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Autorità amministrative indipendenti - Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente - Servizio idrico integrato – Proposta tariffaria – Approvazione da parte di Arera – Silenzio assenso – Inconfigurabilità.               L’istituto del silenzio assenso non si applica al procedimento relativo all’approvazione, da parte dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, della proposta tariffaria del servizio idrico integrato predisposta dall’ente d’ambito (1).          (1) Ha premesso il C.g.a. che fra i poteri riconosciuti dalla l. n. 481 del 1995 all’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (Arera) vi è il potere di stabilire e aggiornare la tariffa base, i parametri e gli altri elementi di riferimento per determinare le tariffe del servizio idrico integrato, nonché le modalità per il recupero dei costi eventualmente sostenuti nell'interesse generale in modo da assicurare la qualità, l'efficienza del servizio e l'adeguata diffusione del medesimo sul territorio nazionale, nonché la realizzazione degli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse e di verificare la conformità ai criteri così predeterminati delle proposte di aggiornamento delle tariffe annualmente presentate di cui all’art. 2, comma 12, lett. e), che individua poi le modalità di esercizio del potere tariffario stabilendo che l’Arera si pronuncia, sentiti eventualmente i soggetti esercenti il servizio, entro novanta giorni dal ricevimento della proposta e che, qualora la pronuncia non intervenga entro tale termine, le tariffe si intendono verificate positivamente.  L’Arera, con i poteri regolatori che le sono attribuiti, ha definito il procedimento di approvazione delle tariffe e di aggiornamento delle medesime, enucleando le funzioni svolti dai soggetti coinvolti nel medesimo, che si possono riassumere nel senso che l’ente d’ambito le predispone e l’Arera le approva.  La proposta tariffaria predisposta dall’ente d’ambito è trasmessa all’Autorità ai fini della sua valutazione ed approvazione entro i successivi 90 giorni (art. 7.4 della deliberazione n. 664/2015/R/idr e art. 13.3 della deliberazione n. 918/2017/R/idr per l’aggiornamento tariffario).  Ha aggiunto il C.g.a. che la mancata previsione del silenzio assenso in relazione all’approvazione tariffaria dell’Arera è, da un lato, in linea con la disciplina speciale di settore contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006 che, nel prevedere la trasmissione della predisposizione della tariffa di base all’Arera, non fa cenno alla formazione del silenzio assenso (art. 154, comma 4). Né depone in senso contrario il richiamo di cui all’art. 21, commi 13 e 19, d.l. n. 201 del 2011 ai “medesimi poteri attribuiti all’Autorità stessa dalla l. 14 novembre 1995, n. 481”, che non comprende le modalità con i quali i medesimi vengono esercitati (di cui al d.P.C.M. 20 luglio 2012).  In mancanza di un’espressa previsione di silenzio assenso neppure può ritenersi applicabile l’istituto del silenzio assenso di cui all’art. 19, l. n. 241 del 1990, il quale ricorre nei casi in cui all'inerzia dell'amministrazione è attribuito il valore di provvedimento di accoglimento dell'istanza presentata dal privato.  Alla luce del tenore letterale della norma, nei procedimenti ad istanza di parte il silenzio assenso rappresenta istituto di carattere generale, nel senso che esso opera senza necessità di un’espressa previsione.   L’istituto non è applicabile al caso di specie. Innanzitutto la proposta tariffaria è trasmessa non dal privato ma dall’ente d’ambito nello svolgimento di una funzione d’interesse pubblico. Pertanto il silenzio assenso non potrebbe assolvere alla funzione di rimediare all’inerzia dell'amministrazione garantendo un risultato direttamente favorevole al privato sul piano sostanziale dal momento che l’ente d’ambito potrebbe avere modificato la domanda del privato.  In secondo luogo, la regola del silenzio assenso non trova applicazione alla materia dell’ambiente e della salute pubblica.  La direttiva n. 2000/60/CE, nell’istituire un quadro per l’azione eurounitaria in materia di acque, definisce l’acqua un patrimonio che va protetto, difeso e trattato come tale e la fornitura idrica un servizio d'interesse generale, ritenendo l’adozione della direttiva espressione dei poteri conferiti all’Unione europea dall’art. 174 del Trattato allora vigente, dedicato alla materia ambientale.   A fronte di un rafforzamento progressivo della concezione unitaria dell’ambiente, in una pluralità di pronunce la Corte di Giustizia ha espresso il principio per cui sussiste – in capo alle amministrazioni preposte alla tutela dei valori ambientali – l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso che presupponga e dia conto dell’istruttoria svolta.  Nel caso di specie l’attribuzione del compito di approvare le tariffe all’Arera si giustifica proprio con la necessità di assicurare un alto livello di competenza settoriale nello svolgimento di una funzione direttamente correlata al raggiungimento delle finalità pubbliche riconosciute dalla normativa (garanzia della diffusione, fruibilità e qualità del servizio all'utenza in modo omogeneo sull'intero territorio nazionale, definizione di un sistema tariffario equo, certo, trasparente, non discriminatorio, tutela dei diritti e degli interessi degli utenti, gestione dei servizi idrici in condizioni di efficienza e di equilibrio economico e finanziario e attuazione dei principi comunitari “recupero integrale dei costi”, compresi quelli ambientali e relativi alla risorsa, e “chi inquina paga”, ai sensi degli artt. 119 e 154, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 e dell'art. 9 della direttiva 2000/60/CE, così l’art. 2, d.P.C.M. 20 luglio 2012). 
Autorità amministrative indipendenti
Università degli studi – Professore ordinario e associato - Abilitazione - Pubblicazioni scientifiche – Valutazione - Criterio.    Nel valutare le pubblicazioni scientifiche di un candidato ad una procedura di attribuzione dell’ASN, la commissione deve, in ossequio al dettato normativo ispirato alla riduzione della discrezionalità e ad un suo ancoraggio a parametri obiettivi e riscontrabili, procedere ad una sintetica descrizione del contenuto di ciascuna pubblicazione per poi inferirne con adeguato riferimento a specifici aspetti del contenuto medesimo, il carattere non originale o non innovativo ovvero l’assenza di rigore metodologico  (1).   (1) Tar Lazio, sez. III bis, 9 ottobre 2019, n. 11658. Ha chiarito la Sezione che il criterio della collocazione editoriale nel quadro del giudizio che le commissioni devono svolgere sulle pubblicazioni, non esprime e condensa, esso soltanto, la bontà e il pregio di un lavoro scientifico, né può ad esso annettersi un rilievo determinante nel giudizio e oltretutto non afferisce, nell’impostazione normativa, alla qualità della pubblicazione: qualità e collocazione editoriale di un lavoro sono infatti criteri distinti, normativamente coniati dall’art. 4 del decreto ministeriale n. 120 del 2016 “per la valutazione delle pubblicazioni scientifiche. La qualità delle pubblicazioni non può dunque per volontà del “legislatore” essere eo ipso evinta, dalla loro collocazione editoriale, che è un altro concorrente criterio di valutazione e non un fattore indicativo della qualità delle pubblicazioni, la quale va invece ricostruita, come impone l’art. 4, lett. c) del decreto ministeriale, sulla scorta dei sub – criteri a tal fine ivi individuati dal legislatore, costituiti da originalità, rigore metodologico e carattere innovativo di uno scritto. “La qualità della produzione scientifica”, dunque, non si esaurisce e risolve nella -né può essere dedotta dalla – “collocazione editoriale” ed, anzi, a ben vedere, nell’impianto disciplinatorio, imperativo e non meramente orientativo dell’art. 4, d.m. n. 120 del 2016, costituisce un criterio per il complessivo giudizio sulle pubblicazioni, collocato sul medesimo piano di quello della collocazione editoriale, previsto e regolamentato alla lettera d), il che collima anche con un ordinamento su base logica dei due criteri, apparendo infatti anche più ragionevole accordare prevalenza, ai fini della ricognizione della bontà e del pregio di uno scritto, alla qualità intrinseca di esso, desunta e valutata, come vuole il disposto dell’art. 4, lett. c., da ingredienti di contenuto del lavoro stesso, idonei al meglio a farla mergere (quali l’originalità, l’innovatività, il rigore metodologico), piuttosto che al criterio della collocazione editoriale; la quale è un requisito estrinseco, se non esteriore e formale, di una pubblicazione e può dipendere da fattori esterni, talora eterogenei rispetto alla qualità intrinseca di uno scritto. “La collocazione editoriale” sèguita a costituire un autonomo e concorrente criterio per la valutazione delle pubblicazioni e così come non può costituire sub – criterio o fattore del criterio “qualità della produzione scientifica” (lett. c) dell’art. 4, d.m. n. 120 del 2016) parimenti non può concretizzare un sub criterio dell’ulteriore criterio contemplato alla lettera f) dell’art. 4 in esame, vale a dire “la rilevanza delle pubblicazioni all’interno del settore concorsuale che invece per la volontà normativa di cui al disposto della lett. f) dell’art. 4, va individuata “tenuto conto delle specifiche caratteristiche dello stesso” (ossia del settore concorsuale) “e dei settori scientifico – disciplinari ricompresi”, giudizio che postula valutazioni sostanziali di contenuto sull’importanza delle pubblicazioni, in relazione alle caratteristiche specifiche del settore concorsuale. Il numero e il tipo delle pubblicazioni presentate nonché la continuità della produzione scientifica sotto il profilo temporale”, è un insieme ovvero un macro-criterio composto dai due sottoinsiemi o criteri giustapposti dalla congiuntiva “nonché”: 1) il numero e il tipo delle pubblicazioni; 2 ) la continuità della produzione scientifica. Pertanto, il carattere della continuità è da riferire non al primo sottoinsieme bensì al secondo equiordinato al primo, costituito dalla “produzione scientifica sotto il profilo temporale”. Tali due sottoinsiemi o macroaree corrispondono a due ben precise categorie che ricevono una distinta classificazione qualificazione normativa nel Decreto ministeriale n. 120 del 2016, la quale prende corpo e sfocia anche in due distinti Allegati recanti la rispettiva disciplina. Le pubblicazioni sono le “Pubblicazioni presentate dai candidati”, contemplate dall’art. 7, d.m. n. 120 del 2016. Viceversa, la produzione scientifica pubblicata è prevista all’Allegato C) dedicato alla disciplina dell’impatto della produzione scientifica nel quale vengono regolamentati gli indicatori, diversamente normati a seconda che il settore sia bibliometrici o non bibliometrici. Alle due cennate categorie corrispondo anche graficamente poi, due distinte sezioni della domanda di parte Non vi è infatti incompatibilità tra il ruolo di editore capo e la qualità di autore di una pubblicazione La qualifica di editore capo vale ad apportare direttamente al lavoro un valore aggiunto nella misura in cui ogni autore, proprio in quanto editore capo e quindi sostanzialmente responsabile della qualità e del livello della rivista, profonde maggiore impegno nella redazione del lavoro per due canali, vale a dire sia perché in tal modo concorre a mantenere alto il livello qualitativo della rivista mercé il conferimento del suo contributo autorale, sia perché avverte “il peso” della sua funzione di editore capo, che ne responsabilizza e stimola il disimpegno di un più spiccato apporto in termini di qualità, accuratezza, rigore metodologico, completezza di argomentazioni, approvvigionamento e padronanza delle fonti. La “rilevanza delle pubblicazioni”, contemplata all’art. 4, comma 2, lett. f), d.m. n. 120 del 2016, evoca le caratteristiche contenutistiche ed oggettive delle pubblicazioni piuttosto che la collocazione delle riviste nelle quali sono ospitate, elemento estrinseco e formale.
Università degli studi
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Sequestro penale preventivo dei conti correnti e crediti ex art. 321 c.p. - Art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016 – Inapplicabilità.      Il sequestro penale preventivo dei conti correnti e crediti ex art. 321 c.p. non può ricomprendersi tra le cause di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, che ricomprende situazioni oggetto di valutazione discrezionale da parte della stazione appaltante, se sussumibili nella categoria di “gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la (sua) integrità o affidabilità” dell’operatore economico (1)   (1) Ha chiarito la Sezione che il concetto di “grave illecito professionale” costituisce un tipico concetto giuridico indeterminato e che la norma ha carattere esemplificativo, non descrive la fattispecie astratta in maniera esaustiva, ma rinvia, per la sussunzione del fatto concreto nell'ipotesi normativa, all'integrazione dell'interprete, che utilizza allo scopo elementi o criteri extragiuridici. La norma, in altri termini, rimette alla valutazione discrezionale della stazione appaltante l’individuazione di inadempienze tali da minare il vincolo fiduciario che deve sussistere tra le parti (Cons. St., sez. III, 11 giugno 2019, n. 3908). Pertanto, è stato affermato, che la stazione appaltante ben può attribuire rilevanza ad ogni tipologia di illecito che per la sua gravità, sia in grado di minare l'integrità morale e professionale del concorrente. Il concetto di “grave illecito professionale” ricomprende, infatti, ogni condotta, collegata all'esercizio dell'attività professionale, contraria ad un dovere posto da una norma giuridica sia essa di natura civile, penale o amministrativa (Cons. St., sez. III, 5 settembre 2017, n. 4192). La Sezione (27 dicembre 2018, n. 7231) ha già ritenuto, ad es., ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), incondizionatamente doverosa la dichiarazione di episodi risolutivi di precedenti rapporti contrattuali, ancorché sub iudice, poiché il potere valutativo dell’Amministrazione può estrinsecarsi solo sulla base di dichiarazioni complete degli operatori economici partecipanti alle gare, che devono, dunque dichiarare ogni episodio della vita professionale astrattamente rilevante ai fini della esclusione, pena la impossibilità per la stazione appaltante di verificare l'effettiva rilevanza di tali episodi sul piano della "integrità professionale" dell'operatore economico. Si tratta, evidentemente, di pregresse vicende professionali in cui, per varie ragioni, è stata contestata una condotta contraria a norma o, comunque, si è verificata la rottura del rapporto di fiducia con altre stazioni appaltanti (Cons. St., sez. V, 4 febbraio 2019, n. 827; id. 16 novembre 2018, n. 6461; id. 24 settembre 2018, n. 5500; id. 3 settembre 2018, n. 5142; id. 17 luglio 2017, n. 3493; id. 5 luglio 2017, n. 3288; id. 22 ottobre 2015, n. 4870), non essendo configurabile in capo all'impresa alcun filtro valutativo o facoltà di scegliere i fatti da dichiarare (Cons. St., sez. V, 25 luglio 2018, n. 4532; id. 11 giugno 2018, n. 3592; id. 19 novembre 2018, 6530). Tra questi sono stati fatti rientrare, anche alla luce della direttiva comunitaria, 2014/24/ del 26 febbraio 2014: le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione (Cons. St., sez. III, 12 dicembre 2018, n. 7022). Nella specie, il sequestro preventivo è stato disposto per violazioni tributarie, relative al debito IVA, che non sono direttamente riconducibili all’affidabilità nello svolgimento dell’attività professionale e alla lealtà nel rapporto contrattuale, nulla togliendo alla innegabile gravità del comportamento dal punto di vista dell’ordinamento, la cui rilevanza tuttavia è compiutamente considerata dallo stesso art. 80, commi 1 e 4, nei limiti e alle condizioni ivi specificate. La rilevanza di indagini penali in atto, in ogni caso, ai fini della fattispecie prevista dal comma 5 lett. c), andrebbe sempre valutata in relazione alla categoria “grave violazione professionale”. In quest’ottica, non sembra conducente il precedente citato dall’appellante (Cons. St., sez. V, 20 marzo 2019, n. 1846) che attiene ad una fattispecie del tutto singolare, la fornitura in favore della Procura della Repubblica del servizio di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali, per cui il bando richiedeva una serie di informazioni al fine di assicurare la sussistenza, in capo ai concorrenti del "massimo grado di onorabilità, sicurezza e affidabilità”. In quel caso, le indagini penali in corso riguardavano un concorrente indagato per reato informatico, per aver "custodito in un proprio archivio riservato le tracce informatiche relative a una enorme quantità di conversazioni telefoniche /ambientali/telematiche per la cui intercettazione era stata incaricata da numerose AA.GG. e ciò in assenza di autorizzazione e quindi in violazione di legge”. E’ evidente, in quel caso, che la violazione per la quale risultava pendente l’indagine penale riguardava direttamente l’oggetto delle prestazioni dell’appalto da aggiudicare. Alla luce delle considerazioni che precedono, in definitiva, tutt’al più, dalla nota integrativa del bilancio 2017 di E-Care s.p.a. è rilevabile l’esistenza di una indagine penale che né alla data di presentazione dell’offerta, né dopo, risulta essere sfociata nella adozione di provvedimenti di condanna definitivi, per le ipotesi di reato che ai sensi dell’art. 80, comma 1, conducono all’esclusione dalla gara. Né si è in presenza di accertamenti tributari definitivi, ai sensi del comma 4 dell’art. 80. Neppure si è in presenza di gravi illeciti professionali, ex comma 5, lett. c), dell’art. 80, non trattandosi di procedimento penale per fatti e comportamenti particolarmente significativi sotto il profilo della capacità e lealtà professionale
Contratti della Pubblica amministrazione
Contratti della Pubblica amministrazione - Concessione – Differenza con l’appalto servizi – Individuazione.       ​​​​​​​Il rapporto di concessione di pubblico servizio si distingue dall’appalto di servizi per l’assunzione, da parte del concessionario, del rischio di domanda, nel senso che mentre l’appalto ha struttura bifasica tra appaltante ed appaltatore ed il compenso di quest’ultimo grava interamente sull’appaltante, nella concessione, connotata da una dimensione triadica, il concessionario ha rapporti negoziali diretti con l’utenza finale, dalla cui richiesta di servizi trae la propria remunerazione (1). ​​​​​​​(1) Data la premessa, la Sezione ha tratto la conseguenza che, essendo insito nel meccanismo causale della concessione che la fluttuazione della domanda del servizio costituisca un rischio traslato in capo al concessionario (anzi costituisca il rischio principale assunto dal concessionario), affinché possa farsi luogo a una revisione dei profili economici concordati con il concedente è necessaria la comprovata ricorrenza di eventi eccezionali e straordinari, oggettivamente esterni ed estranei al funzionamento del mercato di settore, non essendo invece sufficienti all’uopo mere fluttuazioni della domanda, dato fisiologico di ogni mercato, che l’operatore economico non può non considerare come aspetto caratterizzante, intrinseco ed ineliminabile del contesto in cui opera (Cons. Stato, sez. IV, 19 agosto 2016, n. 3653).
Contratti della Pubblica amministrazione
Processo amministrativo - Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ue – Dopo Corte giust. 6 ottobre 2021 -              Anche dopo la sentenza della Corte di Giustizia Ue 6 ottobre 2021, la teoria dell’atto chiaro, come ricostruita dalla medesima Corte, obbligando il giudice nazionale che non sia protetto da meccanismi di filtro (da azioni di responsabilità civile e disciplinare), lede i principi costituzionali e internazionali di ragionevole durata del processo e indipendenza del giudice    (1) Ha chiarito la Sezione che le condizioni poste dalla Corte di giustizia6 ottobre 2021 per escludere l’obbligo di rinvio pregiudiziale gravante sul giudice di ultima istanza ex art. 267 TFUE, risultano: a) di difficile accertamento, nella parte in cui fanno riferimento alla necessità che il giudice procedente, certo dell’interpretazione e dell’applicazione da dare al diritto dell’U.E., rilevante per la soluzione della controversia nazionale, provi in maniera circostanziata che la medesima evidenza si imponga anche presso i giudici degli altri Stati membri e la Corte (in questo senso si condivide l’orientamento espresso dal medesimo Consiglio di Stato, successivamente alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, cfr. sez. VI, n. 2066 del 2022, §§ da 28 a 32); b) lesive del principio costituzionale (art. 111, comma secondo, Cost.) ed europeo (art. 47, comma 2, Carta dei diritti fondamentali U.E.) della ragionevole durata del processo, in quanto il giudice supremo nazionale italiano è costretto a disporre un rinvio pregiudiziale, allungando di molto i tempi di risoluzione della controversia, per prevenire, in assenza di qualsivoglia filtro preventivo, la proposizione dell’azione di risarcimento del danno ai sensi della norma sancita dall’art. 2, comma 3-bis, legge n. 117 del 1988, nonché la ragionevole certezza del coinvolgimento in un accertamento disciplinare, ai sensi della norma sancita dall’art. 9, comma 1, legge n. 117/1988 (pure dopo le precisazioni operate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 169 del 2021); c)  lesive del principio del valore della indipendenza della magistratura, elemento costitutivo della declamata rule of law (art. 101, comma 2, Cost.; art. 47, comma 2, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; art. 6, comma 1, C.e.d.u.) in quanto, pure in presenza di una attività esegetica motivatamente svolta dal giudice nazionale (come nel caso di specie), quest’ultimo può essere attinto dalla minaccia della sanzione risarcitoria e disciplinare per gli esiti (non graditi) della interpretazione. 
Processo amministrativo
Silenzio della P.A. – Silenzio assenso - Edilizia - Permesso di costruire in deroga – Esclusione.  Edilizia - Permesso di costruire - In deroga – Natura                Nei casi di permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del testo unico dell’edilizia approvato d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, è esclusa l’operatività del silenzio-assenso di cui all’art. 20, comma 6, del medesimo testo unico, pur dopo le modifiche generali all’istituto apportate dalla novella del 2016, in considerazione della specialità del percorso procedurale che connota tale fattispecie, in cui si innesta una imprescindibile valutazione ampiamente discrezionale del Consiglio comunale in ordine all’interesse pubblico dell’intervento (1).             Il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14, d.P.R. n. 380 del 2001, è un istituto di carattere eccezionale rispetto all’ordinario titolo edilizio e rappresenta l’espressione di un potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa delibera del Consiglio comunale; in particolare, in tale procedimento il Consiglio comunale è chiamato ad operare una comparazione tra l’interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l’interesse costruttivo (2).     (1) Invero, secondo la costante giurisprudenza amministrativa: a) la formazione del silenzio-assenso postula la piena conformità dell’istanza alla normativa e alla strumentazione urbanistica ed edilizia di riferimento (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 25 febbraio 2021, n. 1629). (2) Ha chiarito la Sezione che a non diverse conclusioni deve giungersi per i permessi di costruire in deroga di cui al comma 1-bis del precitato art. 14, d.P.R. n. 380 del 2001 (e, prima, di cui all’art. 5, commi 9 e 14, d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla l. 12 luglio 2011, n. 106, come interpretato autenticamente dall’art. 1, comma 271, l. 23 dicembre 2014, n. 190), i quali sono semplicemente una species della più ampia categoria dei permessi di costruire in deroga di cui al predetto art. 14. 
