesione (2).
(1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 120, comma 6, c.p.a., come modificato dall'art. 4, comma 4, lett. a), d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, ha previsto che “di norma” il giudizio è definito, anche in deroga al comma 1, primo periodo dell’art. 74, in esito all’udienza cautelare ai sensi dell’art. 60, ove ne ricorrano i presupposti.
Il riferimento “all’udienza cautelare” consente di ritenere che la sentenza in forma semplificata possa essere pronunciata, quale modalità di definizione della controversia, anche se nell’udienza in camera di consiglio non venga discussa, direttamente, la “domanda cautelare”, bensì una qualsiasi altra questione da discutere ad un’udienza qualificabile come “cautelare”.
(2) Cons. St., A.P., 29 gennaio 2003, n. 1; id. 26 aprile 2018, n. 4.
Di recente, il Consiglio di Stato ha avuto modo di fare applicazione del consolidato principio in esame, statuendo che nelle gare pubbliche è onere dell'interessato procedere all'immediata impugnazione delle clausole del bando o della lettera di invito che prescrivano il possesso di requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara la cui carenza determina immediatamente l'effetto escludente, configurandosi il successivo atto di esclusione come meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già prodotta. Solo il carattere ambiguo della clausola, che non rende immediatamente percepibile l'effetto preclusivo alla partecipazione per chi sia privo di un requisito soggettivo richiesto dal bando, ne esclude l'immediata lesività e ne consente l'impugnazione unitamente all'atto di esclusione, applicativo della clausola stessa suscettibile di diverse interpretazioni (Cons. St., A.P., 29 gennaio 2003, n. 1; id. 26 aprile 2018, n. 4; id., sez. V, 12 aprile 2019, n. 2387).
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Processo amministrativo
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Processo amministrativo – Legittimazione attiva – Presupposti – Individuazione.
Processo amministrativo – Interesse a ricorrere – Interesse diffuso – Individuazione.
Processo amministrativo – Interesse a ricorrere – Gestione commissariale di Alitalia – Atti commissariali – Impugnazione del Codacons – Inammissibilità.
Ai della legittimazione ad agire, la qualificazione giuridica e la differenziazione non sono due criteri autonomi; l’unico criterio è quello della qualificazione giuridica imposto dall’operatività del principio di legalità; la differenziazione è insita nella qualificazione nel senso che la norma assegna rilevanza all’interesse legittimo che si presenta in modo differenziato rispetto alla posizione di altri (1).
L ’interesse diffuso è una situazione giuridica autonoma azionata in giudizio da un ente collettivo che fa valere un “interesse proprio” e che viene individuata mediante una tipizzazione legislativa espressa ovvero una disposizione legislativa implicita risultante da una tipizzazione giurisprudenziale effettuata attraverso la previsione della necessità del possesso da parte dell’ente di determinati requisiti (2).
E’ inammissibile il ricorso proposto dal Codacons per contestare il corretto esercizio del potere amministrativo nell’ambito della complessiva gestione commissariale di Alitalia, essendo proposto un’azione non a tutela di un “interesse diffuso” che possa definirsi “proprio” - mancando sia una espressa previsione di legge sia i requisiti richiesti implicitamente dalla legge e tipizzati dalla giurisprudenza che dimostrano la sua effettiva sussistenza - ma a tutela di “interessi pubblici” che, essendo interessi di “altri”, presuppongono, ai sensi dell’art. 81 cod. proc. civ., una espressa autorizzazione legislativa (3).
(1) Ha ricordato la Sezione che processo amministrativo, per indicazioni costituzionali (artt. 103-113 Cost.), ha natura soggettiva avendo ad oggetto il rapporto giuridico di diritto pubblico controverso basato sulla relazione della situazione giuridica fatta valere di interesse legittimo (e nelle materie di giurisdizione esclusiva anche di diritto soggettivo) con il potere pubblico ai fini dell’ottenimento di un bene della vita (da ultimo, Cons. Stato, Ad. plen., 9 dicembre 2021, n. 22). Il principio di legalità impone che il suddetto rapporto sia definito con legge. Le azioni proposte nel processo sono plurime e finalizzate ad ottenere la tutela della suddetta situazione giuridica.