Edilizia
Covid-19 – Cimiteri – Chiusura – Ordinanza sindacale – Prossima cessazione del periodo di disposta chiusura – Non va sospesa.         Non va sospesa l’ordinanza del Sindaco che dispone, a causa dell’emergenza epidemiologica Covid-19, la chiusura temporanea dei cimiteri, atteso che il pregiudizio lamentato (preclusione all' esercizio del diritto di culto e accesso al sepolcro del figlio a partire dal 19 marzo 2020) si è già ormai per la più gran parte (30 giorni) consumato, e che il residuo periodo di chiusura del cimitero (ulteriori 13 giorni fino al 3 maggio), ove rapportato a quello già sofferto (30 giorni) e a quello pregresso di incontestato esercizio anche quotidiano del diritto (14 anni dal 2006), non appare di rilevanza temporale tale da aggravare in modo determinante il danno già patito.
Covid-19
Processo amministrativo – Spese di giudizio - Solo costo per la difesa tecnica - Onere tributario – Esclusione.       Nel processo amministrativo, il regolamento delle spese di lite, come noto oggetto di lata discrezionalità giudiziale, attiene soltanto al costo per la difesa tecnica, ma non rileva ai fini della ripartizione dell’onere tributario connesso con l’instaurazione del giudizio, viceversa posto dalla legge senz’altro a carico del soccombente; tale principio, affermato per il contributo unificato dall’art. 13, comma 6-bis 1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dall’art. 2, comma 35-bis, lett. e), d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla l. 14 settembre 2011, n. 148, è applicabile, a fortiori, anche alla ripartizione dell’onere economico dell’imposta di registro: invero, se il contributo unificato è dovuto per l’instaurazione di un giudizio, l’imposta di registro sottopone ad imposizione l’atto che definisce il giudizio stesso (1). 
Processo amministrativo
Processo amministrativo - Giudizio di ottemperanza – Poteri del giudice - Eccezione di avvenuto pagamento della sorte – Verifica dell’inadempimento – Possibilità.      Il giudice dell'ottemperanza, se non può esaminare censure relative al debito portato dal titolo esecutivo, può verificare se sussista il presupposto dell'inadempimento a seguito dell'eccezione di avvenuto pagamento della sorte sollevata dall'amministrazione debitrice (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che gli unici pagamenti rilevanti in sede di giudizio ottemperanza come fattori estintivi, deducibili e conoscibili senza entrate in conflitto con il giudicato portato dal provvedimento monitorio (Cons. St., sez. V, n. 1645 del 2014), sono soltanto quelli successivi alla formazione del titolo, in quanto Il giudicato formatosi sul decreto ingiuntivo non opposto concerne non soltanto l’esistenza del debito e la sua causale, ma altresì il suo ammontare a quella data (Cons. St., sez. V, n. 1609 del 2015);  il debitore che assuma di avere interamente adempiuto al pagamento del debito e che, ciononostante, non abbia né contestato la successiva cessione del credito (in tesi già pagato), né abbia opposto il decreto ingiuntivo ottenuto dal cessionario, non può allegare nel giudizio di ottemperanza l'esistenza di pagamenti liberatori anteriori, ed è tenuto al pagamento delle somme portate dal decreto non opposto, salva la ripetizione dell'indebito.  
Processo amministrativo
Contributi e finanziamenti – Benefici economici - Regime fiscale forfettario di cui alla l. n. 398 del 1991 – Indetraibilità dell’IVA sugli acquisti – Conseguenza.      In sede di concessione di contributi, è illegittimo il riconoscimento di un contributo ridotto rispetto a quello richiesto da una associazione che ha aderito al regime fiscale forfettario di cui alla l. 16 dicembre 1991, n. 398, sull’assunto che l’IVA non può rientrare tra le voci di spesa ammissibili; ciò in quanto il regime forfettario di cui alla l. n. 398 del 1991 – secondo cui le disposizioni tributarie relative alle associazioni sportive dilettantistiche dettate dalla citata l. n. 398 del 1991 si applicano, in quanto compatibili, alle associazioni senza fini di lucro - rende assolutamente indetraibile l'IVA sulle fatture di acquisto e l'IVA prevista (e corrisposta) sulle fatture di acquisto non può essere recuperata e/o compensata, anche solo in via indiretta, con altre operazioni (1).    (1) Ha chiarito il Tar che il regime fiscale forfettario di cui alla l. 16 dicembre 1991, n. 398 (Disposizioni tributarie relative alle associazioni sportive dilettantistiche) si caratterizza, relativamente allo svolgimento dell’attività commerciale, per la totale indetraibilità dell’IVA sugli acquisti e per l’IVA a debito calcolata sul 50% dei corrispettivi riscossi per la cessione di beni e servizi. È caratteristica propria del regime fiscale previsto dalla l. n. 398 del 1991 il venir meno del meccanismo di neutralità dell’Iva, normalmente garantito dalla detrazione, dall’Iva dovuta sull’ammontare delle operazioni attive, dell’Iva addebitata dai fornitori sugli acquisiti: per effetto della deroga a tale meccanismo, l’indetraibilità dell’Iva sugli acquisti si traduce in un costo dell’Iva stessa che, come tale, rimane a carico dell’associazione medesima.  A confortare le conclusioni cui il Tar è pervenuto circa l’ammissibilità a finanziamento dell’IVA sostenuta va richiamato quanto stabilito dalla stessa Commissione europea nella “GUIDANCE NOTE” in data 30/10/2018 recante “Conditions for eligibility of VAT under Cohesion policy rules in the 2014-2020 programming period” (Condizioni di ammissibilità dell'IVA ai sensi delle norme relative al fondo di coesione nella programmazione 2014-2020), che lascia intendere che ciò che viene in rilievo è la recuperabilità dell’IVA sull’operazione in concreto effettuata e non, invece, quella meramente astratta, condizionata dal regime fiscale prescelto. Si legge, infatti, che “Finché la legge nazionale conferisce il diritto a recuperare l'IVA per una determinata operazione e anche se questo diritto non è stato esercitato, l'IVA non sarà ammissibile. Il termine <non recuperabile ai sensi della legislazione nazionale sull'IVA> nell'articolo 69, paragrafo 3, lettera c), RDC deve pertanto essere inteso in modo da escludere tutte le situazioni in cui l'IVA potrebbe essere recuperata” Ma soprattutto si legge che “Per determinare se l'IVA è recuperabile nelle operazioni sostenute dai fondi SIE, si dovrebbe in definitiva stabilire se l'IVA pagata da un beneficiario su un'operazione è effettivamente e definitivamente a carico di tale beneficiario. In effetti, ci possono essere situazioni in cui l'onere economico dell'IVA pagata è comunque neutralizzato (attraverso regimi di compensazione al di fuori del sistema dell'IVA). In genere è il caso in cui il beneficiario trasferisce l'onere dell'IVA a un'altra entità, avendo il diritto di detrarre / rimborsare e quindi neutralizzare il proprio onere economico (ad esempio, quando si generano operazioni in cui la fase operativa del progetto è soggetta all'IVA. In tal caso, l'IVA dovrebbe essere considerata recuperabile e quindi non ammissibile”. Orbene, il riferimento all’IVA (specificamente) pagata su una (data) operazione pare dare rilevanza, ai fini dell’apprezzamento della sua recuperabilità, proprio al caso concreto e non al regime fiscale teoricamente e potenzialmente eleggibile. In ogni caso, che la scelta di un regime fiscale, pacificamente assentito dall’ordinamento, non può tradursi in alcun modo in una penalizzazione per il contribuente. Nel regime previsto dalla l. n. 398 del 1991 è, peraltro, indubbio che non vi è una detraibilità nemmeno forfettaria dell’IVA sugli acquisti; la forfettizzazione è prevista, infatti, esclusivamente per l'IVA delle fatture di vendita, versata all’erario nella misura del 50%. Sicché, l’IVA addebitata sugli acquisti rimane definitivamente a carico dell’acquirente, traducendosi in un costo effettivo, in quanto non ha, per l’appunto, alcun modo di recuperarla in concreto. ​​​​​​​Ha quindi affermato il Tar che diversamente ragionando, da una parte, verrebbe corrisposto un contributo inferiore rispetto alla spesa sostenuta (in contrasto con le finalità pubbliche sottese al finanziamento), dall'altra, verrebbero discriminati i beneficiari in base al rispettivo regime fiscale. Infatti, l'aver adottato un particolare regime fiscale, ritenute dall'ordinamento giuridico italiano meritevoli di aiuto per il tramite di un regime fiscale semplificato e meno gravoso, non può sortire l'effetto contrario ovvero comportare, in sede contributiva, un trattamento di sfavore rispetto ai beneficiari sottoposti al regime fiscale ordinario. Adottando, infatti, tale irragionevole verrebbero danneggiati proprio i soggetti che l'ordinamento vorrebbe tutelare in ragione delle particolari finalità sottese alla propria attività associativa. 
Contributi e finanziamenti
Professioni e mestieri - Consulente del lavoro – Pratica professionale – Solo presso un Consulente del lavoro.        Dal combinato disposto del d.l.. n. 138 del 13 agosto 2011, convertito in l. n. 148 del 14 settembre 2011, e dal suo regolamento attuativo, emanato con d.P.R. n. 137 il 7 agosto 2012 si evince che l’aspirante Consulente del Lavoro deve svolgere la pratica professionale presso un professionista iscritto all’Albo dei Consulenti del Lavoro  (1)   (1) Ha chiarito la Sezione che la disciplina richiamata ha previsto un sistema di norme diretto a garantire il proficuo svolgimento del periodo di tirocinio professionale, responsabilizzando, anche sul piano disciplinare, sia il professionista affidatario che il praticante, ed affidando specifici poteri di vigilanza e disciplinari agli organismi territoriali degli ordini professionali. Dal combinato disposto delle norme sopra richiamate si evince, quindi, che “l’effettivo svolgimento dell’attività formativa” del tirocinio professionale, nelle modalità concrete declinate nel regolamento professionale relativo alla professione che il tirocinante intende svolgere, costituisce dovere deontologico sia del tirocinante, sia del professionista affidatario, entrambi soggetti al medesimo potere disciplinare degli organi territoriali e nazionali competenti. Tale sistema, per la sua applicazione in concreto, presuppone l’appartenenza del professionista “dante pratica” al medesimo Ordine professionale al quale l’aspirante consulente del lavoro intende iscriversi (dopo il superamento dell’esame). L’art. 6 del D.P.R. 137/2012, prevede, infatti, talune regole per il professionista incaricato per lo svolgimento della pratica: il comma 3, ad esempio, dispone che il professionista non possa assumere più di tre praticanti contemporaneamente, “salva la motivata autorizzazione rilasciata dal competente consiglio territoriale sulla base di criteri concernenti l’attività professionale del richiedente e l’organizzazione della stessa, stabilito con regolamento del consiglio nazionale dell’ordine o del collegio, previo parere vincolante del ministro vigilante”. In tale disposizione non si specifica quale sia l’ordine professionale. ​​​​​​​Se si esaminano il comma 2 ed il comma 3 dello stesso art. 6 secondo cui “presso il consiglio dell’ordine o del collegio territoriale è tenuto il registro dei praticanti” (comma 2) e “il professionista affidatario deve avere almeno cinque anni di anzianità di iscrizione all’albo” (comma 3) risulta evidente che la mancata precisazione dello specifico “ordine professionale” e dello specifico “albo” è dovuta alla circostanza che è assolutamente chiaro, tanto da essere implicitamente ricavabile dal sistema di norme, che il consiglio competente a tenere il registro dei praticanti e l’albo di iscrizione del professionista affidatario non possano che essere gli stessi della professione relativa alla quale viene svolto il tirocinio. 
Professioni e mestieri
Covid-19 - Sanità - Operatori socio sanitari – Reclutamento con selezione – Omessa opzione di scorrimento graduatoria – Va sospesa.          Deve essere sospesa, con decreto monocratico, la deliberazione del direttore Generale di una Azienda ospedaliera avente ad oggetto il reclutamento a tempo determinato di personale Operatore Socio Sanitario mediante la formulazione di graduatoria per titoli, ai sensi del d.l. n. 14 del 2020, procedura d’urgenza a garanzia dei LEA per far fronte all’emergenza Covid-19, onerando l’Amministrazione a rideterminarsi, dando conto delle eventuali ragioni a sostegno della scelta di bandire nuova selezione piuttosto che scorrere le graduatorie di cui si predica la validità, e, in quanto tali, utilizzabili, coerenti con le palesate ragioni di urgenza (1).   (1) I ricorrenti, assumendo l’attuale vigenza di pregresse graduatorie concorsuali nelle quali occupano la posizione di idonei, contestano la scelta dell’Azienda intimata, estrinsecata con la delibera impugnata, di bandire distinta procedura selettiva per soli titoli, senza adeguata motivazione circa l’impossibilità di far ricorso alle vigenti graduatorie e nonostante la pur dichiarata urgenza, indotta dall’emergenza da Covid-19, di individuare, in tempi brevi, il personale sanitario necessario.
Covid-19
Processo amministrativo – Revocazione – Inosservanza del giudice di secondo grado del principio di diritto dell’Adunanza plenaria – Non è motivo di revocazione.     L’eventuale inosservanza da parte di una Sezione del Consiglio di Stato del principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria non può mai costituire motivo di revocazione della sentenza (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che tale inosservanza non può mai costituire motivo di revocazione della sentenza, non comportando né contrasto fra giudicati, allorché – come di norma avviene - il giudicato formatosi sulla decisione dell’Adunanza plenaria non sia stato reso fra le stesse parti della sentenza in cui si denuncia l’inosservanza, né errore di fatto revocatorio, trattandosi al più di errore di diritto per violazione dell’art. 99, comma 3, c.p.a. sotto il profilo della contestualizzazione e sussunzione del principio di diritto. Né a diverse soluzioni può pervenirsi in ragione della ritenuta assenza di rimedi processuali alla predetta inosservanza, dal momento che le ipotesi di revocazione previste dall’art. 395 c.p.c., richiamate dall’art. 106 c.p.a., hanno infatti carattere tassativo, eccezionale e derogatorio (rispetto alla regola della intangibilità del giudicato), e pertanto non ammettono interpretazione estensiva né applicazione analogica. La stessa Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 2 del 2018), ha chiarito che un principio di diritto espresso ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a. non vale a configurare un contrasto di giudicati e quindi non può costituire parametro di riferimento nemmeno ai sensi dell’ulteriore ipotesi di revocazione prevista dall’art. 395, n. 5), c.p.c.. Ciò in quanto “L’attività di contestualizzazione e di sussunzione del principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria ai sensi dell’articolo 99, comma 4 del cod. proc. amm. in relazione alle peculiarità del caso concreto spetta alla Sezione cui è rimessa la decisione del ricorso”. Sicché, a maggior ragione, la stessa conclusione vale in tutti gli altri giudizi nei quali venga prospettata l’applicazione del medesimo principio di diritto. Anche in precedenza, la giurisprudenza di questo Consiglio, a fronte di istanze di revocazione analoghe a quella in esame, ha sottolineato che non è possibile “forzare” il disposto dell’art. 395 c.p.c. per dare una sanzione processuale ad un precetto per il quale tale sanzione non è stata prevista dal legislatore (Cons. Stato, sez. III, n. 4185 del 2014). Si tratta infatti, a ben vedere, non di un “vuoto di tutela da censurare” quanto dell’individuazione di “un ragionevole punto di equilibrio tra la ricerca di una maggiore uniformità interpretativa in funzione della certezza del diritto e la libertà e l’indipendenza, anche interna, del giudice” (Cons. Stato, sez. III, n. 4185 del 2014). ​​​​​​​Conseguentemente, si tratta di un vizio e assimilato a un qualsiasi errore di diritto non denunciabile col ricorso per revocazione. 
Processo amministrativo
Ambiente - Valutazione impatto ambientale - Delibera del Consiglio dei Ministri – Natura – Conseguenza.   Ha natura di atto di alta amministrazione la deliberazione del Consiglio dei Ministri con la quale si esclude la sussistenza delle condizioni per consentire la prosecuzione del procedimento di valutazione di impatto ambientale concernente la costruzione di un impianto di compostaggio (1).   (1) Ha affermato la Sezione che la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata ai sensi dell’art. 14-quater, l. 7 agosto 1990, n. 241, è atto di alta amministrazione sul quale il sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo “ha natura estrinseca e formale e si esaurisce nel controllo del vizio di eccesso di potere, nelle particolari figure sintomatiche dell’inadeguatezza del procedimento istruttorio, illogicità, contraddittorietà, ingiustizia manifesta, arbitrarietà, irragionevolezza della scelta adottata o difetto di motivazione, e non si estende all’esame diretto e all’autonoma valutazione del materiale tendente a dimostrare la sussistenza dei relativi presupposti”; non può sconfinare, quindi, nell’esame del merito della scelta adottata, riservata all’autonoma valutazione discrezionale dell’Amministrazione. ​​​​​​​Pur non trattandosi di atto politico, bensì di atto di alta amministrazione, è del tutto evidente come una deliberazione assunta dal Consiglio dei Ministri su una questione essenzialmente amministrativa, eleva l’esame di tale questione ad un livello di comparazione anche politico-istituzionale degli interessi pubblici coinvolti, tenendo conto del parere di una pluralità di enti ed organi, anche di rilievo costituzionale. ​​​​​​​L’esercizio del potere discrezionale, dunque, avviene al livello della sua più ampia esplicazione, di modo che, onde non trascendere nel “merito amministrativo” – che costituisce il limite oggettivo del sindacato giurisdizionale di legittimità – quest’ultimo deve attentamente limitarsi a quell’esame “estrinseco e formale”, innanzi richiamato. ​​​​​​​Ai fini della deliberazione, inoltre, non vi è ragione di escludere sia che la Presidenza del Consiglio dei Ministri possa procedere, ove necessario o opportuno, ad una propria autonoma istruttoria ovvero a confronti preliminari con le amministrazioni coinvolte, sia che – ai fini dell’esame da parte del Consiglio dei Ministri – queste ultime possano precisare o integrare le ragioni motivazionali a sostegno delle proprie rispettive posizioni.
Ambiente
Militari, forze armate e di polizia – Trasferimenti - Volontari in ferma prefissata – Trasferimento temporaneo per ricongiungimento al figlio infratreenne - Applicabilità.      L’art. 42 bis, d.lgs. n. 151 del 2001, in mancanza di una espressa previsione preclusiva, è astrattamente suscettibile di applicazione anche nei riguardi dei volontari in ferma prefissata in considerazione dei dettami della disciplina comunitaria (clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE), che depongono nel senso della almeno tendenziale estensione ai lavoratori a tempo determinato delle prerogative di tutela contemplate in favore dei lavoratori a tempo indeterminato (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, in data 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, intitolata «Principio di non discriminazione», che al punto 1 così dispone: «Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive». Tale disposizione è stata peraltro valorizzata dalla Corte di Giustizia, anche in una recente pronuncia (Corte giust.comm.ue, sez. VI, 3 giugno 2021) cosicché può ritenersi ormai ben consolidato un preciso orientamento, a livello comunitario, suscettibile di applicazione nei Paesi membri, che tende ad estendere la tutela del lavoratore a tempo indeterminato in maniera da abbracciare anche i lavoratori a tempo determinato. Tale “principio di non discriminazione”, come coniato dalla rubrica dell’articolo, ha trovato peraltro applicazione anche ai fini della necessaria conservazione, in favore dei dipendenti pubblici passati in ruolo, dell’anzianità e quindi del trattamento economico e dei livelli incrementali maturati durante il servizio a tempo determinato, in modo da escludere qualsivoglia reformatio in pejus nel passaggio al regime a tempo indeterminato (Corte giust.comm.ue, sez. IV, 18 ottobre 2012).  Infra si verificherà se emergono quelle “ragioni oggettive” che possono ostacolare, secondo gli stessi dettami comunitari, la ravvisata carica espansiva delle prerogative contemplate per i lavoratori a tempo indeterminato, ma va da subito rilevato, per completare il quadro giurisprudenziale, che, secondo recente orientamento di questo Consiglio, l’ammissione alla ferma prefissata quadriennale ovvero alla rafferma biennale rientra nel concetto di “reclutamento”, con conseguente applicazione dell’art. 635, d.lgs. n. 66 del 2010, con gli stringenti requisiti di carattere morale e di condotta da esso previsti (Cons. Stato, sez. IV, 15 dicembre 2020, n. 8076). Con tale pronuncia questo Consiglio ha ritenuto, quindi, che “gli artt. 704 e 635 d.lgs. n. 66 del 2010 non possano ritenersi sospetti di illegittimità costituzionale, in quanto è ragionevole che, nella fase del “reclutamento”, le disposizioni riguardanti le Forze Armate richiedano stringenti requisiti di carattere morale e di condotta, classificando gli stessi in ipotesi oggettive che vincolano l’operato dell’Amministrazione procedente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24 febbraio 2020, n. 1357; id. 14 febbraio 2017, n. 629)” ​​​​​​​Tale orientamento sottende la presa d’atto relativa al fatto che il volontario in forma prefissata, sebbene non sia titolare di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non può essere considerato un soggetto estraneo alla compagine amministrativa quanto piuttosto un militare già integrato nei ranghi dell’Amministrazione al pari, mutatis mutandis, dei militari inseriti stabilmente in ruolo. Ne deriva che anche il volontario in ferma prefissata appartiene all’apparato organizzativo dell’Amministrazione militare cosicché se è lecito da lui attendersi il pieno possesso dei requisiti soggettivi anzidetti ai fini della sua presa di servizio, in uno all’esatto espletamento dei compiti impartiti, non può non assicurarsi in suo favore anche il rispetto delle prerogative previste dall’ordinamento per coloro che appartengono alla medesima compagine organizzativa sia pure in forma stabile. Il regime di continuità che intercorre tra servizio in ferma prefissata e servizio permanente a seguito dell’immissione in ruolo trova ulteriore conferma in una recente riflessione giurisprudenziale, relativa ad un provvedimento di esclusione da una procedura di immissione nel ruolo del servizio permanente dell’Esercito Italiano per il 2016 nei riguardi di una volontaria in ferma prefissata quadriennale perché “imputata in un procedimento penale per delitto non colposo e, pertanto, non in possesso del requisito previsto al paragrafo 3, sottoparagrafo a, 7° alinea” della circolare n. MD GMIL REG2017 0460234 del 14 agosto 2017”. In particolare, il giudice di appello ha ritenuto che “sarebbe in altri termini irragionevole, per i militari che - come l’odierna appellante - aspirano al passaggio in ruolo, precludere definitivamente la prosecuzione del rapporto di servizio e lavorativo già avviato, per la semplice pendenza di un procedimento penale, senza esaminare in concreto le situazioni relative alla gravità dei fatti e alla definitività dell’accertamento penale” (Cons. Stato, sez. IV, 17 luglio 2020, n. 4595). Ciò che rileva in questa sede è quanto osservato dal Collegio a proposito del fatto che anche nei riguardi di un volontario in ferma prefissata si assiste all’attivazione di un “rapporto di servizio e lavorativo” di guisa che non emerge alcun impedimento all’applicabilità della disciplina in materia di trasferimento temporaneo ex art. 42 bis sol perché si tratta di servizio volontario in ferma breve. 
Militari, forze armate e di polizia
Giurisdizione – Contratti della Pubblica amministrazione – Impresa esecutrice colpita da interdittiva antimafia – Richiesta del consorzio aggiudicatario di affiancamento – Opposizione – Impugnazione - Giurisdizione del giudice amministrativo.   ​​​​​​​                              Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto l’opposizione manifestata dalla stazione appaltante alla comunicazione, da parte di un consorzio aggiudicatario di una gara pubblica, di “affiancamento” di un operatore economico originariamente designato quale impresa esecutrice e colpita da interdittiva antimafia, all’impresa esecutrice subentrata, motivata dal venir meno dell’interdittiva per effetto dell’ammissione al controllo giudiziario ex art. 34-bis, d.lgs. n. 159 del 2011 (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che la stazione appaltante deve verificare che l’impresa designata sia “in possesso dei prescritti requisiti di idoneità” di partecipazione alla gara (art. 48, comma 18, d.lgs. n. 50 del 2016) e che “la modifica soggettiva non sia finalizzata ad eludere, in tale sede, la mancanza di un requisito di partecipazione in capo all’impresa consorziata” (art. 48, comma 19, d.lgs.  n. 50 del 2016). È pertanto dirimente accertare se in tale ambito, ricadente nella piena fase di esecuzione del contratto d’appalto, la verifica di spettanza della stazione d’appaltante assuma il carattere di una mera presa d’atto del tutto vincolata oppure se concreti l’esercizio di un vero e proprio potere autoritativo al cospetto del quale il Consorzio (e la ricorrente) possa vantare la lesione di interessi legittimi la cui cognizione è devoluta ex art. 133, comma 1, lett. e) n. 1 c.p.a. al g.a. Ritiene il Collegio che il predetto potere, incentrato sulla verifica del possesso dei requisiti morali ai sensi dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 e s.m. in capo all’impresa designata all’esecuzione, abbia senz’altro natura autoritativa. E’ infatti indubbio che in sede di verifica dei requisiti generali o morali, oggi disciplinata dal citato art. 80, la stazione appaltante eserciti un potere tipicamente autoritativo con significativi ambiti di discrezionalità amministrativa come, ad esempio, nell’ipotesi di cui al comma 5, lett. c), in tema di apprezzamento di “un grave illecito professionale” (Consiglio di Stato, sez. V, 27 novembre 2020, n.7471; id., sez. V, 8 ottobre 2020, n. 5967; id. 14 aprile 2020, n. 238; id. 26 giugno 2020, n. 4100; id. 6 aprile 2020, n. 2260; id. 17 settembre 2018, n. 5424) o di cui al comma 7 in tema di c.d. self cleaning (Consiglio di Stato, sez. VI, 4 dicembre 2020, n. 7685) link o ancora di cui al comma 5, lett. a), in tema di apprezzamento della “gravità” delle infrazioni debitamente accertate alle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Giurisdizione
Caccia – Piano faunistico venatorio regionale – Competenza legislativa residuale della Regione – Competenza esclusiva statale in materia di ambiente – Art. 10, comma 5, l.reg. Molise n. 19 del 1993 - Tutela di interessi dominicali e non ambientali – Violazione art. 117, comma 2, lett. s, Cost. – Manifesta infondatezza   Trattandosi di una norma sul procedimento volta a tutelare interessi essenzialmente dominicali, il disposto di cui l’art. 10, comma 5, l.reg. Molise n. 19 del 1993 esula dalla materia di competenza esclusiva prevista dall’art. 117, comma 2 lett. s), Cost., e comunque deve essere letto congiuntamente alle prescrizioni degli artt. 7 e 8, l. n. 241 del 1990 e dell’artt. 11 del T.U. Espropriazioni, che consentono la pubblicazione, quale forma di comunicazione alternativa alla notificazione individuale, in riferimento ad ipotesi in cui risulta eccessivamente impegnativo e complesso provvedere alla notificazione individuale, la qualcosa non è specificamente oggetto di contestazione con il ricorso (1).   (1) Il Tar ha affermato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della norma regionale che, in materia di Piano faunistico venatorio territoriale, consente all’amministrazione procedente di optare per la pubblicazione della deliberazione che individua il perimetro delle zone da vincolare in alternativa alla sua notificazione individuale, innovando la disciplina contenuta nell’art. 10, comma 13, della l.157/1992 che prevede un duplice adempimento procedimentale (pubblicazione e notificazione). Il Tar ha osservato che se pure è vero che la caccia costituisce “materia affidata alla competenza legislativa residuale della Regione ai sensi dell'art. 117, comma 4, Cost.” e che è “necessario, in base all'art. 117, comma 2, lett. s), Cost., che la legislazione regionale rispetti la normativa statale adottata in tema di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, ove essa esprima regole minime uniformi” (Corte Cost. n. 139 del 2017), è però parimenti vero che, nel concreto caso di specie, non vengono in rilievo norme poste a presidio di interessi propriamente ambientali, dal momento che il legislatore regionale ha introdotto prescrizioni di tipo essenzialmente procedimentale, volte a regolare le modalità di apposizione dei vincoli sui suoli, nell’interesse esclusivo dei privati proprietari incisi dalle scelte di piano.
Caccia
Contratti della Pubblica amministrazione - Offerte anomale - Verifica - Mancanza - Verifica sui costi per la manodopera dichiarati dall’impresa prima graduata - Necessità            In materia di gare d’appalto, la verifica sui costi per la manodopera dichiarati dall’impresa prima graduata, prevista dal combinato disposto di cui agli artt. 95, comma 10, secondo periodo, e 97, comma 5, lett. d), del Codice dei contratti, è obbligatoria anche se l’offerta non risulti anormalmente bassa e non venga pertanto assoggettata alla verifica di anomalia (1).    (1) Ha chiarito il Tar che sebbene la verifica di congruità dei costi per la manodopera possa anche confluire in tale subprocedimento, differenti restano le finalità.  La verifica sui costi di manodopera si caratterizza per il carattere vincolato dell’attività e mira alla comprova del rispetto dei minimi salariali e contributivi inderogabili, come fissati dalla contrattazione collettiva, in una logica che sostanzialmente opera in modalità on/off, non tanto e non solo a presidio della regolarità della procedura (e della futura esecuzione dell’appalto), quanto piuttosto a tutela delle maestranze.  La verifica di anomalia persegue lo scopo di accertare la sostenibilità economica complessiva dell’offerta, alla luce delle prestazioni contrattuali e di quelle, eventualmente migliorative, dedotte nel progetto tecnico presentato in gara dall’impresa. Tale attività, secondo l’opinione maggiormente accreditata nel panorama giurisprudenziale, costituisce per la stazione appaltante esercizio di discrezionalità tecnica, di regola insindacabile se non per manifesta erroneità o irragionevolezza. ​​​​​​​
Contratti della Pubblica amministrazione
Militari, forze armate e di polizia - Polizia di Stato - Indennità per servizi esterni – Polizia assegnata presso gli uffici giudiziari - Attività di polizia giudiziaria di ausilio ai P.M. – Non spetta.               L’indennità per servizi esterni non spetta alle Forze di polizia assegnate presso gli uffici giudiziari per attività di polizia giudiziaria di ausilio ai P.M.    (1) Ha premesso la Sezione che secondo consolidato orientamento giurisprudenziale (Tar Piemonte, sez. I, 10 luglio 2017, n. 795; Tar Reggio Calabria, 9 giugno 2016, n. 667; Tar Palermo, sez. I, 15 maggio 2014, n. 1243) il riconoscimento del beneficio dell’indennità per servizi esterni costituisce un ristoro per un’attività caratterizzata da condizioni di particolare disagio, derivante dall’esposizione a particolari agenti atmosferici o a specifici rischi, mentre non si può configurare per il solo fatto che l'attività lavorativa si svolga fisicamente al di fuori dei locali dell’ufficio di appartenenza; diversamente opinando si determinerebbe un evidente snaturamento della finalità della suddetta indennità.  Deve escludersi che la speciale indennità di cui trattasi possa essere corrisposta per il mero svolgimento del proprio servizio al di fuori del proprio ufficio (Cons. Stato, sez. III, 18 dicembre 2013, n. 6047; Cons. Stato, sez. IV, 23 dicembre 2010, n. 9358).  
Militari, forze armate e di polizia
Militari, forze armate e di polizia – Infermità – Aspettativa – Congedo non maturato - Compenso sostitutivo – Spetta – Cessazione dal servizio a domanda – Irrilevanza.   Il diritto al congedo ordinario maturato dal militare nel periodo di aspettativa per infermità include automaticamente il diritto al compenso sostitutivo, ancorché il militare sia cessato dal servizio “a domanda” (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che la Corte costituzionale – con una sentenza interpretativa di rigetto (sentenza 6 maggio 2016, n. 95) – ha ritenuto che il divieto di monetizzazione non può trovare applicazione ove il godimento delle ferie sia stato impedito da uno stato di malattia o da altra causa oggettivamente non imputabile al lavoratore. In tal modo è stato riconosciuto al lavoratore il diritto di beneficiare di un'indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche quando la normativa settoriale formuli esplicitamente un divieto in tal senso, in questo modo garantendo il diritto alle ferie, come riconosciuto dalla Costituzione e dalle più importanti fonti internazionali ed europee. E’ poi intervenuta la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, sez. X, del 20 luglio 2016 (causa C-341/15), secondo cui: - come emerge dalla stessa formulazione dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, disposizione alla quale tale direttiva non consente di derogare, ogni lavoratore beneficia di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane; - tale diritto alle ferie annuali retribuite, che, secondo giurisprudenza costante della Corte, deve essere considerato come un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, è dunque conferito a ogni lavoratore, indipendentemente dal suo stato di salute; - quando è cessato il rapporto di lavoro e allorché, pertanto, la fruizione effettiva delle ferie annuali retribuite non è più possibile, l’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 prevede che il lavoratore abbia diritto a un’indennità finanziaria per evitare che, a causa di tale impossibilità, il lavoratore non riesca in alcun modo a beneficiare di tale diritto, neppure in forma pecuniaria; - l’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, come interpretato dalla Corte, non assoggetta il diritto a un’indennità finanziaria ad alcuna condizione diversa da quella relativa, da un lato, alla cessazione del rapporto di lavoro e, dall’altro, al mancato godimento da parte del lavoratore di tutte le ferie annuali a cui aveva diritto alla data in cui tale rapporto è cessato; - ne consegue, conformemente all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, che un lavoratore, che non sia stato posto in grado di usufruire di tutte le ferie retribuite prima della cessazione del suo rapporto di lavoro, ha diritto a un’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute; - a tal fine è privo di rilevanza il motivo per cui il rapporto di lavoro è cessato. Pertanto, la circostanza che un lavoratore ponga fine, di sua iniziativa, al proprio rapporto di lavoro, non ha nessuna incidenza sul suo diritto a percepire, se del caso, un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite di cui non ha potuto usufruire prima della cessazione del rapporto di lavoro; - pertanto l’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che priva del diritto a un’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute il lavoratore il cui rapporto di lavoro è cessato a seguito della sua domanda di pensionamento e che non è stato in grado di usufruire del suo diritto alle ferie prima della fine di tale rapporto di lavoro.
Militari, forze armate e di polizia
Ricorso straordinario al capo dello Stato – Revocazione - Mancata trasmissione delle controdeduzioni dell’amministrazione – Non costituisce errore di fatto revocatorio.      Nel ricorso straordinario la mancata trasmissione delle controdeduzioni dell’amministrazione o, più in generale, della relazione ministeriale alla parte ricorrente non può essere ricondotta all’errore di fatto revocatorio (1).    (1) Ha ricordato il parere che attesa la peculiarità del ricorso straordinario – il mancato invio della documentazione allegata alla relazione non può integrare errore di fatto revocatorio. Giova precisare che, per l’opinione prevalente, il ricorso straordinario continua ad avere una connotazione sui generis. In primo luogo, occorre ricordare che per l’art. 49, comma 1, r.d. n. 444 del 1942 “gli affari sui quali è chiesto parere non possono essere discussi con l’intervento degli interessati o dei loro rappresentanti o consulenti”. Il parere, dunque, è espresso in una seduta non pubblica e non è ammessa la discussione orale, né occorre dare avviso alle parti della data della seduta e dei nomi dei componenti dell’adunanza (Cons. Stato, sez. I, 26 ottobre 2005, n. 1407; id., sez. III, 9 gennaio 2003, n. 3600). In secondo luogo, lo stesso Consiglio di Stato, nel riconoscimento della ‘giurisdizionalizzazione’ del rimedio de quo, afferma la non totale equiparabilità ai rimedi giurisdizionali, evidenziando “la specificità (e la sommarietà) della procedura originata dal ricorso straordinario, a confronto con quella disciplinata dal codice del processo amministrativo secondo i canoni più rigorosi del giusto processo” (Cons. Stato, sez. III, 4 agosto 2011, n. 4666) ed affermando che “il procedimento di giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario conduce a qualificare il rimedio come tendenzialmente giurisdizionale nella sostanza, ma formalmente amministrativo” e dunque “l’equiparazione alla giurisdizione” non “può dirsi piena”. In particolare poi, “il modello di istruttoria previsto dal d.P.R. 1199/1971, basato sull'affidamento dell’indagine e dell’acquisizione degli atti rilevanti alle strutture ministeriali, senza contraddittorio orale con le parti, e con esclusione di strumenti come la consulenza tecnica d'ufficio che invece sono entrati nel processo amministrativo, risulta lontano dal modulo processuale. Il contraddittorio previsto dall'attuale disciplina è di tipo scritto, difettando una disciplina di pubblicità del dibattimento” (Cons. Stato, sez. I, 7 maggio 2012, n. 2131). Analogamente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che “la raggiunta natura di decisione di giustizia non significa anche che ogni aspetto della procedura (in particolare, l'istruttoria) sia pienamente compatibile con il canone costituzionale dell'art. 24 Cost., e con la garanzia del pieno contraddittorio, del diritto alla prova e all'accesso agli atti del procedimento; nonché - dopo il noto nuovo corso della giurisprudenza costituzionale (Corte cost. nn. 348 e 349 del 2007) - con il parametro interposto del diritto ad un processo equo ex art. 6 CEDU” (Cass., S.U., 19 dicembre 2012 n. 23464). Sulla base di quanto sin qui detto, dunque, non vi è coincidenza tout court con gli altri rimedi giurisdizionali sul piano dei principi applicabili; conseguentemente deve pervenirsi alla conclusione che la non perfetta operatività delle garanzie della pubblicità e della oralità non va a collidere con le norme costituzionali e convenzionali in materia (art. 24 Cost e art. 6 CEDU). Di recente, anche la Corte Costituzionale - che già si era espressa nel senso che “al fine della verifica del rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l’assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta” (Corte cost. 11 marzo 2011 n. 80) - con la sentenza 9 febbraio 2018, n. 24 ha affrontato nuovamente e trasversalmente la questione dell’applicabilità delle regole convenzionali in tema di equo processo. Per la Corte “il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è, come noto, rimedio alternativo al ricorso giurisdizionale al giudice amministrativo, spettando al ricorrente di scegliere liberamente fra l’una e l’altra via, con l’unica conseguenza che una volta scelta una non è più possibile intraprendere l’altra, e salva restando naturalmente la facoltà dei controinteressati di chiedere la trasposizione in sede giurisdizionale del ricorso straordinario eventualmente prescelto dal ricorrente”. E “del resto, che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo si traggano conclusioni negative sulla riferibilità alla decisione del ricorso straordinario delle garanzie convenzionali in tema di equo processo è confermato dalle pronunce nelle quali la stessa Corte si è direttamente occupata di questo particolare rimedio. Ciò è avvenuto in tre occasioni, e in due delle quali proprio con specifico riferimento alla previsione dell’art. 6 della CEDU” (Corte cost. 9 febbraio 2018, n. 24). Va, infatti, ricordato che nella decisione 28 settembre 1999, Nardella contro Italia, la Corte EDU ricostruisce la disciplina dell’istituto del ricorso straordinario come rimedio speciale ed esclude che esso – del ritardo nella cui decisione il ricorrente si doleva nel caso di specie – ricada nell’ambito di applicazione della Convenzione. Per la stessa ragione osserva che il ricorso al Presidente della Repubblica non rientra fra quelli che devono essere esperiti previamente al ricorso ex art. 35 della Convenzione stessa. Ciò premesso, nella pronuncia è sottolineato come, optando per il gravame speciale del ricorso straordinario, il ricorrente (che pure è stato informato della possibilità di proporre il ricorso giurisdizionale) sceglie esso stesso di esperire un rimedio che si pone fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione. Sulla base dei medesimi argomenti e richiamando il caso Nardella, nella decisione 31 marzo 2005, Nasalli Rocca contro Italia, la Corte EDU ha dichiarato irricevibile un ricorso proposto a essa dal ricorrente che aveva preventivamente esposto le sue ragioni in alcune lettere al Presidente della Repubblica. La Corte osserva che tali lettere, anche a volerle considerare equivalenti a un rimedio straordinario, non ricadono comunque nella sfera di applicazione dell’art. 35 della Convenzione. Particolarmente significativo è che alle stesse conclusioni la Corte di Strasburgo pervenga nella sentenza 2 aprile 2013, Tarantino e altri contro Italia, successiva quindi alla riforma del 2009, dove ribadisce che la parte ricorrente, «presentando un appello speciale al Presidente della Repubblica nel 2007, non ha avviato un procedimento contenzioso del tipo descritto all’articolo 6 della Convenzione (si veda Nardella c. Italia (dec.), n. 45814/99, CEDU 1999-VII, e Nasalli Rocca (dec.), sopra citata), e che, pertanto, la disposizione non è applicabile» (paragrafo 62). ​​​​​​​In definitiva, il ricorso straordinario non è totalmente equiparabile ai rimedi giurisdizionali e, sulla base della giurisprudenza richiamata, non vi è contrasto né con la Costituzione né con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.     
Ricorso straordinario al Capo dello Stato
Animali - Brucellosi – Abbattimento capi infetti – Nuovo esame sui capi in vita - Necessità                 Al fine di garantire una delibazione giurisdizionale effettiva della ragionevolezza della prognosi effettuata ex ante dall’amministrazione in ordine alla legittimità del provvedimento di abbattimento totale dei bovini affetti da brucellosi va verificata la condizione dei capi residui ancora in vita, sì da comprendere se, come rappresentato dall’amministrazione, la malattia si sia ulteriormente diffusa e in che misura; la verificazione è affidata a tre esperti di riconosciuta indipendenza designati rispettivamente dal Ministro della salute, dal Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e dal Comandante dell’Arma dei Carabinieri (1).        (1) Ha ancora chiarito la Sezione che medio tempore mantengano tutta la loro rilevanza le disposizioni sanitarie dettate dalla ASL, le quali, per la salvaguardia della salute pubblica, andranno scrupolosamente osservate dagli allevatori, sotto la vigile e fattiva sorveglianza delle amministrazioni preposte, sicché qualsiasi violazione di tali disposizioni – oltre a comportare le conseguenze giuridiche loro proprie – sarà segnalata dalle autorità sorveglianti all’autorità giudiziaria, dal momento che la mancata esecuzione dolosa della presente ordinanza cautelare – che concerne la tutela della proprietà e del possesso - comporta la violazione dell’art. 388, secondo comma, c.p. come modificato con la legge n. 94 del 200    ; Rilevato che la Sezione, inoltre, ritiene che medio tempore mantengano tutta la loro rilevanza le disposizioni sanitarie dettate dalla ASL di Caserta con la nota prot. 1227070-VET 12 del 2 ottobre 2021, le quali, per la salvaguardia della salute pubblica, andranno scrupolosamente osservate dagli allevatori, sotto la vigile e fattiva sorveglianza delle amministrazioni preposte, sicché qualsiasi violazione di tali disposizioni – oltre a comportare le conseguenze giuridiche loro proprie – sarà segnalata dalle autorità sorveglianti all’autorità giudiziaria, dal momento che la mancata esecuzione dolosa della presente ordinanza cautelare – che concerne la tutela della proprietà e del possesso - comporta la violazione dell’art. 388 del codice penale, secondo comma, come modificato con la legge n. 94 del 2009; 
Animali
Processo amministrativo – Coivid-19 – Astensione degli avvocati dalle udienze e da tutte le attività giudiziarie - Dal 6 al 20 marzo 2020 - Delibera dell’Ufficio di Coordinamento dell’Organismo Congressuale Forense – Difetto di giurisdizione.     Deve essere respinta, per difetto di giurisdizione, l’istanza di sospensione cautelare monocratica  della delibera assunta dall’Ufficio di Coordinamento dell’Organismo Congressuale Forense in data 4 marzo 2020 di indizione dell’astensione dalle udienze e da tutte le attività giudiziarie, in ogni settore della giurisdizione, per il periodo di quindici giorni con decorrenza dal 6 al 20 marzo 2020 (1). (1) Ha chiarito il decreto che appaiono sussistere profili di difetto di giurisdizione dell’adito giudice amministrativo, tenuto conto della natura e dei compiti dell’Ufficio di coordinamento dell'Organismo Congressuale Forense nonché degli effetti di tale proclamazione di astensione sull’esercizio di attività libero professionale.