La Costituzione, implicitamente, ammette forme di processi di natura oggettiva ma le stesse, derogando al modello generale, per la loro valenza eccezionale, sono ammissibili nei soli casi previsti dalla legge, senza che sia possibile ricorrere ad interpretazioni analogiche. Le azioni proposte nel processo, in questi casi, sono a tutela dell’interesse pubblico e possono assumere connotazioni peculiari a seconda del soggetto che le fa valere.
Nel processo amministrativo soggettivo, le condizioni dell’azione sono la legittimazione ad agire e l’interesse ad agire che si devono caratterizzare nel senso di seguito indicato.
La legittimazione ad agire presuppone la dimostrazione dell’effettiva titolarità di una situazione giuridica di interesse legittimo (e, nelle materie di giurisdizione esclusiva, anche di diritto soggettivo) e, dunque, di una posizione giuridica qualificata e differenziata.
Nel processo civile, ai fini del riconoscimento della sussistenza della legittimazione ad agire, si ritiene sufficiente la mera affermazione della astratta titolarità di un diritto soggettivo fatto valere (cd. possibilità giuridica). Tale diversità è conseguenza del fatto che nel processo civile alla fase preliminare di natura processuale nel cui ambito si accerta l’astratta titolarità del diritto soggettivo segue la fase di merito di accertamento effettivo di tale diritto. Nel processo amministrativo, l’anticipazione di tale accertamento alla fase preliminare si giustifica in quanto il riconoscimento della titolarità dell’interesse legittimo non definisce ancora il giudizio, occorrendo che nella fase di merito si confronti l’interesse legittimo con l’interesse pubblico al fine di stabilire se il rapporto giuridico debba essere accertato con prevalenza del primo sul secondo per l’illegittimità dell’azione amministrativa (Cons. Stato, sez. VI, 10 dicembre 2021, n. 8232).
La qualificazione giuridica e la differenziazione non sono due criteri autonomi. L’unico criterio è quello della qualificazione giuridica imposto dall’operatività del principio di legalità. La differenziazione è insita nella qualificazione nel senso che la norma assegna rilevanza all’interesse legittimo che si presenta in modo differenziato rispetto alla posizione di altri.
Il processo di differenziazione può essere “espresso” nei casi in cui la qualificazione e la differenziazione dell’interesse legittimo è effettuata dalla norma in modo diretto stabilendosi quale sia il soggetto che possa essere parte di un rapporto giuridico con la pubblica amministrazione.
Il processo di differenziazione può essere “implicito” nei casi in cui la qualificazione e la differenziazione è effettuata dalla norma in modo indiretto mediante la richiesta della sussistenza di una specifica condizione desumibile dalla complessiva disciplina della materia, che può essere ricostruita sulla base di «criteri materiali o caratteri fattuali» diversi a seconda del settore che viene in rilievo (quest’ultimo inciso è tratto da Cons. Stato, Ad. plen., n. 22 del 2021, cit.).
L’art. 81 cod. proc. civ. dispone che «fuori dai casi espressamente previsti dalla legge nessuno può fare valere nel processo in nome proprio un diritto altrui». La legittimazione sostitutiva è sottoposta, pertanto, al principio di tipicità.
L’interesse ad agire, ai sensi dell’art. 100 cod. proc. civ. (applicabile nel processo amministrativo per il tramite del rinvio esterno di cui all’art. 39, comma 1, cod. proc. amm.), presuppone che il ricorrente ottenga un’effettiva utilità cioè un risultato di vantaggio dall’accoglimento del ricorso. Corollari dell’interesse ad agire sono: i) la personalità, dovendo l’utilità essere riconducibile al soggetto che propone il ricorso; ii) l’attualità della lesione); iii) la concretezza del pregiudizio.
L’individuazione della legittimazione ad agire e dei corollari della qualificazione e differenziazione nonché dell’interesse ad agire assume connotati di maggiore complessità in presenza di situazioni giuridiche meta-individuali, quali sono gli interessi diffusi.
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(2) Ha affermato la sezione che la principale difficoltà è stabilire, in presenza di tale posizione giuridica, come avviene il processo di differenziazione ai fini dell’individuazione del soggetto che può proporre l’azione in giudizio.
La giurisprudenza è costante nell’affermare che tale processo avvenga mediante il riconoscimento della legittimazione in capo ad enti collettivi.
Un primo orientamento ritiene che si tratti di una forma di legittimazione ad agire sostitutiva, in quanto gli enti fanno valere in giudizio un “interesse di altri” e cioè della collettività cui si riferisce l’interesse diffuso. In tale prospettiva, la legittimazione deve ritenersi tipica e, pertanto, ammissibile, ai sensi dell’art. 81 cod. proc. civ., nei soli casi ammessi dalla legge (Cons. Stato, sez. VI, 21 luglio 2016, n. 3303).
Un secondo orientamento, seguito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ritiene, invece, che gli enti fanno valere in giudizio un “interesse proprio”, rilevando che «la situazione giuridica azionata» è «propria» delle associazioni ed «è relativa ad interessi diffusi nella comunità o nella categoria, i quali vivono sprovvisti di protezione sino a quando un soggetto collettivo, strutturato e rappresentativo, non li incarni» (Cons. Stato, Ad. plen., 20 febbraio 2020, n. 6)
In questa ultima prospettiva, cui la Sezione aderisce, deve rilevarsi che il processo di differenziazione dell’interesse diffuso mediante l’attribuzione della sua titolarità ad un ente collettivo possa avvenire espressamente mediante un chiaro riconoscimento legislativo ovvero implicitamente mediante l’analisi della disciplina complessiva che di volta in volta viene in rilievo (cd. doppio binario).
In presenza di un riconoscimento espresso riferito ad un particolare ambito, non si pongono particolari questioni interpretative che sono risolte direttamente dalla legge mediante l’individuazione del soggetto che può proporre l’azione in giudizio.
In presenza di un riconoscimento implicito, la giurisprudenza amministrativa richiede, affinché possa ritenersi che l’ente faccia valere un “interesse proprio”, che ricorrano in modo cumulativo le seguenti condizioni: i) il fine di tutelare tale interesse deve essere stabilito dallo statuto; ii) l’ente abbia una certa dose di rappresentatività ed una organizzazione stabilmente finalizzata a tutelare tale interesse; iii) l’interesse diffuso abbia connotati di sostanziale “omogeneità” tra i soggetti che compongono la “comunità” (Cons. Stato, Ad. plen., n. 6 del 2020, cit.). Si tratta di criteri materiali o fattuali che fanno emergere la dimensione giuridica della legittimazione.
E’ bene chiarire che la differenza tra le due forme di riconoscimento, espresso o implicito, da parte della legge non significa, come ha chiarito la citata Adunanza plenaria n. 6 del 2020, che la tutela dell’interesse diffuso presupponga necessariamente l’esistenza di una previsione di legge. La previsione legislativa che deve sempre ricorrere è quella imposta dal principio di legalità operante nel processo di qualificazione giuridica e differenziazione dell’interesse diffuso e della conseguente legittimazione ad agire. Ciò vuol dire che, quando si afferma che l’ente collettivo può agire a tutela di un interesse diffuso anche in mancanza di una previsione di legge perché sta facendo valere un “interesse proprio” e non di “altri”, lo si fa per escludere che occorra, ai sensi dell’art. 81 cod. proc. civ., una espressa previsione di legge ma non anche che si possa prescindere da una, sia pure implicita, base legale che richiede che l’ente sia comunque in possesso di determinati requisiti che sono quelli tipizzati dalla giurisprudenza. Si deve, pertanto, distinguere tra base legale ai fini della legittimazione sostitutiva ai sensi dell’art. 81 cod. proc. civ. e base legale ai fini della individuazione in generale della legittimazione mediante il processo di qualificazione giuridica e differenziazione dell’interesse diffuso.