Processo amministrativo
Militari, forze armate e di polizia – Sospensione cautelare – Termine massimo - - Militare imputato in un “procedimento penale per fatti di eccezionale gravità” – Individuazione – Anche oltre il quinquennio di ordinaria durata - Limiti.                   In deroga all’art. 9, comma 2, l. n. 19 del 1990, che ha definito in cinque anni il periodo massimo di sospensione cautelare dei pubblici dipendenti, l’art. 919, comma 3, del Codice dell’Ordinamento Militare consente la protrazione della sospensione precauzionale anche oltre il quinquennio di ordinaria durata, allorché un militare sia imputato in un “procedimento penale per fatti di eccezionale gravità”; tale disposizione, in quanto appunto volta ad evitare i danni potenzialmente connessi al rientro in servizio dell'imputato, non può essere applicata ove il militare - scaduto il primo quinquennio di sospensione cautelare  -  sia già da tempo rientrato in servizio (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 919, comma 3, del Codice dell’Ordinamento Militare attribuisce all’Amministrazione il potere di protrarre lo stato di sospensione in cui il militare già si trovi, al fine di prevenirne il rientro in servizio alla scadenza dell’ordinario termine di cinque anni, ove tale rientro in servizio sia considerato suscettibile di incidere negativamente sull’immagine, sul prestigio e sul buon andamento del Corpo di appartenenza: ne consegue che l’Amministrazione non può utilizzare tale potere di proroga della sospensione cautelare allorchè l’interessato, scaduto il primo quinquennio , sia già da tempo rientrato in servizio. Nella specie l’interessato, già sospeso nel 2008 dal servizio nel Corpo Forestale dello Stato per un quinquennio, era rientrato in servizio  nel 2013 ed era poi nel 2017 transitato nell’Arma dei carabinieri assumendo lo status militare. Con provvedimento dell’aprile 2019 – essendo intervenuta una sentenza di condanna in primo grado - l’Arma ha illegittimamente disposto nuova sospensione cautelare del militare per un ulteriore quinquennio ai sensi dell’art. 919, comma 3, C.O.M. 
Militari, forze armate e di polizia
Ricorso straordinario al Capo dello Stato – Prove – Verificazione – Compenso al verificatore – Esclusione.       Nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, la verificazione, dovendo essere eseguita dal Ministero che istruisce l’affare, rientra nell'ambito dell'attività d'ufficio svolta dai dipendenti incaricati, senza possibilità di corresponsione di compensi ulteriori, con la sola eventualità del rimborso delle spese effettivamente sostenute e compiutamente documentate  (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che la conclusione cui è pervenuta non configura una violazione del diritto all’equa retribuzione di cui all’art. 36 Cost. perché i verificatori intrattengono già un rapporto di lavoro per il quale sono regolarmente retribuiti. Tale conclusione porta ad una differenza rispetto a quanto avviene nel processo amministrativo. Tra il ricorso straordinario e il ricorso giurisdizionale vi sono ancora importanti differenze che portano ad escludere la possibilità di riconoscere un compenso ai verificatori, attesa l’esistenza di regole diverse tra l’uno e l’altro rimedio. La Sezione, con parere del 12 novembre 2019, n. 2848, in occasione della richiesta di audizione avanzata dalla parte ricorrente, non prevista dalle norme che disciplinano il ricorso straordinario, ha chiarito infatti che “non v’è dubbio che il ricorso straordinario abbia perso la sua connotazione, tipicamente ed esclusivamente, di rimedio amministrativo” perché le novità introdotte dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 militano nel senso di un progressivo avvicinamento del ricorso straordinario ai rimedi di tipo giurisdizionale. Tuttavia, dopo aver preso in esame la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, la Sezione ha precisato che il ricorso straordinario non è totalmente equiparabile ai rimedi giurisdizionali. Ed invero il ricorso straordinario: a) può essere proposto dalla parte senza assistenza del difensore; b) segue regole meno rigide rispetto al ricorso giurisdizionale; c) ai sensi dell’articolo 11, d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, è istruito dal Ministero competente con un’attività, dunque, che è demandata ad un ufficio amministrativo che deve curare anche i supplementi di istruttoria necessari: il successivo articolo 13 stabilisce infatti che “l'organo al quale è assegnato il ricorso, se riconosce che l'istruttoria è incompleta o che i fatti affermati nell'atto impugnato sono in contraddizione con i documenti, può richiedere al Ministero competente nuovi chiarimenti o documenti ovvero ordinare al Ministero medesimo di disporre nuove verificazioni, autorizzando le parti ad assistervi ed a produrre nuovi documenti”; d) non è prevista la possibilità di condannare la parte soccombente alle spese di giudizio.
Ricorso straordinario al Capo dello Stato
Militari, forze armate e di polizia - Polizia penitenziaria – Reclutamento – Esclusione - Per tatuaggio alla caviglia – Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 172 del 2019 – Illegittimità.             Nell’ambito delle procedure di reclutamento della Polizia penitenziaria – antecedenti all’entrata in vigore (il 20 febbraio 2020) della novella recata dal d.lgs. n. 172 del 2019 all’art. 123 d.lgs. n. 443 del 1992 e nelle quali non era stata richiamata la disciplina stabilita per le assunzioni nella Polizia di Stato - è illegittima per difetto di motivazione l’esclusione di un candidato (che presentava, al momento della seconda visita psicoattitudinale, un tatuaggio sulla caviglia) dal prosieguo della procedura concorsuale con la mera indicazione della presenza di un tatuaggio in sedi non coperte dall’uniforme, ipotesi questa non prevista, almeno quale causa di esclusione vincolata e automatica, nel dal bando né dalla presupposta disciplina legislativa ratione temporis applicabile; soltanto la presenza di un tatuaggio con le caratteristiche di cui alla normativa rilevante (“deturpante o indice di personalità abnorme”) avrebbe potuto legittimamente condurre all’esclusione (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che la disciplina applicabile per l’accesso alla Polizia penitenziaria si differenzia rispetto a quella riferita alle procedure concorsuali per l’accesso ai ruoli della Polizia di Stato.  Con sentenze n. 1690 e n. 658 del 2020 la sez. IV del Consiglio di Stato  era stato affermato che era stata data corretta applicazione alla tabella 1, punto 2, lett. b), allegata all’art. 3, d.m. 30 giugno 2003, n. 198 (cui rinviano, per l’accertamento dell’idoneità fisica e psichica, gli artt. 6 e 27 bis, d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335, relativi -rispettivamente - alla nomina degli appartenenti al ruolo agenti e assistenti e al ruolo ispettori, e l’art. 55 bis, d.lgs. 5 ottobre 2000, n. 334, per la nomina del personale direttivo e dirigente).  A mente della predetta tabella i tatuaggi (anche in fase di rimozione) - e gli esiti cicatrizionali in genere, derivanti da qualunque causa se <<estese o gravi o che, per sede o natura, determinino alterazioni funzionali o fisiognomiche>> della cute - sono sempre causa di inidoneità, qualora: a) indipendentemente dalla dimensione o dal soggetto rappresentato, si trovino “nelle parti del corpo non coperte dall'uniforme” (dovendosi, a tal fine, fare riferimento a tutti i tipi di uniforme utilizzate o utilizzabili nell'ambito del servizio); b) a prescindere dalla collocazione in parti del corpo non coperte dall’uniforme, “per la loro sede o natura, siano deturpanti o per il loro contenuto siano indice di personalità abnorme”.  Si tratta di un approdo esegetico coerente, per altro, con gli indirizzi della giurisprudenza del Consiglio di Stato formatisi prima della riforma del 2019 (cfr. ex plurimis sez. IV, 10 giugno 2013, n. 3153; sez. II, parere 18 aprile 2013, n. 2080/11; sez. IV, 24 gennaio 2012, n. 316; sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 504). Alle procedure di reclutamento nella Polizia penitenziaria che si svolgeranno successivamente all’entrata in vigore della novella dell’art. 123, comma 1, lettera c), d.lgs. 30 ottobre 1992, n. 443, nella versione modificata dall’art. 30, d.lgs. n. 172 del 2019, entrata in vigore il 20 febbraio 2020 (“Costituiscono causa di esclusione dai concorsi pubblici per l'accesso ai ruoli e alle carriere della Polizia Penitenziaria le alterazioni volontarie dell'aspetto esteriore dei candidati, quali tatuaggi e altre alterazioni permanenti dell'aspetto fisico non conseguenti a interventi di natura comunque sanitaria, se visibili, in tutto o in parte, con l'uniforme indossata o se, avuto riguardo alla loro sede, estensione, natura o contenuto, risultano deturpanti o indice di alterazioni psicologiche, ovvero comunque non conformi al decoro della funzione degli appartenenti alla Polizia Penitenziaria.”), troverà applicazione il nuovo testo del menzionato articolo, con la conseguenza pratica che i tatuaggi e gli esiti cicatrizionali visibili con l’uniforme costituiranno causa automatica di esclusione.  Tale disposizione, inoltre, trovando applicazione, in base al suo tenore testuale, ai concorsi per gli accessi a tutti i ruoli e carriere della Polizia penitenziaria, ha comportato l’abrogazione per incompatibilità, limitatamente alla parte relativa alla disciplina dei tatuaggi, dell’art. 9, comma 3, d.m. 6 aprile 2001, n. 236 che rinviava, per l’accertamento dei requisiti psico fisici dei candidati al reclutamento nei ruoli direttivi, al compendio normativo della Polizia di Stato e dunque, tout court (prima all’abrogato d.P.R. n. 904 del 1983 e successivamente), al d.m. n. 198 del 2003.  Con ciò, nella sostanza, allineandosi, in parte qua, le procedure di reclutamento nella Polizia di Stato e quelle nella Polizia penitenziaria, fermo restando l’approccio più rigoroso sotteso alla disciplina relativa a quest’ultima. ​​​​​​​
Militari, forze armate e di polizia
Urbanistica – Variante – Variante destinazione urbanistica di una area – Area destinata a edifici di culto - Trasformata in parcheggi e verde pubblico – Area di proprietà di Associazione culturale islamica per la realizzazione di una moschea – Omessa comparazione interessi in gioco – Illegittimità.     É illegittima la delibera che modifica – senza la previa comparazione tra i contrapposti interessi – la destinazione urbanistica di una area per la realizzazione di edifici di culto destinandola a parcheggi e verde pubblico, area che era stata acquistata da una Associazione culturale islamica per la realizzazione di una moschea per la quale era già stato avviato il procedimento per ottenere il necessario permesso di costruzione  (1). (1) Ha chiarito la Sezione che la modifica della destinazione urbanistica dell’area in questione incide quindi su un’aspettativa del proprietario, qualificata in termini ben più pregnanti di quanto non sia l’aspettativa del proprietario che intende ottenere il massimo vantaggio patrimoniale dall’utilizzo del suo immobile: infatti l’Associazione ricorrente intende soddisfare il diritto, proprio e degli associati, alla libertà di culto, diritto fondamentale dell’individuo espressamente tutelato dalla Costituzione.   E’ appena il caso, poi, di richiamare l’art. 10 (intitolato libertà di pensiero, di coscienza e di religione) della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ai sensi del quale "ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”. Deve essere anche richiamato l’art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, intitolato “libertà di pensiero, di coscienza e di religione”, ai sensi del quale: “1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui.” Quanto deliberato dal Comune resistente frappone un rilevante ostacolo all’esercizio della “libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”.
Urbanistica
Edilizia - Sanatoria – Inutile decorso di 60 giorni dalla sua presentazione – Silenzio-diniego – Art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 – Violazione artt. 3, 24 e 113 in via mediata, e 97 Cost.          È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, di previsione del silenzio-diniego sull’istanza di sanatoria edilizia, dopo 60 giorni dalla sua presentazione, in relazione agli artt. 3, 24 e 113 in via mediata, e 97 Cost. (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che con riferimento ai profili di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., il riconnettere all’inerzia dell’Amministrazione sull’istanza di sanatoria un effetto di diniego, introduce un sicuro elemento di incertezza nel rapporto tra cittadino e Soggetto pubblico, impedendo al primo di poter comprendere le ragioni della reiezione, e costringendolo, ove non presti adesione, a ricorrere ad una tutela giurisdizionale “al buio”, con aggravamento della propria posizione processuale.  In relazione all’art. 24 Cost., occorre segnalare che, laddove l’interessato si rivolga al Giudice, lo stesso è costretto a impugnare un silenzio qualificato dal legislatore come provvedimento negativo, dunque del tutto sprovvisto di motivazione, dovendo, senza apprezzabili punti di riferimento, da un lato tentare di individuare i possibili motivi di rigetto, dall’altro cercare di affermare le ragioni di doppia conformità urbanistico-edilizia dell’abuso.  Quanto ai parametri di buon andamento, imparzialità e trasparenza, di cui all’art. 97 Cost., va detto che gli stessi, per come declinati dal legislatore ordinario, in primo luogo con la l. n. 241 del 1990, impongono all’Amministrazione di rispondere alle istanze dei privati in tempi certi, previo adeguato contraddittorio procedimentale, e con provvedimenti espressi e motivati.  Con riferimento in ultimo all’art. 113 Cost., occorre rilevare che l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale avverso gli atti della pubblica amministrazione è reso più gravoso dall’assenza in sostanza di un vero e proprio atto amministrativo - sussistente solo come fictio iuris -, a cui rivolgere le proprie censure, oltre che, come visto, dalla mancata evidenziazione delle ragioni a supporto.  Tutto ciò altererebbe anche la struttura dell’ordinamento, articolata secondo il principio della separazione dei poteri, richiedendosi al Giudice di intervenire pressochè in veste di Organo di amministrazione attiva. 
Edilizia
Giustizia amministrativa – Decreto cautelare – Presupposti       La concessione di una misura cautelare monocratica, resa inaudita altera parte, postula la ricorrenza di due ineludibili condizioni: a) il periculum in mora, ovvero l’effettiva esistenza di una situazione a effetti gravi, irreversibili e irreparabili, tale cioè da non consentire di attendere neppure il breve termine dilatorio che deve intercorrere tra il deposito del ricorso e la camera di consiglio in cui deve svolgersi l’ordinario scrutinio collegiale sull’istanza cautelare; b) il fumus boni iuris, ovvero la non evidenza di una sua radicale insussistenza ​​​​​​​ Impiegato dello stato e pubblico - Concorso – Procedimento digitale - Diligenza informatica – Soccorso istruttorio      La violazione del dovere di soccorso istruttorio deve essere valutata tenuto conto dell’effettivo limite dell’onere di diligenza informatica che possa ragionevolmente farsi gravare sul quisque de populo. ​​​​​​​ Secondo la IV la concessione presidenziale di una misura cautelare monocratica d’urgenza, resa inaudita altera parte, postula la ricorrenza, legalmente scandita, delle due ineludibili condizioni: a) il periculum in mora, ovvero l’effettiva esistenza di una situazione a effetti gravi, irreversibili e irreparabili, tale cioè da non consentire di attendere neppure il breve termine dilatorio che deve intercorrere tra il deposito del ricorso e la camera di consiglio in cui deve svolgersi l’ordinario scrutinio collegiale sull’istanza cautelare; b) il fumus boni iuris, ovvero la non evidenza di una sua radicale insussistenza.   In punto di non evidenza dell’insussistenza del fumus boni iuris, ha osservato la IV sezione che la violazione del dovere di soccorso istruttorio (procedimentale o informatico) va valutata alla luce di una serie di nuove tematiche, essenzialmente correlate all’individuazione dell’effettivo limite dell’onere di diligenza informatica che possa ragionevolmente farsi gravare sul quisque de populo; in particolare si pongono le seguenti questioni:   - se a carico del semplice cittadino, pur non trattandosi di un “professionista”, sia traslabile tutto quanto la giurisprudenza abbia finora enucleato sulla partecipazione delle imprese alle pubbliche gare (o degli avvocati al processo telematico);   - se e fino a che punto, a fronte di malfunzionamenti del sistema o del collegamento a esso, il cittadino possa essere costretto a una sorta di “gioco dell’oca” per completare una procedura telematica impostagli (e altresì onerato di riuscire ad avvedersi per tempo dei propri insuccessi);   - se meriti adeguata considerazione la tesi che sul cittadino, in quanto non imprenditore (rectius: non “professionista”), non possa gravare l’onere di munirsi d’una sorta di “ufficio informatico” per potersi correttamente rapportare con l’amministrazione pubblica, e che gli vada perciò riconosciuto, in ogni caso di difficoltà (salvo a postulare un generale obbligo di alfabetizzazione informatica quale precondizione per continuare a godere dei più elementari diritti civili), un soccorso amplissimo – preventivo, ma anche successivo – a carico della controparte pubblica (che, per proprie esigenze, abbia imposto modalità di accesso esclusivamente telematiche)
Concorso
Ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana – Atti impugnabili - atti delle amministrazioni statali – Inammissibilità – Conseguenza – Trasmissione d’ufficio al Consiglio di Stato.           È inammissibile, per incompetenza dell’autorità amministrativa adita, il ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana proposto avverso atti delle amministrazioni statali (1)    (1) Il C.g.a. ha rimeditato il proprio precedente orientamento secondo il quale il procedimento avviato col ricorso si conclude con la sola decisione in rito sulla inammissibilità. Ed invero, tale soluzione - melius re perpensa - presenta il rischio di risolversi in un diniego della tutela piena, effettiva e satisfattiva per il cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, laddove viene esclusa la possibilità di una pronuncia di merito sulla fondatezza della domanda proposta avanti all’autorità incompetente.   In considerazione delle lacune della disciplina positiva, la questione, nei termini prospettati, postula la disamina della natura giuridica, prima del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, e poi, in particolare, di quello al Presidente della Regione Siciliana ex art. 23 dello Statuto Siciliano, al fine di individuare la soluzione da applicare al caso in esame che consenta la conciliazione delle due sopra richiamate esigenze, ossia la definizione del procedimento inammissibilmente instaurato innanzi al Presidente della regione Siciliana, senza tuttavia pregiudicare il pieno esercizio del diritto del ricorrente a una tutela effettiva, nonché celere e agevole, delle pretese fatte in concreto valere. Non v’è dubbio che la natura giuridica del ricorso straordinario sia intimamente legata alla disciplina dell’istituto e alla sua evoluzione.   Il ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana è un rimedio amministrativo giustiziale a carattere impugnatorio e a struttura contenziosa, sicché eventuali lacune della relativa disciplina positiva possono essere colmate anche attraverso l’applicazione dei principi generali in materia di ricorsi amministrativi.  Nel caso di impugnazione di atti statali, e non regionali, può, quindi, applicarsi al ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana, il principio generale ricavabile dall’art. 2, comma 3, d.P.R. n. 1199 del 1971, secondo il quale non viene meno l’obbligo di pronuncia dell’amministrazione quando un ricorso amministrativo sia stato indirizzato, nei termini di legge, a un organo diverso da quello competente. Ne consegue che, una volta dichiarata l’inammissibilità, il ricorso pervenuto erroneamente al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana va trasmesso d’ufficio al Consiglio di Stato, ai fini della prosecuzione del procedimento, pena, altrimenti, l’ingiustificata limitazione dei principi di pienezza ed effettività di tutela del cittadino nei confronti di atti della pubblica amministrazione. 
Ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana
Processo amministrativo– Giudizio di ottemperanza – Istanza di chiarimenti – Notifica alle controparti – Esclusione. Processo amministrativo – Giudizio di ottemperanza – Istanza di chiarimenti – Ordinanza- E’ appellabile.             L’istanza di chiarimenti del commissario ad acta nominato nel giudizio di ottemperanza, indicata solo nell’art. 114, comma 7, c.p.a. mediante richiamo all’art. 112, comma 5, c.p.a. non può essere qualificata come “azione di ottemperanza”, sicché la stessa non va notificata alle parti (1).             L’ordinanza con la quale il giudice di primo grado offre i chiarimenti richiesti dal commissario ad acta nominato nel giudizio di ottemperanza interpreta il giudicato da eseguire, sicché ha carattere decisorio; ne consegue che il rimedio avverso la stessa esperibile è l’appello, non essendo previsto il rimedio del reclamo al medesimo giudice contro i provvedimenti del giudice dell’ottemperanza   (1) Ha chiarito il Cga che a garanzia del contraddittorio e, quindi del principio del giusto processo, è sufficiente che le parti ne abbiano avuto conoscenza mediante la comunicazione d’ufficio della data della camera di consiglio fissata per l’esame della stessa.     (2) Ad avviso del Cga la circostanza che il giudice adito si pronunci su una istanza di chiarimenti del commissario ad acta, che non è in senso proprio una azione di ottemperanza, non significa che il rimedio esperibile sia il reclamo. Il reclamo al medesimo giudice costituisce, infatti, un rimedio “nominato” ed è ancorato a presupposti ben individuati: ha per oggetto “gli atti del commissario ad acta” e non i provvedimenti del giudice dell’ottemperanza. Contro gli atti del giudice dell’ottemperanza sono previste le impugnazioni, delle parti o dei terzi, ovviamente se ed in quanto siano atti “decisori”. Se sono meramente “ordinatori” non sono impugnabili, se non unitamente alla decisione finale (Cons. St., sez. IV, n. 2141 del 2018). In particolare va rilevato, con specifico riferimento alla appellabilità o meno della decisione di chiarimenti resa ai sensi dell’art. 112, comma 5, c.p.a., che appare decisivo accertare, volta per volta, quale sia il contenuto effettivo del provvedimento (indipendentemente dalla veste formale di ordinanza o sentenza) adottato dal Giudice in sede di ottemperanza e, segnatamente, in occasione della risposta a chiarimenti da chiunque, ausiliario o parte, richiesti. Secondo il Consiglio di Stato (sez. IV, n. 2641 del 2018), ferma restando la regola generale della impugnabilità di tutte le decisioni rese dal giudice di primo grado in sede di ottemperanza (il c.p.a. che non ha previsto, in parte qua, alcuna ipotesi di inappellabilità), vale anche per le decisioni rese ai sensi dell’art. 112 comma 5 c.p.a. il principio secondo cui non sono appellabili le statuizioni rese in primo grado nell’ambito di un giudizio di ottemperanza che, essendo prive di natura decisoria definitiva, abbiano effetti meramente esecutivi e dunque sostanzialmente ordinatori. Si tratta di un orientamento pienamente condivisibile, coerente con i principi frequentemente affermati dalla Corte di Cassazione (ss.uu. n. 2610 del 2017) circa la non impugnabilità, salvo che non sia diversamente disposto dalla legge, dei provvedimenti non decisori e comunque non definitivi. Tali sono quei provvedimenti che hanno indole meramente esecutiva, “sempre revocabili, reiterabili e soprattutto destinati ad essere cristallizzati solo con la sentenza che chiude definitivamente il giudizio di esecuzione, questa si certamente appellabile” (Cons. St., sez. IV, n. 1759 del 2018).
Processo amministrativo
Risarcimento danni – Responsabilità precontrattuale - procedure di affidamento di contratti pubblici – Presupposti.                Nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, derivante dalla violazione imputabile a sua colpa dei canoni generali di correttezza e buona fede, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto, da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa (1).     La questione è stata rimessa da Cons. St., sez. II, ord., 6 aprile 2021, n. 2753   L’Adunanza plenaria n. 21 reitera anche i principi espressi dalla Adunanza plenaria 29 novembre 2021, n. 19 (1)  Ha chiarito l’Alto consesso che con riguardo alla questione, concernente i limiti entro cui può essere riconosciuto il risarcimento per lesione dell’affidamento, con particolare riguardo all’ipotesi di aggiudicazione definitiva di appalto di lavori, servizi o forniture, successivamente revocata a seguito di una pronuncia giudiziale, deve in primo luogo essere precisato che questo settore dell’attività della pubblica amministrazione è quello in cui tradizionalmente e più volte è stata riconosciuta la responsabilità di quest’ultima. Le ragioni alla base dell’orientamento di giurisprudenza favorevole al privato venutosi a creare in questo settore si spiega sulla base del fatto che, sebbene svolta secondo i moduli autoritativi ed impersonali dell’evidenza pubblica, l’attività contrattuale dell’amministrazione è nello stesso tempo inquadrabile nello schema delle trattative prenegoziali, da cui deriva quindi l’assoggettamento al generale dovere di «comportarsi secondo buona fede» enunciato dall’art. 1337 c.c. (come chiarito dall’Adunanza plenaria nelle sopra citate pronunce del 5 settembre 2005, n. 6, e del 4 maggio 2018, n. 5). La tutela risarcitoria per responsabilità precontrattuale è posta a presidio dell’interesse a non essere coinvolto in trattative inutili, e dunque del più generale interesse di ordine economico a che sia assicurata la serietà dei contraenti nelle attività preparatorie e prodromiche al perfezionamento del vincolo negoziale. La reintegrazione per equivalente è pertanto ammessa non già in relazione all’interesse positivo, corrispondente all’utile che si sarebbe ottenuto dall’esecuzione del contratto, riconosciuto invece nella responsabilità da inadempimento, ma dell’interesse negativo, con il quale sono ristorate le spese sostenute per le trattative contrattuali e la perdita di occasioni contrattuali alternative, secondo la dicotomia ex art. 1223 cod. civ. danno emergente – lucro cessante. Applicata all’evidenza pubblica, la responsabilità precontrattuale sottopone l’amministrazione alla duplice soggezione alla legittimità amministrativa e agli obblighi di comportamento secondo correttezza e buona fede, i quali costituiscono, come in precedenza esposto, profili tra loro autonomi, e da cui può rispettivamente derivare l’annullamento degli atti adottati nella procedura di gara e le responsabilità per la sua conduzione (da ultimo in questo senso: Cons. Stato, V, 12 luglio 2021, n. 5274; 12 aprile 2021, n. 2938; 2 febbraio 2018, n. 680). In senso parzialmente diverso si è espressa la Cassazione civile. Con sentenza in data 3 luglio 2014, n. 15260 (Sezione I) la Suprema Corte ha affermato che l’affidamento del concorrente ad una procedura di affidamento di un contratto pubblico è tutelabile «indipendentemente da un affidamento specifico alla conclusione del contratto»; la stazione appaltante è quindi responsabile sul piano precontrattuale «a prescindere dalla prova dell’eventuale diritto all’aggiudicazione del partecipante».   L’apparente contrasto rispetto agli approdi della giurisprudenza amministrativa deve tuttavia essere ridimensionato, avuto riguardo al fatto che il caso deciso dalla Cassazione riguardava il concorrente primo classificato in una procedura di gara poi annullata in sede giurisdizionale amministrativa su ricorso di un altro concorrente. La stessa giurisprudenza amministrativa non si è del resto arroccata su rigidi apriorismi, ma con criterio elastico – che questa Adunanza plenaria ritiene condivisibile – ha negato rilievo dirimente all’intervenuta aggiudicazione definitiva, laddove ha in particolare affermato che la verifica di un affidamento ragionevole sulla conclusione positiva della procedura di gara va svolta in concreto, in ragione del fatto che «il grado di sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della revoca, riflettendosi sullo spessore dell’affidamento ravvisabile nei partecipanti, presenta una sicura rilevanza, sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello scrutinio di fondatezza della domanda risarcitoria a titolo di responsabilità precontrattuale» (Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3831). Individuato un primo requisito dell’affidamento tutelabile nella sua ragionevolezza e nel correlato carattere ingiustificato del recesso, il secondo consiste nel carattere colposo della condotta dell’amministrazione, nel senso che la violazione del dovere di correttezza e buona fede deve esserle imputabile quanto meno a colpa, secondo le regole generali valevoli in materia di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ. (in questo senso va ancora richiamato Cons. Stato, Ad. plen., 4 maggio 2018, n. 5). l’elemento della colpevolezza dell’affidamento si modula diversamente nel caso in cui l’annullamento dell’aggiudicazione non sia disposto d’ufficio dall’amministrazione ma in sede giurisdizionale. In questo secondo caso emergono con tutta evidenza i caratteri di specialità del diritto amministrativo rispetto al diritto comune, tra cui la centralità che nel primo assume la tutela costitutiva di annullamento degli atti amministrativi illegittimi, contraddistinta dal fatto che il beneficiario di questi assume la qualità di controinteressato nel relativo giudizio. Con l’esercizio dell’azione di annullamento quest’ultimo è quindi posto nelle condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé favorevole, per giunta entro il ristretto arco temporale dato dal termine di decadenza entro cui ai sensi dell’art. 29 cod. proc. amm. l’azione deve essere proposta, e di difenderlo. La situazione che viene così a crearsi induce per un verso ad escludere un affidamento incolpevole, dal momento che l’annullamento dell’atto per effetto dell’accoglimento del ricorso diviene un’evenienza non imprevedibile, di cui il destinatario non può non tenere conto ed addirittura da questo avversata allorché deve resistere all’altrui ricorso; per altro verso porta ad ipotizzare un affidamento tutelabile solo prima della notifica dell’atto introduttivo del giudizio.  
Risarcimento danni
Processo amministrativo – Covid-19 – Udienze da remoto – Discussione – Richiesta ex art. 25, d.l. n. 137 del 2020 – Termine – Natura ordinatoria.    Deve essere respinta l’opposizione alla richiesta di discussione da remoto ex art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 presentata sul rilievo che la domanda di discussione da remoto sarebbe tardiva in quanto presentata oltre il termine di cinque giorni liberi prima dell’udienza pubblica, trattandosi di termine non perentorio  (1). (1) Il decreto ha ritenuto non meritevoli di accoglimento le ragioni poste a fondamento dell’opposizione sul rilievo che il comma 4 dell’art. 25, d.l. n. 137 del 2020 va interpretato nel senso che il termine fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza non è perentorio. ​​​​​​​
Processo amministrativo
Covid-19 – Aiuti economici – Buoni spesa per generi alimentari – Comune di L’Aquila – Avviso pubblico – Riserva ai nuclei familiari “residenti nel Comune dell’Aquila” – Contrasto con Linee guida del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio – Va sospeso.     Deve essere sospeso l’Avviso pubblico del Comune di L’Aquila per l’assegnazione dei buoni spesa per generi alimentari Emergenza Covid-19 nella sola parte in cui riservano l’accesso alla misura di sostegno ai nuclei familiari “residenti nel Comune dell’Aquila”, apparendo prima facie in contrasto con le Linee Guida in materia di solidarietà alimentare dell’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio  (1). (1) Ha ricordato il decreto che il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio - Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica” (UNAR), nelle Linee Guida in materia di solidarietà alimentare in esecuzione dell’ordinanza della C.P.C.n. 658 del 2020 ha affermato che “..qualora fosse richiesto il requisito della residenza nei Comuni interessati, … questo requisito” avrebbe “…l’effetto di discriminare i potenziali beneficiari (senza fissa dimora) individuabili senza dubbio come soggetti in evidente stato di altissima fragilità sociale”. Conseguentemente l’impugnato Avviso non appare prima facie legittimo, nella parte in cui riserva l’accesso alla misura di sostegno ai nuclei in stato di bisogno, solo ai “residenti nel Comune dell’Aquila”.
Covid-19
Covid-19 – Campania – Attività didattica - Scuola dell’infanzia e primaria - Introduzione attività didattica a distanza - Ordinanza n. 89 del 2020 del Presidente della Regione Campania – decreto monocratico del giudice di primo grado che respinge l’istanza di sospensione dell’ordinanza - Non va sospeso monocraticamente.   ​​​​​​     Non deve essere sospeso il decreto monocratico del giudice di primo grado che non ha accolto l’istanza, presentata da alcuni genitori di figli minori, di sospensione dell’ordinanza n. 89 del 5 novembre 2020 del Presidente della Regione Campania, nella parte in cui dispone, “la sospensione delle attività didattiche in presenza per la scuola primaria” nonchè “la sospensione… dell’attività in presenza nelle scuole dell’infanzia”, e ciò in quanto non sono stati forniti elementi decisivi in favore della irragionevolezza della misura contestata, volta alla più rigorosa prevenzione della salute pubblica nell’ambito territoriale di competenza (1). 
Covid-19
Covid-19 – Emilia Romagna – Didattica digitale integrata - Istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado - Ordinanza del Presidente della Giunta regionale dell’Emilia Romagna n. 3 del 2021 – Va sospesa.            Deve essere sospesa l’ordinanza del Presidente della Giunta regionale dell’Emilia Romagna n. 3 del 8 gennaio 2021, nella parte in cui ha disposto che su tutto il territorio regionale le istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado svolgono esclusivamente attività didattica tramite ricorso alla didattica digitale integrata – DDI,  introducendo detta ordinanza per l’intero territorio regionale in tema di misure idonee al contenimento del contagio da virus Covid–19 un regime più restrittivo di quello previsto dal d.P.C.M. 3 dicembre 2020 (1).    (1) Ha chiarito il decreto che l’impugnata ordinanza non si sottrae ai profili di illegittimità sub specie della figura dell’eccesso di potere per insufficienza ed illogicità di motivazione e difetto di istruttoria di cui al quinto motivo di gravame ove si consideri, in particolare, che: a) nel provvedimento de quo non vi è riferimento a dati o indici specificatamente e univocamente attinenti al settore della scuola secondaria di secondo grado; b) ove avvenuta, la rilevazione della situazione epidemiologica da cui trarrebbe linfa la qui contestata misura si riferirebbe comunque ad un periodo temporale durante il quale le scuole secondarie erano chiuse da tempo; c) non sono indicati fatti, circostanze ed elementi di giudizio che indurrebbero ad un giudizio prognostico circa un più che probabile che non incremento del contagio riferibile all’attività scolastica in presenza nelle scuole secondarie di secondo grado; d) che in ogni caso neppure è ventilata l’ipotesi secondo cui il virus si diffonderebbe nei siti scolastici distribuiti sul territorio regionale più che in altri contesti;  Ha aggiunto il decreto che l’impugnata ordinanza regionale va immotivatamente (e, in definitiva, ingiustificatamente) a comprimere in maniera eccessiva (se non a conculcare integralmente) il diritto degli adolescenti a frequentare di persona la scuola quale luogo di istruzione e apprendimento culturale nonché di socializzazione, formazione e sviluppo della personalità dei discenti, condizioni di benessere che non appaiono adeguatamente (se non sufficientemente) assicurate con la modalità in DAD a mezzo dell’utilizzo di strumenti tecnici costituiti da videoterminali (di cui peraltro verosimilmente non tutta la popolazione scolastica interessata è dotata); l’attività amministrativa di adozione di misure fronteggianti situazioni di pur così notevole gravità non può spingersi al punto tale da sacrificare in toto altri interessi costituzionalmente protetti, dovendo l’agire della P.A. svolgersi in un quadro di bilanciamento delle tutele di entrambe le esigenze pubbliche in rilievo, quella sanitaria e quella del diritto all’istruzione; g) d’altra parte, avuto riguardo al perseguimento delle finalità sottese all’adottate misure di divieto di didattica in presenza nelle scuole superiori di secondo grado rappresentate in particolare dalla necessità di evitare assembramenti e sovraffollamenti, l’Amministrazione procedente può agire con misure che incidono, “a monte” sul problema del trasporto pubblico di cui si avvale l’utenza scolastica e “a valle” con misure organizzative quali la turnazione degli alunni e la diversificazione degli orari di ingresso a scuola (ove, quest’ultime, s’intende, logisticamente possibili) e ferma restando una più stringente attività di controllo sugli adempimenti costituiti dall’uso dei dispositivi di protezione personale, quali l’utilizzo della mascherina, il distanziamento e l’uso di gel igienizzanti e sanificanti.
Covid-19
Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione - Affitto d'azienda di RTI che ha presentato offerta in gara - Successivamente alla presentazione dell’offerta – Legittimità.             La regola del possesso ininterrotto dei requisiti di partecipazione per tutta la durata della procedura di gara trova applicazione anche nell’ipotesi in cui, successivamente alla presentazione dell’offerta, sia intervenuto il contratto di affitto, con la conseguente legittimità della verifica del possesso dei requisiti generali di partecipazione anche soggettivi in capo alla affittuaria delle aziende di un RTI che ha presentato offerta in gara (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che l'affitto d'azienda, alla stessa stregua della cessione, mette l'affittuario/cessionario in condizione di potersi giovare dei requisiti e delle referenze in relazione al compendio aziendale; l'atto di cessione di azienda abilita la società subentrante, previa verifica dei contenuti effettivamente traslativi del contratto di cessione, ad utilizzare i requisiti maturati dalla cedente, atteso che sono certamente riconducibili al patrimonio della società o dell’imprenditore cessionari.  I requisiti posseduti dal soggetto cedente devono considerarsi compresi nella cessione in quanto strettamente connessi all'attività propria del ramo o dell’azienda ceduta (Cons. Stato, sez. III, 17 marzo 2017, n. 1212).  In caso di subentro di una società ad altra a seguito di affitto di azienda opera la presunzione di continuità in quanto sia pure mediante percezione del canone per la durata dell’affitto, il locatore si giova dei risultati economici dell’azienda conseguiti dalla successiva gestione e l’affittuario a sua volta si giova delle referenze del complesso aziendale acquisito (Cons. Stato, sez. V, 21 agosto 2017, n. 4045).  Come afferma Adunanza Plenaria n. 10 del 4 maggio 2012, la continuità dell’attività imprenditoriale ben può verificarsi in ipotesi di cessione di azienda o di ramo di azienda a titolo particolare, consistente nel passaggio all’avente causa dell’intero complesso dei rapporti attivi e passivi nei quali l’azienda stessa o il suo ramo si sostanzia.  Il cessionario, così come si avvale dei requisiti del cedente sul piano della partecipazione a gare pubbliche, così risente delle conseguenze sullo stesso piano delle eventuali responsabilità del cedente.  Pertanto, senza alcun dubbio, la regola del possesso ininterrotto dei requisiti di partecipazione per tutta la durata della procedura di gara trova applicazione anche nell’ipotesi in cui, successivamente alla presentazione dell’offerta, sia intervenuto il contratto di affitto. 
Contratti della Pubblica amministrazione
Covid-19 – Concorso – Prove scritte – Mancata ammissione per temperatura superiore ai 37,5 gradi – Illegittimità.             E’ illegittima l’esclusione dalla prova scritta di una selezione pubblica bandita dal Comune di Trieste di un candidato al quale è stata rilevata una temperatura superiore ai 37,5 gradi, essendo stata surrettiziamente introdotta e applicata una causa di esclusione dalla selezione pubblica che, oltre a non trovare legittimazione in alcuna disposizione di legge o altra norma di carattere sovraordinato cd. “emergenziali” (ovvero dettate per contenere il diffondersi del virus da Covid 19), non è in alcun modo prevista dalla lex specialis che disciplina la selezione stessa (1).    (1) Ha chiarito il Tar che l’esclusione dalla procedura selettiva disposta a danno del candidato non trova, in alcun modo, copertura legittimante nella lex specialis.  Ha aggiunto che la decisione assunta non può ritenersi in alcun modo giustificata nemmeno dalle cautele imposte dalla straordinarietà dell’emergenza pandemica in atto, atteso che il diritto a partecipare alla selezione di che trattasi da parte dell’interessata, in quanto funzionale alla soddisfazione del diritto al lavoro, non può essere svilito al punto da essere trattato alla stregua della momentanea interdizione ad accedere a una struttura commerciale o balneare, decretato sulla scorta dell’esito dell’estemporanea misurazione della temperatura corporea effettuata da personale non sanitario, privo di specifica formazione, posto per l’appunto a presidiarne l’ingresso. L’allontanamento dal luogo di esame e la contestuale (definitiva) esclusione dalla selezione non può, in alcun modo, essere paragonata nemmeno al diniego di accesso ai luoghi di lavoro per analoghe ragioni (ovvero laddove la temperatura corporea superiore ai 37,5° è ritenuta possibile sintomo di Covid-19 in atto), essendo intuibile che passa una abissale differenza tra il (mero) non poter svolgere la propria attività lavorativa nel luogo a ciò normalmente deputato e l’essere definitivamente deprivato della chance di ottenere un lavoro confacente alla propria formazione e preparazione. L’irreparabile pregiudizio arrecato alla sua destinataria (ovvero il sacrificio del suo diritto al lavoro), tra l’altro sulla scorta del solo esito della misurazione della temperatura corporea, non assistito, come già evidenziato, da idonee garanzie di certezza, correttezza e definitività, non trova giustificazione nel fine di massima precauzione perseguito per esigenze di tutela della salute collettiva (art. 32 Cost.) e sui luoghi di lavoro (art. 2087 cod. civ.).  E’ noto che “il principio di proporzionalità, di derivazione europea, impone all’amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato. Alla luce di tale principio, nel caso in cui l’azione amministrativa coinvolga interessi diversi, è doverosa un’adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio possibile: in questo senso, il principio in esame rileva quale elemento sintomatico della correttezza dell’esercizio del potere discrezionale in relazione all’effettivo bilanciamento degli interessi. Date tali premesse, la proporzionalità non deve essere considerata come un canone rigido ed immodificabile, ma si configura quale regola che implica la flessibilità dell’azione amministrativa ed, in ultima analisi, la rispondenza della stessa alla razionalità ed alla legalità. In definitiva, il principio di proporzionalità va inteso <nella sua accezione etimologica e dunque da riferire al senso di equità e di giustizia, che deve sempre caratterizzare la soluzione del caso concreto, non solo in sede amministrativa, ma anche in sede giurisdizionale (Cons. Stato, sez. IV, 26 febbraio 2015, n. 964). Ha infine aggiunto il Tar che l’esclusione disposta poggia unicamente su una misurazione effettuata da personale privo di specifica formazione sanitaria e meramente istruito all’utilizzo dello strumento di rilevazione (peraltro solo qualche giorno prima dello svolgimento della prova concorsuale e appena per poche ore).  In conclusione il Tar ha affermato che il Comune, in considerazione dell’assoluta prevedibilità di una situazione come quella di fatto verificatasi e per elementari esigenze di favor partecipationis, avrebbe potuto e dovuto prevedere, sin da subito, la data di una prova suppletiva, apprestando tutte le cautele e misure idonee per garantire lo svolgimento dell’intera procedura selettiva in rigoroso rispetto delle esigenze di imparzialità, trasparenza e par condicio, atteso che la modalità di svolgimento della prova scritta prevista dall’avviso di selezione (quiz a risposta multipla) è tale di per sé da assicurare la salvaguardia delle dette esigenze, a condizione, ovviamente, che i test somministrati e le schede con le risposte corrette non vengano diffusi e/o altrimenti resi noti a terzi dall’Amministrazione nelle more dello svolgimento della procedura di selezione e sino alla sua avvenuta conclusione ​​​​​​​
Covid-19
Covid-19 – Misure di contenimento del contagio – Dispositivi di protezione personale – Obbligo per gli alunni durante le lezioni – Alunno che abbia certificato problemi di difetto di ossigenazione durante l’orario di lezione – Va sospeso.              Deve essere sospeso, in via monocratica, l’obbligo di indossare il DPI per l’intera durata della giornata scolastica da parte di un minore che ha dimostrato difficoltà respiratorie connesse all’uso della mascherina (1).      (1) Ha chiarito la Sezione che le prescrizioni O.M.S. mirano alla tutela di valori costituzionalmente tutelati degli scolari più giovani, ed in particolare la salute e la capacità di pieno apprendimento oltreché di sviluppo psicosociale, assumendo così il ruolo di criteri di valutazione che ben eccedono l’ambito della azione amministrativa o della valutazione tecnico-scientifica generica, quale emerge dai successivi verbali CTS che la stessa  ordinanza considera espressione di motivazione perplessa e non esaustiva.  Ha aggiunto il decreto che, invece, per la ulteriore e generale popolazione studentesca di minori di anni 12 – a differenza della odierna appellante, che ha dimostrato positivamente le difficoltà respiratorie connesse all’uso del DPI – la sospensione ergaomnes dell’obbligo è stata rimessa, correttamente, alle competenti autorità emananti; ciò non può in alcun modo consentire agli organi responsabili la dilazione o il mero richiamo a precedenti documenti scientifici anche del CTS, occorrendo invece una nuova, urgente, motivata rilevazione specifica dell’impatto dell’uso prolungato del DPI anche alla luce dei criteri dettati dall’O.M.S. restando evidente che l’imposizione non giustificata di un dispositivo come il DPI su scolari giovanissimi presuppone l’onere per l’autorità emanante di provare scientificamente che l’utilizzo non abbia impatto nocivo sulla salute psico-fisica dei destinatari, salvo – una volta che il Giudice abbia ordinato tale nuovo accertamento, con la pronuncia del T.A.R. e il decreto odierno – il prodursi della responsabilità per il ritardo, l’omissione o comunque le conseguenze dannose prodottesi nell’eventualità, che si scongiura fortemente, di una persistente carenza di istruttoria scientifica, cui peraltro il Giudice non può sostituirsi in nessun caso.