In definitiva, può ritenersi che l’interesse diffuso è una situazione giuridica autonoma azionata in giudizio da un ente collettivo che fa valere un “interesse proprio” e che viene individuata mediante una tipizzazione legislativa espressa ovvero una previsione legislativa implicita risultante da una tipizzazione giurisprudenziale effettuata attraverso la previsione della necessità del possesso da parte dell’ente dei requisiti sopra riportati.
L’interesse ad agire presuppone che l’ente collettivo e la comunità che “rappresenta” subiscano un pregiudizio personale, concreto ed attuale, che, per la particolare natura del soggetto che agisce in giudizio, si connota in modo diverso e meno rigoroso rispetto all’interesse ad agire che deve accompagnare le azioni individuali.
Nel processo amministrativo oggettivo, colui che agisce in giudizio lo fa a tutela di un “interesse pubblico” che, per definizione, è un “interesse di altri” e, pertanto, ai sensi dell’art. 81 cod. proc. civ., è necessaria sempre una “espressa” previsione di legge che fondi la cd. legittimazione legale.
(3) Nella fattispecie in esame, l’azione proposta ha una duplicità finalità.
La prima finalità è quella di contestare la procedura di amministrazione straordinaria e la nomina dei commissari sul presupposto che tale nomina sia illegittima. Si tratta di uno scopo che non rientra tra quelli indicati nello statuto. Non sussiste alcuna specifica correlazione tra la nomina di organi di una società che si ritiene illegittima e le finalità statutarie, anche perché l’asserito beneficio per i consumatori prospettato nei motivi di appello è solo indiretto e, soprattutto, non dimostrato. Seguendo la logica difensiva degli appellanti, qualunque provvedimento della pubblica amministrazione che incida, come nella specie, sull’organizzazione di una società (mediante la previsione di un programma di amministrazione straordinaria) che eroga prestazioni potenzialmente a tutti i cittadini consentirebbe di ritenere sussistente la legittimazione ad agire. Non vengono in rilievo, pertanto, attività idonee ad incidere sui consumatori intesi come parti deboli perché privi di adeguate informazioni. Né varrebbe rilevare, come fanno gli appellanti, che la rimozione dei commissari nominati dimostrerebbe la fondatezza dei motivi dedotti, in quanto si tratta di una decisione autonomamente assunta dall’amministrazione che presenta connotati neutrali ai fini del giudizio sulla legittimazione ad agire.
La seconda finalità è quella di tutelare la concorrenza ma con riguardo al divieto di aiuti di Stato. Tale divieto è finalizzato ad evitare di alterare il principio del pari trattamento tra imprese che operano nel mercato, evitando che l’assegnazione di finanziamenti possa incidere sul rispetto delle regole paritarie nei rapporti tra imprese. Si tratta anche in questo caso di un scopo non statutario, in quanto, come esposto nella parte in fatto, lo statuto prevede che l’Associazione possa agire per fare valere eventuali intese anticoncorrenziali che per il loro oggetto si risolverebbero in un pregiudizio per i “consumatori”, da intendersi in senso ampio come coloro che stipulano contratto attuativi di tali intese le quali devono ritenersi, per tale collegamento funzionale, nulle (Cass. civ., sez. un., 30 dicembre 2021, n. 41994).
La contestazione del “prestito ponte” è, invece, finalizzata a tutelare il mercato e le imprese che hanno interesse a che non operi nello stesso settore un’altra impresa che abbia un ingiusto vantaggio competitivo derivante dagli aiuti di Stato erogati. Tale contestazione non è, pertanto, finalizzata a proteggere anche i consumatori, se non in modo indiretto ed eventuale. Né varrebbe rilevare, come fanno gli appellanti, che la decisione della Commissione europea che ha ritenuto che il prestito erogato integri gli estremi di n aiuto di Stato costituirebbe dimostrazione della fondatezza dell’appello. Tale decisione prova soltanto l’illiceità del finanziamento e il conseguente obbligo dell’amministrazione nazionale di provvedere a dare attuazione alle prescrizioni europee.