Covid-19
Professioni e mestieri – Massofisioterapisti – Iscrizione negli elenchi speciali ad esaurimento – Presupposti – Decreto 9 agosto 2019 – Legittimità.                   E’ legittimo il decreto 9 agosto 2019 nella parte in cui ritiene necessaria, ai fini dell’iscrizione negli elenchi speciali ad esaurimento, della maturazione di un’attività lavorativa pregressa per almeno 36 mesi al 31 dicembre 2018; il comma 537 dell'art. 1, l. n. 145 del 2018, che introduce la previsione dei 36 mesi anche per i massofisioterapisti, non è incostituzionale (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che il decreto 9 agosto 2019, in attuazione dell’art. 1, comma 538, l. n. 145 del 2018, oltre a istituire 17 elenchi speciali a esaurimento, ha previsto, con una distinta disciplina contenuta nell’art. 5, una regolazione specifica per l’elenco speciale ad esaurimento dei massofisioterapisti. E’ quindi previsto che presso gli Ordini dei tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione sia istituito l'elenco speciale ad esaurimento dei massofisioterapisti il cui titolo è stato conseguito ai sensi della l. 19 maggio 1971, n. 403.  ​​​​​​​Ai fini dell’iscrizione all’elenco speciale in questione, si applicano le medesime disposizioni previste per gli altri elenchi speciali a esaurimento. Fa eccezione la disposizione in base a cui l’iscrizione all’elenco speciale dei massofisioterapisti non comporta di per sé l’equipollenza o l’equivalenza ai titoli necessari per l’esercizio delle professioni di cui all’art. 1, comma 1. E’ da presumere che la disposizione sia stata reputata necessaria per distinguere i massofisioterapisti dalle altre professioni, in quanto solo queste ultime risultano essere professioni sanitarie.  ​​​​​​​Ha chiarito il parere che la scelta discrezionale del legislatore con l’art. 1, comma 538, l. n. 145 del 2018 è stata di assicurare un assetto stabile e di porre fine a una perdurante transizione relativa alle professioni sanitarie. Con riguardo alla figura dei massofisioterapisti, il legislatore si è limitato a stabilire l’abrogazione della disposizione istitutiva risalente al 1971. ​​​​​​​E’ da ritenere che, in considerazione di superiori esigenze di tutela della salute e a fronte di realtà, professionali e formative, molto disomogenee, il legislatore – e con esso il decreto ministeriale di attuazione - abbia inteso individuare un lasso temporale di riferimento certo per l’elenco speciale a esaurimento e, insieme, superare, anche per tali figure, l’indeterminatezza del quadro giuridico, consentendo anche a questi operatori - che possano dimostrare il possesso dei requisiti richiesti - l’iscrizione agli elenchi speciali. 
Professioni e mestieri
Accesso ai documenti – Sanità pubblica - Segnalazione effettuata al Sistema di Monitoraggio degli errori sanitari presso il Ministero della Salute – Diniego opposto alla vedova di un paziente morto a seguito di intervento chirurgico – Illegittimità.       E’ illegittimo il diniego di accesso, opposto da una Azienda sanitaria alla moglie di un paziente deceduto a seguito di un intervento chirurgico, di copia della segnalazione effettuata al Sistema di Monitoraggio degli errori sanitari presso il Ministero della Salute, non potendosi disconoscere l’esistenza di un obbligo di provvedere a fronte dell’istanza del privato che abbia subito una lesione da sinistro e che abbia interesse a conoscere sulla base di quali valutazioni l’ente si sia determinato nel senso di attivare o non attivare il maccanismo di segnalazione in questione (1).       (1) La vicenda trae l’origina dall’istanza - inoltrata dalla moglie di un paziente deceduto a seguito di un intervento chirurgico, all’A.s.l. di Pescara - di copia della segnalazione effettuata al Sistema di Monitoraggio degli errori sanitari presso il Ministero della Salute. All’istanza era stato dato riscontro ostendendo la sola schermata della denuncia di sinistro priva degli allegati. ​​​​​​​La vedova ha impugnato il silenzio dinanzi al tar Pescara.    Ha preliminarmente ricordato il Tar che il d.m. 11 dicembre 2009, istitutivo del Sistema Informativo per il Monitoraggio degli errori in sanità, nell’allegato 1, distingue il contenuto informativo da trasmettere al NSIS per l’alimentazione del Sistema, in 3 Tracciati, il n.1 Scheda A riguarda gli eventi sentinella come definiti dal protocollo ministeriale ed ha ad oggetto informazioni che devono essere trasmesse al verificarsi dell’evento o al momento dell’acquisizione delle informazioni da parte degli organi preposti, il n.2 Scheda B ha ad oggetto le informazioni di dettaglio sugli eventi sentinella relativi all’analisi delle cause e dei fattori contribuenti nonché le azioni per la riduzione del rischio come definito dal Protocollo Ministeriale e vanno trasmesse entro 45 giorni dalla validazione della scheda A da parte della Regione o della Provincia autonoma competente, ed il n.3 Denunce di sinistro presentate alle strutture sanitarie ed importi erogati da inoltrare entro il 31 gennaio dell’anno successivo al periodo di riferimento. Nella specie l’istanza è stata riscontrata dall’A.sl. con la trasmissione della segnalazione della denuncia di sinistro, ritenuta dalla vedova elusiva dell’obbligo di provvedere sulla specifica richiesta di segnalazione del sinistro come “evento avverso di particolare gravità” e non come semplice sinistro la cui pratica era stata sollecitata anche ai fini risarcitori. Ha ancora ricordato il Tar che circa l’ascrivibilità di un sinistro ad evento sentinella si fa riferimento al Protocollo stilato nel Luglio del 2009 dall’Osservatorio Nazionale del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali che definisce gli eventi avversi come eventi inattesi correlati al processo assistenziale che comportano un danno al paziente, non intenzionale ed indesiderabile, che possono comportare morte o grave danno al paziente e che determinano una perdita di fiducia dei cittadini nei confronti del Servizio Sanitario Nazionale. Con le successive Linee Guida approvate dal Ministero della Salute nel giugno 2011 sono state dettate specifiche raccomandazioni per la gestione e la comunicazione degli eventi avversi in sanità. Ai sensi del Protocollo sopra richiamato il verificarsi di un solo caso è sufficiente per dare luogo ad un’indagine conoscitiva diretta ad accertare se vi abbiano contribuito fattori eliminabili o riducibili e per attuare le misure correttive da parte dell’organizzazione. Il decreto in questione contiene una lista di 16 eventi avversi, ove il 15 riguarda l’ipotesi di morte o grave danno imprevisti conseguenti ad intervento chirurgico, ed il n.16 è una categoria di tipo residuale rispetto ai precedenti e comprende ogni altro evento avverso che causi morte o grave danno al paziente. Il Tra ha quindi affermato che l’istanza proposta dalla vedova non ha ad oggetto l’attività di organizzazione interna con cui l’amministrazione si occupa della prevenzione e della gestione del rischio sanitario, c.d. risk managmenet, onde migliorare il livello e la qualità del servizio nei confronti della collettività. Ciò in quanto, a ben vedere, l’attività di gestione del rischio, attiene ad una fase necessariamente successiva a quella di individuazione dell’evento, e non preventiva, e, come si evince dal contenuto del Protocollo Ministeriale sopra richiamato, si identifica nella redazione di un Piano di Azione da redigere e trasmettere, 45 giorni dopo la segnalazione dell’evento come avverso, per descrivere “le azioni intraprese in seguito ai risultati emersi dall’indagine avviata dalla struttura ed in particolare dall’analisi delle cause e dei fattori contribuenti e/o determinanti l’evento sentinella” con l’individuazione della figura del responsabile del monitoraggio dell’azione”. In particolare, come si è innanzi anticipato, nel Protocollo per l’individuazione degli eventi sentinella, la comunicazione dell’evento avverso avviene nella Fase 1 con la Scheda A, e solo successivamente, una volta che siano state accertate le cause ed i fattori di rischio, questi saranno comunicati assieme al Piano di Azione che fa parte della Scheda B propria della Fase 2 che deve essere inviata dopo 45 giorni dalla validazione della Scheda 1 sugli eventi sentinella. La redazione del Piano di Azione propria del risk management costituisce quindi solo l’ultima fase di un processo di individuazione, verifica dell’evento, accertamento della sua connotazione di gravità, ed individuazione delle cause che scaturisce comunque dalla valutazione del singolo caso clinico e dal suo inquadramento o meno come anomalia suscettibile di legittimare l’intervento del piano contenente le misure di riduzione dell’errore e di contenimento del rischio. In sostanza, la vedova, con la propria istanza, non ha inteso sollecitare una pronuncia dell’amministrazione sull’adozione del Piano di Azione previsto dal Protocollo Ministeriale sugli eventi sentinella, rispetto al quale è indubbiamente estranea, trattandosi di un’attività pro futuro, ma ha mostrato un interesse conoscitivo rispetto alle motivazione della qualificazione o mancata qualificazione del sinistro come evento avverso, che attiene ad una fase comunque antecedente e prodromica all’attivazione del c.d. risk management che intanto può essere attivato in quanto un evento avverso sia qualificato come evento sentinella e sia considerato fattore di rischio. Non vi è dubbio che il sistema delineato dall’art. 1, commi 538 e 539, l. n. 208 del 2015, dall’art. 3 bis del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, l’art. 1, comma 539, della l. n. 208 del 2015, come modificato dall’art. 16, comma 1, della l. n. 24 del 2017, e dalla legge n. 24/2017, sia rivolto a garantire nei confronti della collettività una migliore gestione del rischio connesso agli errori sanitari, una maggiore appropriatezza delle risorse disponibili, ed una migliore tutela del paziente. Tuttavia la posizione soggettiva di parte ricorrente inerisce esclusivamente la fase di individuazione e qualificazione del sinistro, ed è del tutto estranea alla successiva fase di attivazione delle misure correttive che si estrinseca attraverso i percorsi di audit, lo studio dei processi interni e delle criticità più frequenti, l’analisi delle possibili attività finalizzate alla messa in sicurezza dei percorsi sanitari, la sensibilizzazione e formazione continua del personale, l’acquisizione dei dati da parte dell’Osservatorio presso i Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e per la sicurezza del paziente, ossia tutte quelle iniziative che sono pertinenti alla gestione del rischio ed all’individuazione delle soluzioni più appropriate che ineriscono la tutela della salute come bene della collettività. Tale sistema risponde ovviamente ad un interesse pubblico finalizzato alla prevenzione di rischi in materia sanitaria e al monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure che, certamente, si colloca nella più ampia e fondamentale cornice del diritto alla sicurezza delle cure, affermato dall’art. 1, l. n. 24 del 2017, ed è indubitabile che ad esso sia da ritenersi estranea la posizione del singolo paziente, il cui evento è l’occasione da cui scaturisce l’attivazione del meccanismo rispetto al quale il singolo non potrà in alcun modo interloquire con gli organismi preposti, in presenza di un processo di organizzazione interno all’amministrazione. Non può quindi accedersi ad un’interpretazione sulla cui base, nella materia in esame, non possa configurarsi come tutelabile la posizione soggettiva di interesse legittimo del privato che abbia subito una lesione a fronte dell’esercizio di un’attività amministrativa con cui l’Asl nell’esercizio della propria discrezionalità tecnica esprime una valutazione medica in ordine alla riconducibilità di un sinistro a gravi errori e/o anomalie nel funzionamento di un servizio o nella condotta professionale degli operatori sanitari. Appare innanzitutto riduttivo ritenere che la tutela del privato possa trovare spazio solo nell’ambito della giurisdizione ordinaria, secondo le diverse forme e modalità, previste dalla stessa l. n. 24 del 2017, ossia attraverso l’esperimento dell’azione di risarcimento del danno cagionato dall’errore medico (v., in particolare, art. 7, l. n. 24 del 2017), o tramite accesso agli atti come previsto dall’art. 4, commi 2 e 3, l. n. 24 del 2017.       Il Tar ha ancora ricordato che le linee guida del 2011 prevedono che “L’attivazione del sistema di segnalazione prevede, da parte dell’azienda, l’individuazione della tipologia di eventi da segnalare: Eventi Sentinella, Eventi Avversi e quasi eventi -Near Miss- ( anche facendo riferimento al Glossario sulla sicurezza dei pazienti del Ministero della Salute”), l’interesse del paziente è ancor più diretto e qualificato perché sorgono tutta una serie di obblighi di comunicazione, sostegno e ricerca di soluzioni stragiudiziali a carico della struttura sanitaria. L’allora Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, già con il Protocollo di Monitoraggio degli Eventi sentinella del 2009 e, poi, con le Linee guida del 2011, ha infatti voluto fornire indicazioni ai soggetti preposti allo svolgimento di quella che è solo una attività di reporting e di efficientamento organizzativo, attività alla quale il privato rimane estraneo e che non può incidere in modo, diretto e immediato, sulla sua sfera giuridica individuale. Nel Protocollo per il Monitoraggio degli Eventi Sentinella si legge, infatti, che gli eventi avversi sono eventi inattesi correlati al processo assistenziale, che comportano un danno al paziente, non intenzionale e indesiderabile, e che i sistemi di reporting di tali eventi rappresentano uno strumento indispensabile per aumentare la conoscenza delle cause e dei fattori contribuenti in base al principio «dell’imparare dall’errore». L’obbligo di comunicazione dell’evento deve avvenire, non appena accertato il fatto, quando il paziente è in grado di accogliere le informazioni dovutegli, o tempestivamente nei casi di gravissime conseguenze come inabilità o morte nei confronti dei familiari o del rappresentante legale. Sono poi dettate prescrizioni ampiamente dettagliate sulle modalità di comunicazione dell’evento avverso e sulla preparazione al colloquio, con la presenza di figure di sostegno per i pazienti fragili, e di supporto psicologico, nonché sul contenuto del colloquio che dovrà contenere tutti gli elementi informativi relativi alla situazione clinica del paziente condivisi dall’equìpe medica, con invito alla chiarezza nella descrizione dei fatti occorsi ed accertati, nonché informazioni circa l’analisi in corso e l’eventuale avvio di un’indagine di approfondimento. L’individuazione dei pazienti e dei familiari o rappresentati legali quali destinatari dell’obbligo di comunicazione dell’evento implica senza dubbio il riconoscimento in capo ai predetti soggetti di una posizione di interesse legittimo, quali parti necessarie, all’interno del procedimento che nella Fase 1 può culminare nell’ individuazione e qualificazione di un sinistro come evento avverso ascrivibile ad una delle categorie tipizzate di cui si è detto. Si tratta all’evidenza di una relazione diretta ed immediata che si viene ad instaurare tra il paziente e la Struttura sanitaria in cui viene riconosciuta ai soggetti titolari di posizioni giuridiche qualificate e differenziate la facoltà di interloquire nel momento del “farsi” del potere amministrativo attraverso un confronto ed un interrelazione, che non può restare relegata al mero rango di interesse di natura procedimentale, proprio in quanto non può sostenersi che il provvedimento finale, ossia l’ascrizione dell’evento ad errore del sistema possa costituire un esito indifferente rispetto al paziente ed inidoneo ad esplicare effetti nella sua sfera giuridica personale. A fronte dell’esercizio di un’attività discrezionale valutativa nel cui ambito l’amministrazione individua ed accerta che un evento avverso di particolare gravità che ha interessato un singolo paziente era potenzialmente evitabile ed è ascrivibile alla categoria degli errori suscettibili di innescare il complesso meccanismo di contenimento del rischio, non può ritenersi che la posizione del soggetto leso debba essere qualificata come interesse indifferenziato ed adespota stante la dimensione esclusivamente collettiva del diritto della salute, in una prospettiva non retrospettiva e riparatoria, se non nei limiti risarcitori. L’esito del procedimento di qualificazione giuridica dell’evento non può ritenersi indifferente per il paziente, la cui conoscenza può rivelarsi determinante in ordine all’esercizio della libertà di autodeterminazione sulle scelte difensive da adottare, ben potendo tale esito risultare dirimente e condizionante rispetto alla corretta strategia difensiva da prediligere, nelle opportune sedi, sia in un eventuale procedimento penale, sia nella sede civile propria del giudizio di risarcimento del danno. Proprio l’abbandono del culto della responsabilità personale e la promozione della cultura della sicurezza curativa, e quindi il passaggio dalla responsabilità individuale della singola struttura e del singolo operatore alla responsabilità del sistema, non può lasciare sguarnito di tutela il singolo che sia incorso in un evento legato al malfunzionamento del servizio sanitario pubblico e che abbia interesse a conoscere le ragioni per cui un sinistro sia stato o non sia stato qualificato come evento avverso. Viene in rilievo l’unitarietà della posizione soggettiva dell’interessato, il suo legittimo affidamento quale utente e fruitore del servizio pubblico nella corretta erogazione prestazioni sanitarie, la sua posizione di parte necessaria nel procedimento che lo vede destinatario dell’obbligo di comunicazione dell’evento “sentinella”, “avverso” o “quasi evento” ai sensi delle Linee Guida del 2011, la cui qualificazione non si può porre su un piano di indifferenza rispetto alla sfera soggettiva del privato nella parte relativa alla sua relazione con l’esercizio della discrezionalità tecnica dell’amministrazione. E’ evidente che la partecipazione del privato nell’ambito del procedimento non può essere circoscritta ad un ruolo meramente conoscitivo, senza il riconoscimento delle prerogative proprie attribuite dalla legge n. 241 del 1990 alle parti necessarie del procedimento di fornire il proprio apporto nell’adozione della determinazione finale. Nè il ruolo conoscitivo garantito dall’obbligo di comunicazione può ritenersi circoscritto al fatto e non essere altresì esteso alle ragioni logico giuridiche che hanno indotto l’amministrazione all’adozione di una determinata decisione. La Costituzione, com’è noto, assicura il diritto alla tutela giurisdizionale sia per i diritti soggettivi sia per gli interessi legittimi, e all’art. 113 Cost. ribadisce che tale tutela giurisdizionale è tendenzialmente piena ed incondizionata ed è sempre ammessa non potendo essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione. Rispetto all’esercizio delle potestà pubbliche in cui si estrinseca il servizio sanitario va riconosciuta la sussistenza di una posizione di interesse legittimo degli utenti alla corretta erogazione del servizio, e, laddove si avveri una lesione di siffatta posizione soggettiva, l’interesse ad agire va riconosciuto laddove l’accoglimento del ricorso sia in grado di far conseguire al ricorrente la reintegrazione della posizione giuridica lesa che nella specie si identifica nella conoscenza del processo valutativo sulla cui base il sinistro non è stato ritenuto ascrivibile ad alcuna delle categorie tipizzate di evento avverso. In tal caso l’interesse è personale in quanto si appunta solo in capo al soggetto che né è titolare, è diretto in quanto il suo titolare è posto in una relazione immediata con l’esercizio del potere quale parte necessaria del procedimento e portatore di un interesse differenziato e qualificato all’interno del medesimo, ed attuale in quanto costituente proiezione processuale di una situazione sostanziale che sorge in ragione dell’interesse all’adozione di un provvedimento concreto, di segno favorevole o contrario, apprezzabile come esercizio di attività amministrativa, laddove la lesione nella specie è determinata dall’omessa pronuncia da parte dell’amministrazione sulle connotazioni proprie del sinistro in cui è occorso, e l’utilità concretamente conseguibile risiede nell’adozione di un provvedimento espresso e motivato. 
Accesso ai documenti
Accesso ai documenti - Contratti della pubblica amministrazione - Offerte tecniche – Limiti.         Ai fini dell’accesso alle offerte tecniche di gara è utile, sebbene non quale pre-condizione per l’opposizione del segreto ma quale criterio di valutazione della sua meritevolezza, la formulazione della relativa dichiarazione già nel contesto dell’offerta o successivamente (1).      (1) La verifica della conformità della dichiarazione relativa alla segretezza tecnica e commerciale di parte della sua offerta tecnica, depositata da Adapta s.p.a. in data 30 agosto 2021 in riscontro all’ordinanza della Sezione n. 5620/2021, ai requisiti di specificità e adeguatezza motivazionale ivi indicati, carenti – ad avviso della Sezione - nella dichiarazione all’uopo precedentemente resa dalla medesima società. Deve altresì precisarsi che, alla luce del tenore motivazionale e dispositivo delle citate ordinanze, non viene in rilievo – né, quindi, richiede che il Collegio fornisca ad essa, in questa sede, una autonoma soluzione – la questione del rapporto (di bilanciamento) tra esigenza di riservatezza del concorrente, per quanto concerne le informazioni contenute nella relativa offerta tecnica che siano espressione della sua capacità ideativa ed organizzativa, ed interesse del richiedente l’accesso, con particolare riguardo alla sua eventuale inflessione difensiva ex art. 53, comma 6, d.lvo n. 50/2016: ciò in quanto, oltre a non aver costituito oggetto di specifiche deduzioni della parte appellante (che incentra le sue critiche nei confronti delle modalità con le quali la società controinteressata ha attuato la disclosure documentale, oscurando due paragrafi del progetto tecnico da essa presentato in gara ed un allegato dello stesso, come più analiticamente si dirà infra, essenzialmente sostenendo l’insussistenza dei presupposti di segretezza atti a legittimare la parziale opposizione ostensiva da quella avanzata),     Il potere del giudice esercitato con ordinanze istruttorie volte alla verifica della possibilità di acquisire l’offerta tecnica integrale di gara, esercitabile anche officiosamente ex art. 65, comma 3, c.p.a., è principalmente orientato a garantire la completezza istruttoria del giudizio di merito, con particolare riguardo alla acquisizione al relativo compendio probatorio dei documenti di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a., e non – se non in via meramente mediata - a soddisfare l’interesse ostensivo di una delle parti del giudizio, in funzione della difesa in giudizio degli interessi di cui essa è soggettivamente portatrice. Così delineati l’oggetto e la cornice del presente giudizio, deve osservarsi, in via ugualmente preliminare, che la verifica  relativa alla sussistenza (recte, alla “motivata e comprovata” rappresentazione da parte del titolare dei dati) di segreti “tecnici o commerciali” implica un inevitabile margine di “affidamento” alla dichiarazione della parte interessata, cui spetta in via prioritaria apprezzare la relazione tra le informazioni riservate ed il suo specifico background esperenziale e ideativo: dichiarazione che non si sottrae, comunque, al sindacato del giudice amministrativo, inteso ad accertarne l’attendibilità, anche sulla scorta delle deduzioni della parte interessata ad ottenere la più ampia disponibilità di quelle informazioni, e rafforzato dall’accesso diretto alle stesse (solo) da parte del giudice, che consente ad esso di valutarne l’effettiva riconducibilità al patrimonio tecnico e commerciale esclusivo dell’impresa cui ineriscono. Né può omettersi di osservare che il sindacato del giudice amministrativo in subiecta materia si alimenta di tutti gli elementi utili al suo giudizio, sia intrinseci alle informazioni asseritamente riservate, sia estrinseci alle stesse, come la sede in cui la parte interessata al mantenimento del segreto ha manifestato le sottostanti ragioni giustificative: sì che, da questo punto di vista, si rivela utile, sebbene non quale pre-condizione per l’opposizione del segreto ma quale criterio di valutazione della sua meritevolezza, la formulazione della relativa dichiarazione già nel contesto dell’offerta o successivamente (aspetto che, per una parte della giurisprudenza, incide invece sullo stesso an del regime di secretazione, laddove si afferma, con riferimento al tema dell’accesso, che esso “può essere escluso sempre che il concorrente, in sede di offerta, dichiari preventivamente che talune informazioni fornite nell’ambito dell'offerta costituiscono segreti tecnici e commerciali; con la conseguenza che tale indicazione, costituendo specifico onere per il concorrente che intenda mantenere riservate e sottratte all'accesso tali parti della propria offerta, non può invece rappresentare, sul piano della ragionevolezza interpretativa, un impedimento frapposto ex post dall'aggiudicatario, a tutela della posizione conseguita, nei confronti dell'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale da parte degli altri concorrenti” : cfr. Cons.Stato, sez. V, 1° luglio 2020, n. 4220). ​​​​​​​Deve infine osservarsi che, inerendo l’indagine ai limiti del potere acquisitivo del giudice (ed alle condizioni da osservare al fine di conciliare le esigenze di completezza istruttoria del giudizio, tutela del contraddittorio e parità tra le parti con la salvaguardia delle informazioni oggetto di segreto), essa deve ritenersi affrancata dagli stringenti vincoli immanenti al principio dispositivo, con la conseguente possibilità di attingere ad argomenti ed elementi non dedotti dalle parti (ed in particolare da quella interessata alla conoscenza della documentazione tecnica della aggiudicataria).   
Accesso ai documenti
Edilizia – Abusi - Acquisizione gratuita al patrimonio comunale – Presupposti – Previa notifica ordine di demolizione a tutti i proprietari - Necessità.                Se è vero che, affinché un bene immobile abusivo possa formare legittimamente oggetto dell’ulteriore sanzione costituita dall’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ai sensi dell’art. 31, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i proprietari (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa dell’irrogazione della sanzione dell’acquisizione al patrimonio comunale all’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione da parte dei proprietari che di quest’ultima non abbiano ricevuto regolare notifica, e perché, con la sanzione dell’acquisizione, si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (cioè il fabbricato e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio, deve essere notificato al proprietario inciso e, se i proprietari siano più di uno, esso deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una spoliazione solo pro quota – tuttavia, l’illegittimità del provvedimento di acquisizione per mancanza della notifica del previo ordine di demolizione può essere fatta valere solo dal comproprietario nei cui confronti l’adempimento sia stato omesso, e non anche da colui cui l’ordine di ripristino sia stato regolarmente notificato. Infatti, la mancata formale notificazione dell’ingiunzione di demolizione dell’opera edilizia abusivamente realizzata a tutti i comproprietari della stessa non costituisce vizio di legittimità dell’atto, che rimane quindi valido ed efficace, in quanto la notificazione costituisce una condizione legale di efficacia dell’ordinanza demolitoria (trattandosi di atto recettizio impositivo di obblighi ai sensi dell’art. 21 bis, l. 7 agosto 1990, n. 241), vale a dire un presupposto di operatività dell’atto nei confronti dei suoi diretti destinatari, con la conseguenza che la relativa omissione è censurabile esclusivamente dal soggetto nel cui interesse la comunicazione stessa è posta. Tanto in ragione della funzione assolta dall’istituto, consistente nell’esigenza di portare a conoscenza dell’atto il suo destinatario, onde ottenere la sua personale e soggettiva collaborazione necessaria per il conseguimento del fine. Ne consegue che alcun pregiudizio può discendere in capo a chi ha ricevuto ritualmente la notificazione dell’atto per effetto della mancata notifica del provvedimento agli altri comproprietari del bene. ​​​​​​​
Edilizia
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi - Servizio di presidio antincendio lungo tratte in esercizio delle Autostrade Siciliane – Offerta - Esperienza dell’impresa in misura preponderante e decisiva - Legittimità.       Per un appalto avente ad oggetto il “Servizio di presidio antincendio, da svolgersi lungo le tratte in esercizio delle Autostrade Siciliane A18 Messina-Catania e A20 Messina-Palermo legittimamente l’Amministrazione ha inserito tra i requisiti di valutazione dell’offerta il requisito di esperienza dell’impresa in misura preponderante e decisiva (oltre 1/3 del totale dei punti previsti), (1).    (1) Giova premettere che a fronte di un orientamento giurisprudenziale “tradizionale” teso a vietare l’inclusione, tra i criteri di valutazione delle offerte, di elementi attinenti alla capacità tecnica dell’impresa (in particolare, pregressa esperienza e certificazione di qualità) anziché alla qualità dell’offerta (alla stregua del principio ostativo alla commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e i criteri afferenti alla valutazione dell'offerta a fini di aggiudicazione), già con il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 e, quindi, con il più recente decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 si è fatta strada un’applicazione attenuata del divieto di commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e i criteri oggettivi di valutazione dell'offerta. Tale evoluzione è stata condivisa sia dal Consiglio di Stato (Comm. Spec., parere n. 1767 del 2 agosto 2016), sia pure con alcune precisazioni e limiti, e dall’ANAC (cfr. le Linee guida n. 2, recanti “Offerta economicamente più vantaggiosa”, approvate dal Consiglio dell'Autorità con delibera n. 1005, del 21 settembre 2016, aggiornate con delibera del Consiglio n. 424 del 2 maggio 2018), sempre con alcune precisazioni (Tar Catanzaro, sez. I, 22 febbraio 2021, n. 357). E’ stato evidenziato, in particolare, che il principio della netta separazione tra criteri soggettivi di prequalificazione e criteri di aggiudicazione deve essere interpretato cum grano salis nelle procedure relative ad appalti di servizi, consentendo alle stazioni appaltanti, nei casi in cui determinate caratteristiche soggettive del concorrente, in quanto direttamente riguardanti l'oggetto del contratto, possano essere valutate anche per la selezione della offerta, di prevedere nel bando anche elementi di valutazione della offerta tecnica di tipo soggettivo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 agosto 2019, n. 5808). La giurisprudenza ha messo in risalto che il dogma di una assoluta ed invalicabile incomunicabilità tra requisiti soggettivi di pre-qualificazione ed elementi oggettivi di valutazione può dirsi tramontato, nel nuovo diritto dei contratti pubblici, ma se e solo nella misura in cui la valutazione dei profili di carattere soggettivo, senza favorire indebitamente operatori economici che li posseggano a scapito di altri, serva a lumeggiare la miglior qualità tecnica, sul piano oggettivo, dell’offerta. E’ emersa, dunque, un’impostazione meno rigida dell’affermazione incondizionata del divieto, tuttavia mantenuta entro rigorosi limiti applicativi: in particolare, nel riconfermare il fondamento del divieto di commistione tra requisiti soggettivi di partecipazione e requisiti oggettivi di valutazione dell’offerta, la giurisprudenza ha specificato che ne è tuttavia consentita un’applicazione attenuata, secondo criteri di proporzionalità, ragionevolezza ed adeguatezza, quando sia dimostrato, caso per caso, che per le qualificazioni possedute il concorrente offra garanzie di qualità nell’esecuzione del contratto apprezzabili in sede di valutazione tecnica delle offerte.  Tale interpretazione rigorosa è stata giustificata: - sul piano sistematico per l’esigenza, espressa dall’art. 95, comma 1 e 2, decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, che i criteri di aggiudicazione assicurino «una concorrenza effettiva» e che siano rispettati i «principi di trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento»; le esigenze di effettiva concorrenzialità ed i principi generali enunciati impongono che la selezione avvenga per quanto possibile su basi oggettive e che i criteri di aggiudicazione non comportino vantaggi indebiti a singoli operatori economici a prescindere dai contenuti delle offerte; - sul piano letterale perché il comma 6 del medesimo art. 95 decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, allorché elenca gli elementi che possono costituire criteri valutativi, non esclude il richiamo a caratteristiche proprie e soggettive dell’impresa, purché connesse all’oggetto dell’appalto. ​​​​​​​Detto in altri termini, l’ammissibilità di aspetti attinenti al profilo soggettivo è condizionata al fatto che detti elementi non vengano apprezzati, in astratto, come requisito meramente soggettivo dell'impresa partecipante, ma costituiscano un elemento di valutazione strettamente correlato all'oggetto dell'appalto e afferente all'offerta tecnica presentata, condizionando l'esecuzione del contratto, nei termini e secondo modalità specificamente apprezzate dalla stazione appaltante e sempre che lo specifico punteggio assegnato, ai fini dell'aggiudicazione, al requisito in parola non incida in maniera rilevante sulla determinazione del punteggio complessivo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17 marzo 2020, n. 1916).
Contratti della Pubblica amministrazione
Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalti elettronici e integrati – Malfunzionamento del sistema – Presentazione delle offerte – Proroga del termine   Qualora la gara si svolga con modalità telematiche e si verifichi un malfunzionamento del sistema informatico, che renda sostanzialmente impossibile la trasmissione della domanda di partecipazione alla gara stessa, la stazione appaltante è tenuta a disporre la sospensione del termine per la ricezione delle offerte per il periodo di tempo necessario a ripristinare il normale funzionamento dei mezzi e la proroga dello stesso per una durata proporzionale alla gravità del mancato funzionamento, ai sensi dell’art. 79, comma 5-bis, del d.lgs. n. 50 del 2016.   Conformi: T.a.r. per la Lombardia, sez. II, 10 marzo 2022, n. 571; T.a.r. per la Campania, sez. VIII, 10 giugno 2021, n. 3923; Cons. Stato, sez. V, 16 marzo 2021, n. 2261; Cons. Stato, sez. III, 24 novembre 2020, n. 7352. Difformi: non risultano precedenti difformi. ​​​​​​​ Nel caso di specie, il termine per la presentazione delle offerte scadeva alle ore 18.00 del 1° agosto 2022 ed il sistema registrava un blocco dalle ore 14:45 circa alle ore 17:55; il T.a.r. per la Campania ha ritenuto che il ripristino del sistema alle ore 17:57 non fosse idoneo a consentire la partecipazione alla gara, essendo il lasso di tempo di tre minuti insufficiente per l’operatore economico, non potendosi da esso pretendere un comportamento che si mostra inesigibile, in uno spazio temporale così ristretto.
Contratti pubblici
(1) Magistrati – Magistrati onorari – Sistema di reclutamento – Art. 106 Cost. – Teoria dei contro-limiti.       La Magistratura c.d. togata e quella onoraria si distinguono, più che per la diversità delle funzioni svolte, per il diverso sistema di reclutamento, con una serie di conseguenze relative alle differenze tra i relativi rapporti che trova fondamento nell’art. 106 Cost., norma che introduce un parametro costituzionale in relazione all’esercizio di una funzione che rappresenta uno dei tre momenti in cui si sostanzia il potere dell’ordinamento democratico e che, in quanto tale, funge da contro-limite a norme convenzionali internazionali o sovranazionali.   (2) Magistrati – Magistrati onorari – Legge 234/2021 - Efficacia nel tempo   L’art. 1, comma 629, della legge n. 234/2021, nello stabilire che “I magistrati onorari in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto possono essere confermati a domanda sino al compimento del settantesimo anno di età”, rende non ipotizzabile la possibilità di accedere alla conferma dell’incarico onorario fino al compimento del settantesimo anno d’età da parte dei magistrati onorari, il cui rapporto di servizio si sia già esaurito prima dell’entrata in vigore della novella legislativa. (3) Magistrati – Magistrati onorari – Domanda di accertamento del rapporto d’impiego. Giurisdizione amministrativa   Rientra nella giurisdizione amministrativa, in considerazione della permanenza della giurisdizione esclusiva con riferimento ai rapporti di lavoro dei magistrati togati, la controversia avente ad oggetto la domanda di un vice procuratore onorario, volta ad ottenere l'accertamento di un rapporto di impiego di fatto con il Ministero della Giustizia, per lo svolgimento delle stesse funzioni giurisdizionali espletate dai Magistrati togati e per l'inserimento nell'organizzazione di un ufficio di Procura. (4) Magistrati – Magistrati onorari – Giudizi – Competenza funzionale Tar Lazio – Art. 135, comma 1, lett. a) c.p.a. – Norma eccezionale – Divieto di applicazione analogia   L’art. 135 co. 1 lett. a) c.p.a., nell’attribuire la competenza funzionale al Tar Lazio, sede di Roma, a conoscere “le controversie relative ai provvedimenti riguardanti i magistrati ordinari adottati ai sensi dell’art. 17, primo comma della legge 24 marzo 1958, n. 195”, introduce una norma di carattere speciale, derogatoria di quella generale, in quanto tale insuscettibile di applicazione, oltre la fattispecie normativa espressamente richiamata. (1,2,3,4) Il Tar Napoli ha rigettato il ricorso di un vice procuratore onorario avverso una nota con la quale il Ministero della Giustizia aveva comunicato la cessazione automatica dall’incarico di magistrato onorario, una volta raggiunto il sessantottesimo anno di età. Il ricorrente aveva avanzato anche azione di accertamento dello status di dipendente equiparabile, anche sotto il profilo previdenziale, a magistrato professionale, sino al raggiungimento dei settantacinque anni. Quanto alla competenza territoriale, l’organo adito ha rilevato che la norma di cui all’art. 135, comma 1, lett. a) c.p.a., è derogatoria del sistema di riparto generale della competenza, sicché non può applicarsi analogicamente all’infuori dei casi espressamente indicati dal legislatore (arg. ex art. 14 disp. prel. c.c.).  In particolare, la norma attribuisce alla competenza funzionale del Tar Lazio (sede di Roma) le (sole) “controversie relative ai provvedimenti riguardanti i magistrati ordinari adottati ai sensi dell’art. 17 co. 1, legge 24 marzo 1958 n. 195”. La citata legge attiene specificamente al funzionamento del CSM ed ai provvedimenti adottati, appunto dal Consiglio Superiore, nei confronti di magistrati. Il Tar ha nel merito escluso la fondatezza delle doglianze, non senza prima confermare la legittimità (sul piano euro-unitario e costituzionale) della disciplina applicabile ratione temporis atque materiae (D.lgs. 116/2017).  E’ stato evidenziato che l’art. 106 Cost. traccia uno dei principali discrimen tra la magistratura professionale (o di carriera) e quella onoraria, consistente nell’accesso, per la prima, a tempo indeterminato, alla professione tramite concorso pubblico. Sicché le differenze di trattamento si giustificano col rispetto dell’esercizio di una discrezionalità legislativa ragionevole. Inoltre, la normativa comunitaria richiamata dalla ricorrente (in specie, le direttive 1999/70/CE e 1997/81/CE) non può trovare applicazione nel caso controverso, riguardando non i funzionari onorari ma i lavoratori subordinati, e quindi due situazioni ben distinte e non omologabili sul piano disciplinare. In ultimo, il Tar ha rilevato che la sopravvenuta disposizione (richiamata dal ricorrente) di cui all’art. 1, comma 629 ss., legge 2021 n. 234 – a mente della quale “I magistrati onorari in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto possono essere confermati a domanda sino al compimento del settantesimo anno di età” – è norma che non trova applicazione nei confronti di coloro che siano già cessati, alla data di entrata in vigore della legge cit., dalla carica di VPO (la legge non dispone che per l’avvenire, essa non ha effetto retroattivo – arg. ex 11 disp. prel. c.c.). Non è infatti ipotizzabile la possibilità di accedere alla conferma dell’incarico onorario fino al compimento del settantesimo anno d’età da parte di coloro il cui rapporto di servizio si sia già esaurito prima dell’entrata in vigore della novella legislativa.
Magistrati
Militari, forze armate e di polizia – Procedimenti disciplinari – Giudicato penale – Dies a quo del termine di avvio del procedimento disciplinare – Rimessione alla Adunanza plenaria.            Vanno rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni su come vada individuato il dies a quo dell’avvio del procedimento disciplinare del militare di stato nell’ipotesi di giudicato parziale; qualora il dies a quo si riferisca al passaggio in giudicato della decisione parziale, si chiede ulteriormente se il termine vada individuato nella data in cui l’amministrazione venga a conoscenza della sentenza di merito e del ricorso per cassazione, da cui desume che alcuni capi non sono stati impugnati e dunque sono passati in giudicato; ovvero nella data in cui l’amministrazione venga a conoscenza della sentenza di merito e del dispositivo della decisione della Cassazione; o, ancora, nella data in cui l’amministrazione venga a conoscenza della sentenza di merito e della sentenza integrale della Cassazione (1).    (1) Ha chiarito il C.g.a. che la decisione sulla questione sottoposta implica la preliminare opzione ermeneutica in merito al rapporto tra l’art. 1392, d.lgs. n. 66 del 2010 e le disposizioni in tema di irrevocabilità di cui al codice di procedura penale: ove il primo vada interpretato in modo autonomo e scisso dal c.p.p. (art. 648 c.p.p., per il quale sono irrevocabili, per quanto qui rilevi, le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione; se l’impugnazione è ammessa, la sentenza è irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per proporla), risulterebbe corretta la tesi dell’Amministrazione (secondo la quale anche se su due reati si era formato il giudicato, il processo non era concluso, fino al deposito della sentenza definitiva nel giudizio di appello a seguito di rinvio dalla Cassazione), avvalorata anche dalla lettera dell’art. 1392, secondo il quale il termine decorre da quando l’amministrazione ha notizia del provvedimento irrevocabile che conclude il processo penale: il verbo utilizzato (“conclude”) sembra voler evitare una valutazione spezzettata di una complessa vicenda fattuale. Tesi che, peraltro, risulterebbe coerente con il principio della autosufficienza della disciplina contenuta nel codice dell’ordinamento militare.  Ad opposta conclusione condurrebbe una interpretazione della norma in armonia con le disposizioni processuali di cui al c.p.p.  La tesi dell’appellante, che in tal caso sarebbe fondata, sembrerebbe in linea con i principi affermati da Corte Costituzionale, 27 luglio 2000, n. 375: i termini per promuovere l'azione disciplinare - e concludere, quindi, il procedimento mirano a garantire la posizione del dipendente e, al tempo stesso, il buon andamento dell'amministrazione. L'azione disciplinare si deve iniziare tempestivamente, senza ritardi ingiustificati - o, peggio, arbitrari - rispetto al momento in cui l'amministrazione ha conoscenza della pronuncia irrevocabile di condanna: tale principio ha trovato pieno riconoscimento nella disciplina del pubblico impiego e va affermato anche con riguardo ai corpi militari.  Nell’ipotesi in cui la prima problematica venga risolta nel senso propugnato dall’appellante, viene in rilievo una seconda questione: se il termine per l’avvio del procedimento disciplinare decorra dal momento in cui l’Amministrazione entri in possesso della copia di una sentenza penale con l’annotazione di irrevocabilità (tesi della Difesa Erariale), anziché dal diverso ed anteriore momento in cui sia venuta a conoscenza della definitività della decisione penale (tesi dell’appellante).  Gli orientamenti giurisprudenziali che vengono in rilievo al fine di risolvere la questione sono diversi  Il Consiglio di Stato, sez. IV, 26 novembre 2015, n. 5367, ha affermato che, poiché la ratio della fissazione del termine decadenziale è chiaramente costituita dall’interesse dell’incolpato ad evitare che questi sia sottoposto sine die al possibile avvio di un procedimento disciplinare, essa è agevolmente realizzabile, nel caso in cui l’amministrazione ritardi nell’acquisizione della sentenza in forma integrale, attraverso la notifica della stessa da parte dell’incolpato, di modo che comunque il termine decadenziale possa cominciare a decorrere.  Tale orientamento valorizza l’esigenza di certezza del dipendente, che non può essere pregiudicato dai ritardi burocratici dell’amministrazione, a carico della quale deve quindi ritenersi sussistente un onere acceleratorio nell’acquisizione della decisione penale.  Con la decisione della sez. II, 16 agosto 2021, n. 5893 si è invece affermato che <l’articolo 1392, comma 3, del D.Lgs. n. 66/2010, laddove indica – quale dies a quo del termine per il radicamento e la definizione del procedimento disciplinare di stato – “la data in cui l’amministrazione ha avuto conoscenza integrale della sentenza o del decreto penale irrevocabili, che lo concludono”, fa evidentemente riferimento a una conoscenza giuridicamente certa, che può derivare solo dall’acquisizione di copia conforme della sentenza, completa dell’attestazione di irrevocabilità; mentre la norma stessa non individua un termine entro il quale l’Amministrazione debba provvedere all'acquisizione documentale, oltretutto dipendente dai tempi necessari alle cancellerie degli uffici giudiziari per evadere le richieste (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 1° ottobre 2019, n. 6562 e 17 luglio 2018, n. 4349).  Dal tenore della disposizione, deve quindi ritenersi che il termine d’inizio dell’azione disciplinare coincida con il momento in cui l’Amministrazione ha avuto a disposizione il testo integrale della sentenza penale, completa della parte motiva (cfr., ulteriormente, Cons. Stato, Sez. IV, 1° ottobre 2019, n. 6562, 26 febbraio 2019, n. 1344, 4 ottobre 2018, n. 5700 e 17 luglio 2018, n. 4349).  Detta decisione precisa ulteriormente che il termine per l’avvio del procedimento disciplinare decorre dal momento della percezione cognitiva del testo integrale della sentenza resa dalla Corte di Cassazione, laddove quest’ultima abbia accolto (ovvero, anche solo parzialmente accolto) o respinto (anche in parte) il ricorso innanzi ad essa proposto, ma dalla comunicazione del dispositivo ove la sentenza della Cassazione statuisca l’inammissibilità del ricorso: ciò perché l’amministrazione è tenuta ad avviare il procedimento disciplinare dal momento in cui la commissione del fatto e la sua qualificazione come reato siano divenuti incontrovertibili per effetto del formarsi del giudicato, rispetto il quale non assume rilevanza la successiva acquisizione cognitiva della motivazione della pronunzia di inammissibilità. 
Militari, forze armate e di polizia
Informativa antimafia – Presupposti – Individuazione.            Uno degli indici del tentativo di infiltrazione mafiosa nell’attività d’impresa - di per sé sufficiente a giustificare l’emanazione di una interdittiva antimafia - è identificabile nella instaurazione di rapporti commerciali o associativi tra un’impresa e una società già ritenuta esposta al rischio di influenza criminale, in ragione della valenza sintomatica attribuibile a cointeressenze economiche particolarmente pregnanti; queste, infatti, giustificano il convincimento, seppur in termini prognostici e probabilistici, che l’impresa controindicata trasmetta alla seconda il suo corredo di controindicazioni antimafia, potendosi presumere che la prima scelga come partner un soggetto già colluso o, comunque, permeabile agli interessi criminali a cui essa resta assoggettata (o che, addirittura, interpreta e persegue) (1).    (1) Ad avviso della Sezione soltanto là dove l’esame dei contatti tra le società riveli il carattere del tutto episodico, inconsistente o remoto delle relazioni d’impresa deve escludersi l’automatico trasferimento delle controindicazioni antimafia (Cons. St., sez. III, 21 gennaio 2019, n. 520)  Ha ancora ricordato la Sezione che anche dalla Corte costituzionale n. 57 del 26 marzo 2020 – di fatto confermando la giurisprudenza della Sezione – a supportare il provvedimento interdittivo sono sufficienti anche situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale. Tra queste: i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa; la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dal d.lgs. n. 159 del 2011; i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità. Vale ancora ricordare che ai fini della legittima adozione del provvedimenti interdittivo è sufficiente la contiguità soggiacente agli ambienti della criminalità organizzata, non richiedendosi necessariamente la ben più forte contiguità compiacente, essendo anche la prima insidiosa per la propria capacità pervasiva all’interno dell’economia (Cons. St., sez. III, 10 maggio 2021, n. 3654; id. 31 gennaio 2019, n. 758; id. 5 settembre 2019, n. 6105), stigmatizzando la particolare insidiosità di quest’ultima, Ha sottolineato la Sezione (31 gennaio 2019, n. 758) LINK il mutamento intervenuto nel fenomeno mafioso, che è passato dalle “tragiche stagioni di sangue degli attacchi frontali allo Stato” alla quotidiana occupazione di settori economici penetrando nell’economia legale. Il fenomeno è particolarmente evidente nel caso di contiguità compiacente, in cui si rinvengono condotte ambigue di operatori che, benché siano formalmente estranei ad associazioni mafiose, si pongono su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità nell’esercizio dell’attività imprenditoriale. 