In relazione all’Associazione utenti del trasporto aereo marittimo e ferroviario, è assente il fine specifico, che viene in rilievo nel caso in esame, stabilito nello statuto. Quest’ultimo attribuisce a tale associazione lo scopo di controllare, soprattutto, l’utilizzo di fondi pubblici per i servizi di trasporto pubblico per assicurare la sicurezza dell’utente, nonché di intervenire «con tutti i mezzi previsti dalla legge» contro ogni forma di abuso da chiunque posto in essere al fine di migliorare, «la qualità del servizio e l’ambiente di vita degli utenti» dei servizi di trasporto.
Si tratta di finalità statutarie che non ricomprendono quelle specifiche, sopra riportate, che rilevano in questa sede.
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Processo amministrativo
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Sanità pubblica - Livelli essenziali di assistenza - pigmentazione dell’areola capezzolo – Eseguita da estetista – Esclusione – Illegittimità.
E’ illegittima la circolare del Ministero della Salute che esclude dai Livelli essenziali di assistenza (Lea) interventi che sono solo estetici e non medicali, individuando l’eseguibilità della prestazione “pigmentazione dell’areola capezzolo” esclusivamente da parte dei professionisti sanitari ed escludendola dalle attività previste dalla l. n. 1 del 1990 per la figura artigianale dell’estetista, in considerazione del riconoscimento della stessa nell’alveo dei Lea ai sensi del d.P.C.M. 12 gennaio 2017, n. 110258, recante “Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza”, di cui all'art. 1, comma 7, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (1).
(1) Ha chiarito la Sezione che la pratica della dermopigmentazione non può essere ricondotta alla tipologia del trattamento terapeutico, come unica conseguenza della sua indicazione tra i L.E.A.. I livelli essenziali di assistenza, infatti, sono le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a garantire a tutti i cittadini. Affermare la natura sanitaria come unica conseguenza dell’inclusione dell’elenco implica un salto logico, che non può trovare condivisione.
Di poi, risulta anche evidenziato, dalle indicate conclusioni, come l’attività di dermopigmentazione sia specificamente finalizzata a ristabilire il benessere complessivo della persona attraverso un trattamento estetico (e dunque riconducibile all’attività propria dell’estetista, di cui alla legge n. 1/90, nulla avendo a che vedere con l’intervento chirurgico). Emerge, altresì, che, nel caso di tessuti trattati da radioterapia o chemioterapia, il professionista debba necessariamente acquisire il parere di un medico, prima di effettuare il trattamento, come, peraltro, è tenuto a fare in aderenza alla diligenza professionale in altri casi particolari.
Ancora, va precisato che, allo stato, i corsi abilitanti alla effettuazione della dermopigmentazione sono diretti agli estetisti, mentre non risultano, come rilevato dai verificatori, corsi di preparazione per operatori sanitari o per medici.
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Sanità pubblica
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Covid-19 – Aiuti economici – Accesso alla garanzia per finanziamenti dalle banche - Imprese facenti parte di un gruppo la cui controllante ha sede all’estero - Modalità operative - Non vanno sospesa.
Non devono essere sospese in via monocratica, come richiesto dalla Associazione italiana di consumatori iscritta nell’elenco delle associazioni di consumatori e utenti rappresentative a livello nazionale ex art. 137 del d.lgs. n. 206 del 2005 – mancando i presupposti dell’estrema gravità ed urgenza richiesti dall’art. 56, comma 1, c.p.a. - le modalità operative, attuative dell’art. 1, d.l. 8 aprile 2020 n. 23, concordate tra da SACE S.p.A. e ABI – Associazione Bancaria Italiana - per l’accesso, fino al 31 dicembre 2020, alla garanzia per finanziamenti sotto qualsiasi forma erogati alle imprese colpite dall’epidemia Covid-19, da parte di banche, istituzioni finanziarie nazionali e internazionali e altri soggetti abilitati all’esercizio del credito in Italia, rese note con Circolare Abi del 21 aprile 2020 (Prot. UCR 000766), nella parte in cui non esclude dall’accesso al prestito garantito le imprese facenti parte di un gruppo la cui controllante ha sede all’estero, e più in particolare le imprese sottoposte a Direzione e coordinamento, ex art. 2497 c.c., da parte di capogruppo avente sede all’estero.
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Covid-19
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