Informativa antimafia
Autorità amministrative indipendenti - Autorità di regolazione dei trasporti - Contributo per il funzionamento – Applicabilità navi traghetto Il contributo dovuto all’Autorità di regolazione dei trasporti è applicabile a un armatore di navi RO – RO (dall’inglese Roll On Roll Off) ovvero navi traghetto passeggeri senza connessione con alcuna infrastruttura ferroviaria (1) Autorità amministrative indipendenti - Autorità di regolazione dei trasporti - Contributo per il funzionamento – Presupposto – Soggetto passivo Ai fini del contributo dovuto all’Autorità di regolazione dei trasporti: il presupposto del rapporto contributivo è rinvenibile nello svolgimento di attività economica di trasporto in uno dei mercati per cui sia stato anche soltanto avviato l’esercizio delle competenze o il compimento delle attività previste dalla legge da parte dell’Autorità, senza limitazione alcuna in ragione della tipologia di competenza o di attività in concreto rilevante; mentre il soggetto passivo inciso è l’operatore economico esercente l’attività di trasporto, senza si debba distinguere tra i gestori delle infrastrutture e dei servizi e gli operatori economici che si avvalgono di tali infrastrutture e servizi per l’attività di trasporto. In altri termini, sul piano soggettivo non vi è la possibilità di distinguere tra destinatari e beneficiari dell’attività istituzionale dell’Autorità (come avveniva sotto la vigenza della precedente disciplina), rientrando nel perimetro soggettivo dell’obbligazione contributiva anche quegli operatori che, sebbene non obbligati all’applicazione delle prescrizioni poste dall’Autorità (e, dunque, non destinatari della relativa regolamentazione), siano dalle stesse beneficiati - perché titolari di situazioni giuridiche attive azionabili nei confronti dei soggetti obbligati – trattandosi, comunque, di soggetti economici operanti in mercati interessati dall’azione istituzionale dell’odierna appellata; sul piano oggettivo, rileva non soltanto la regolamentazione, ma qualsiasi altra attività o competenza dell’Autorità, ivi compresi i poteri di vigilanza e sanzionatori. (2) Atto amministrativo – Motivazione – Motivazione per relationem Il concetto di disponibilità di cui all'art. 3, legge n. 241 del 1990, non richiede ai fini della legittimità della determinazione in concreto assunta, che l'atto amministrativo menzionato per relationem sia unito imprescindibilmente al documento o che il suo contenuto sia riportato testualmente nel corpo motivazionale, essendo sufficiente che esso sia reso disponibile per l’interessato, potendo essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai documenti amministrativi: il tempo occorrente per la relativa acquisizione, a seconda delle peculiarità del caso concreto, potrebbe, al più, valorizzarsi ai fini dell’individuazione del dies a quo dell’impugnazione, ma non risulterebbe idoneo ad incidere sulla legittimità dell’atto assunto. (3) (3) Precedenti in termini: Consiglio di Stato, sezione III, 20 marzo 2015, n. 1537
Autorità amministrative indipendenti
Enti locali – Comuni – Dichiarazione di dissesto – Creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente locale – Effetti – Nuova rimessione all’Adunanza plenaria.              È nuovamente rimessa all’Adunanza plenaria – che già aveva pronunciato sul punto con la sentenza 5 agosto 2020, n. 15 – per una rimeditazione, la questione relativa alla conclusione secondo cui la disciplina normativa sul dissesto, basata sulla creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente locale, può produrre effetti positivi soltanto se tutte le poste passive riferibili a fatti antecedenti al riequilibrio del bilancio dell’ente possono essere attratte alla predetta gestione, benché il relativo accertamento (giurisdizionale o amministrativo) sia successivo.    (1) Ha ricordato la Sezione che con la sentenza 5 agosto 2020, n. 15 l’Adunanza plenaria ha affermato il principio secondo cui sono attratti nella competenza dell’OSL (Organo Straordinario di Liquidazione) - e non rientrano quindi nella gestione ordinaria - non solo le poste passive pecuniarie già contabilizzate alla data della dichiarazione di dissesto sia sotto il profilo contabile sia sotto il profilo della competenza amministrativa, ma anche tutte le svariate obbligazioni che, pur se stricto jure sorte in seguito, costituiscano comunque la conseguenza diretta ed immediata di “atti e fatti di gestione” pregressi alla dichiarazione di dissesto.  Nella sentenza n. 43780/2004 del 24 settembre 2013, De Luca c/o Italia, la CEDU ha avuto modo di affermare che “l'avvio della procedura di dissesto finanziario a carico di un ente locale e la nomina di un organo straordinario liquidatore, nonché il successivo d.l. n. 80/2004 che impediva i pagamenti delle somme dovute fino al riequilibrio del bilancio dell'ente, non giustificano il mancato pagamento dei debiti accertati in sede giudiziaria, poiché lesive dei principi in materia di protezione della proprietà e di accesso alla giustizia riconosciuti dalla convenzione europea dei diritti dell'uomo. Ne consegue l'obbligo per lo Stato di appartenenza di pagare le somme dovute dagli enti locali nei termini e secondo le modalità prescritte dalla convenzione”.  Nel ribadire la propria giurisprudenza in materia (Hornsby c. Grecia, 19 marzo 1997, § 40, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997 II, e Bourdov c. Russia (n. 2), n. 33509/04, § 65, 15 gennaio 2009), la CEDU rammenta che il “diritto ad un tribunale”, in questo caso il diritto di adire un tribunale in materia civile, costituisce un aspetto fondamentale della tutela dei diritti: sarebbe illusorio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva ed obbligatoria restasse inefficace a scapito di una parte. L’esecuzione di una sentenza, di qualsiasi giudice, deve quindi essere considerata facente parte integrante del “processo” ai sensi dell’art. 6 della Convenzione sui diritti dell’Uomo.  A questo proposito la Corte ha osservato che, ai sensi dell’art. 248, comma 2, d.lgs. 267 del 2000, dalla data della dichiarazione di dissesto e fino all’approvazione del rendiconto, non potevano essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti del comune per i crediti che rientravano nella competenza dell’OSL. L’art. 5, comma 2, l. n. 140 del 2004 ha esteso questa regola anche ai crediti che erano stati accertati con provvedimento giurisdizionale successivo alla dichiarazione di dissesto. Il Consiglio di Stato ha applicato questa disposizione nelle sue decisioni n. 3715 del 30 luglio 2004 e n. 6438 del 21 novembre 2005.  Si doveva ritenere che il ricorrente aveva per questo subito un’ingerenza nell’esercizio del suo diritto di accesso ad un tribunale.  Si deve entrare quindi nel concetto rammentato dalla CEDU secondo cui un “credito” può costituire un “bene” ai sensi dell’art. 1 del Protocollo n. 1 se è sufficientemente accertato per essere esigibile (De Luca c. Italia n. 43780 del 24 settembre 2004; Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis c. Grecia, 9 dicembre 1994, § 59, serie A n. 301-B, e Bourdov c. Russia, n. 59498/00, § 40, CEDU 2002-III).  Nel caso di specie, la CEDU ha osservato che il ricorrente era titolare di un credito accertato, liquido ed esigibile per effetto della sentenza del tribunale civile italiano del 18 novembre 2003, che aveva condannato il Comune di Benevento a versargli un risarcimento nella misura di €. 17.604,46, al quale si aggiungevano gli interessi legali e una somma a titolo di rivalutazione monetaria. Tale sentenza era divenuta definitiva il 9 maggio 2004. In seguito alla dichiarazione di dissesto finanziario del Comune, intervenuta nel dicembre 1993, nonché all’entrata in vigore del d.lgs. n. 267 del 18 agosto 2000 e della l. n. 140 del 28 maggio 2004, il ricorrente si era trovato nell’impossibilità di intraprendere un’azione esecutiva nei confronti del Comune. Peraltro, quest’ultimo non aveva pagato il suo debito, ledendo il diritto del ricorrente al rispetto dei suoi beni, quale enunciato nella prima frase del primo paragrafo dell’art. 1 del Protocollo n. 1.  La Corte rammentava sotto il profilo dell’art. 6 § 1 della Convenzione che il “diritto ad un tribunale”, di cui il diritto di accesso – vale a dire il diritto di adire un tribunale in materia civile – costituisce un aspetto, sarebbe illusorio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva ed obbligatoria restasse inefficace a scapito di una parte. L’esecuzione di una sentenza, di qualsiasi giudice, deve quindi essere considerata facente parte integrante del “processo” ai sensi dell’art. 6 (Hornsby c. Grecia, 19 marzo 1997, § 40, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997 II, e Bourdov c. Russia (n. 2), n. 33509/04, § 65, 15 gennaio 2009).    Ha aggiunto la Sezione che se può essere opinato che il combinato disposto dell’art. 252, comma 4, d.lgs. n. 267 del 2000, nonché dell’art. 5, comma 2, d.l. n. 80 del 2004 convertito nella l. n. 140 del 2004 ha il ruolo di porre sul piede di parità i creditori e anche ciò ha un rilievo costituzionale, va anche richiamato il fatto che la CEDU ha rammentato che un credito può costituire un “bene” ai sensi dell’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea sui diritti dell’Uomo.  Nel caso all’esame della Sezione il credito, ossia il “bene”, è un credito da lavoro, dunque il frutto di uno dei cardini costituzionali, il quale gode di privilegi nelle procedure concorsuali riguardanti i privati.  Tutto quanto sopra sembra imporre, ad avviso della Sezione, un’interpretazione del combinato disposto dell’art. 252, comma 4, d.lgs. n. 267 del 2000, nonché dell’art. 5, comma 2, d.l. n. 80 del 2004, convertito nella l. n. 140 del 2004, che deve essere costituzionalmente orientata ed inoltre conforme ai principi dettati dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.  Per completezza va aggiunto che l’attuale controversia si è sviluppata tutta su un piano giurisdizionale con una interdizione all’esecuzione di un provvedimento appartenente a tale genere, mentre la fattispecie regolata dall’Adunanza plenaria si fonda essenzialmente sull’inerzia inerente la conclusione di un procedimento amministrativo, per la precisione di un’acquisizione espropriativa, senza l’emissione di pronunce giurisdizionali di tipo cognitorio. 
Enti locali
Pubblica amministrazione – Ministeri - Ministero delle infrastrutture e dei trasporti - Regolamento di organizzazione degli uffici di diretta collaborazione.    Il Consiglio di Stato ha reso il parere sul regolamento di organizzazione degli uffici di diretta collaborazione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (1).  (1) Ha chiarito il Ministero che, anche in considerazione della struttura organizzativa prevista dal nuovo regolamento di organizzazione, ha ritenuto necessario adeguare la struttura organizzativa degli Uffici di diretta collaborazione e dell'Organismo indipendente di valutazione della performance, nel rispetto di quanto stabilito dal decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e delle funzioni ad esso attribuite dalla normativa vigente. Lo schema di regolamento proposto, composto da tre capi suddivisi in 15 articoli, disciplina l’organizzazione degli Uffici di diretta collaborazione ed abroga e sostituisce il precedente regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 dicembre 2008, n. 212. 3. Lo schema di decreto è stato predisposto in attuazione di quanto previsto dall'articolo 4, comma 5, decreto legge 21 settembre 2019, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 novembre 2019, n. 132, ai sensi del quale “Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti è autorizzato, fino al 31 luglio 2020, a procedere … alla riorganizzazione dei propri uffici, ivi compresi quelli di diretta collaborazione, mediante uno o più regolamenti adottati, previo parere del Consiglio di Stato, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e con il Ministro dell'economia e delle finanze, previa delibera del Consiglio dei ministri” ​​​​​​​
Pubblica amministrazione
Ordinanza contingibile ed urgenti – Rifiuti – Rimozione – Gravità accentuata – Illegittimità          ​​​​​​​        E’ illegittima l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 54, comma 4, del T.U.E.L. adottato sul riscontro di una situazione di pericolo integrata dall’esistenza di una grande quantità di rifiuti plastici ad elevato rischio di combustibilità, abbandonati all’interno di un capannone, nel caso in cui la riscontrata urgenza e indifferibilità dell’intervento sia stata accentuata al fine di giustificare il ricorso al rimedio atipico ed eccezionale, quale modalità più lineare ed economica per tentare una risoluzione della problematica (1).    Il potere riconosciuto dall’art. 54, comma 4 del T.U.E.L. deve trovare fondamento in una situazione eccezionale di pericolo effettivo, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall’ordinamento, ciò costituendo il naturale corollario della “configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale” (Cons. St., sez. IV, 11 gennaio 2021, n.344; id., sez. V, 22 marzo 2016, n. 1189; id. 21 febbraio 2017, n. 774; id. 2 ottobre 2020, n. 5780). Nel caso di specie la situazione poteva essere fronteggiata con mezzi tipizzati, cioè quelli di cui al T.U. in materia ambientale (d.lgs. n. 152 del 2006). A tali strumenti, naturalmente preposti a risolvere questo tipo di problematica, faceva riferimento anche la nota della Regione del 15.06.2020 (all. 14 al ricorso), che invitava il Comune a procedere “ai sensi degli artt. 191 e 192 del D.Lgs 152/06”. Come affermato da Tar Campania, Napoli, sez. V, 03 febbraio 2020, n. 494, pertanto, “la sussistenza della previsione normativa di cui all'art. 192, d.lgs. n. 152/2006, che detta specifiche norme in caso di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti, esclude la possibilità, da parte delle Pubbliche Amministrazioni, di ricorrere al potere extra ordinem proprio dei provvedimenti contingibili e urgenti”. Infatti, “il potere sotteso all'adozione di un'ordinanza contingibile e urgente ha necessariamente contenuto atipico e residuale e può essere esercitato solo quando specifiche norme di settore non conferiscono il potere di emanare atti tipici per risolvere la situazione di emergenza” Nello specifico, la scelta del Comune di adottare un’ordinanza contingibile e urgente, come emerge dagli atti dell’istruttoria, appare dettata dal riscontro delle difficoltà – se non della radicale impossibilità - di accertare i più rigorosi presupposti sostanziali per le misure ambientali, fissati dagli artt. 188 e 192, d.lgs. n. 152 del 2006, con il conseguente rischio di dover sopportare direttamente, almeno in prima battuta, le ingenti spese di rimozione. È infatti lo stesso Comune a riconoscere (si veda la nota del 07.09.2020 rivolta alla prefettura e prodotta sub all. 21) le criticità riscontrate nell’applicazione dei rimedi tipizzati. In particolare, “non sussistono i presupposti per l’emanazione di un’ordinanza ai sensi dell’art. 192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006 e s.m.i., posto che l’attuale proprietario è palesemente incolpevole ed atteso che il responsabile dell’abbandono è stato chiaramente individuato nell’ordinanza sindacale dd. 26/11/1998 - prot. 52345/98, con la quale è stato altresì escluso ogni profilo di colpa anche nei confronti del precedente proprietario”; al contempo “non sono state individuate disposizioni che prevedano possibilità per il Comune di assumere provvedimenti ordinatori e sostitutivi nel caso in cui il detentore dei rifiuti non provveda secondo quanto previsto dal citato art. 188 del D.Lgs. 152/2006 e s.m.i.”.       L’elemento della detenzione del rifiuto ai sensi della normativa ambientale, di incerta consistenza e difficile riscontro, appare però del tutto irrilevante ai fini dell’emissione di un’ordinanza ex art. 54 comma 4, T.U.E.L. – la quale può essere rivolta ad un soggetto sul mero presupposto della “materiale disponibilità” di un bene (Cons. St. sez. II, 22 gennaio 2020, n. 536) – e sarebbe utile piuttosto ad individuare il soggetto tenuto alle operazioni di trattamento, ai sensi dell’art. 188 del d.lgs. 152 del 2006. Proprio l’ambiguità e la contraddittorietà intrinseca della motivazione dimostra l’evidente contaminazione tra strumenti differenti, realizzata dall’amministrazione comunale e giudicata legittima dalla Prefettura in sede di ricorso gerarchico, indice della volontà di fare ricorso al potere di ordinanza per “semplificare” la propria azione e sfuggire alle più ristrette maglie applicative del potere tipizzato, attraverso un’ordinanza “ibrida” non del tutto riconducibile né all’una e né all’altra funzione. Anche all’interno del sistema disegnato dal T.U. in materia ambientale, gli strumenti dettati in materia di gestione e trattamento dei rifiuti rispondono a presupposti e finalità differenti, che non possono essere impropriamente sovrapposti. Così Tar Milano, sez. III, 9 maggio 2020, n. 777 ha rilevato l’illegittimità di un’ordinanza di rimozione ex art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 emessa nei confronti del detentore dei rifiuti, tenuto ai diversi obblighi sanciti dall’art. 188 del medesimo decreto (“è pertanto in rapporto a tale attività di gestione e all'instaurarsi, con la presa in consegna, dell'obbligo per il ricorrente, in qualità di detentore di rifiuti, di provvedere direttamente al loro trattamento, oppure di consegnarli ad un intermediario, ad un commerciante, ad un ente o impresa che effettua le operazioni di trattamento dei rifiuti, o ad un soggetto pubblico o privato addetto alla raccolta dei rifiuti (ex art. 188 del d.lgs. n. 152 del 2006), che il Comune convenuto avrebbe dovuto (e dovrà, in relazione all'effetto conformativo della presente pronuncia),nell'ambito delle sue competenze e delle sue autonome valutazioni, rimodulare il suo intervento”). A fronte di un sistema così specificamente disciplinato, che prevede misure differenziate e parametrate a seconda del ruolo rivestito dal soggetto e del suo grado di responsabilità, è ancor più evidente l’inappropriatezza del ricorso ad uno strumento atipico e residuale, come l’ordinanza contingibile e urgente. Questa avrebbe l’effetto di assimilare fattispecie differenti e soggette a diversa disciplina, di fatto equiparando, sotto lo “schermo” di una situazione di pericolo, la posizione del ricorrente – che potrebbe al più essere qualificato “detentore” dei rifiuti – a quella dell’autore materiale delle condotte di abbandono illecito, pur sul pacifico e riconosciuto presupposto della sua estraneità materiale ai fatti. Sotto altro profilo, se pure è vero che il carattere risalente della fonte di pericolo non è di per sé ostativo all’emanazione di un’ordinanza ex art. 54, comma 4 T.U.E.L., non può non attribuirsi rilievo, quali indici rivelatori dell’eccesso di potere, alle circostanze valorizzate dalla società ricorrente, in quanto rappresentative della colpevole inerzia delle amministrazioni, protrattasi per oltre vent’anni. 12.1. La situazione che il Comune ha deciso di fronteggiare in via d’urgenza nel dicembre 2020 era infatti già nota almeno a partire dal luglio 1998, come risulta dalla nota dell’Azienda Sanitaria Isontina del 10.07.1998 (all. 13 al ricorso). Ancora, nella motivazione dell’ordinanza ex art. 14 del d.lgs. 22 del 1997 (all. 15), emessa nei confronti della società responsabile dell’abbandono dei rifiuti in data 26.11.1998, il Comune valorizza un pericolo descritto in termini del tutto corrispondenti a quello che ventidue anni dopo ha fondato l’emanazione dell’ordinanza impugnata, correlato al rischio di incendio per la facile combustibilità dei materiali e alla vicinanza di un distributore di carburante, della ferrovia e dell’ospedale. Anche tali elementi, pur non comportando l’illegittimità dell’ordinanza per diretto contrasto con la norma attributiva del potere (con conseguente infondatezza del secondo motivo di ricorso, fondato sulla violazione dell’art. 54, comma 4 del T.U.E.L.), portano a ritenere che la riscontrata urgenza e indifferibilità dell’intervento sia stata quantomeno accentuata, per non dire strumentalizzata, al fine di giustificare il ricorso al rimedio atipico ed eccezionale, quale modalità più lineare ed economica per tentare una risoluzione della problematica. 
Ordinanza contingibile ed urgente
Circolazione stradale – Patente di guida – Rilascio – Diniego – Per applicazione misure di prevenzione - Automaticità – Art. 120, comma 1, d.lgs. n. 285 del 1992 – Violazione art. 3, 4, 16 e 35 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.             È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 120, comma 1, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) per contrasto con gli artt. 3, 4, 16 e 35, nella parte in cui, nel disporre che “non possono conseguire la patente di guida coloro che sono o sono stati sottoposti alle misure di prevenzione”, attribuisce al Prefetto un potere automatico e vincolato, come risulta dal tenore letterale della disposizione e dal diritto vivente, senza consentire all’autorità amministrativa margini di esercizio della discrezionalità in relazione alle peculiarità delle singole fattispecie al suo esame (1).   (1) La Sezione ricorda che con la sentenza 27 maggio 2020 n. 99 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 120 comma 2 del Codice della Strada (come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94, e come modificato dall’art. 19, comma 2, lettere a) e b), della legge 29 luglio 2010, n. 120 e dall’art. 8, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 18 aprile 2011, n. 59), nella parte in cui dispone che il prefetto «provvede» – invece che «può provvedere» – alla revoca della patente di guida nei confronti dei soggetti che sono o sono stati sottoposti a misure di prevenzione ai sensi del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Con la predetta sentenza n. 99 del 2020 la Corte Costituzionale ha censurato in termini di irragionevolezza il meccanismo che riconnette automaticamente la revoca della patente a coloro che siano o siano stati sottoposti a misure di prevenzione, senza che sia consentito all’Amministrazione operare un bilanciamento con ulteriori elementi di valutazione che possano emergere in concreto. Posti tali principi, la Sezione ritiene che anche il comma 1 dell’art. 120 del Codice della Strada ugualmente si ponga in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui la sottoposizione a misure di prevenzione costituisca automaticamente un presupposto ostativo al rilascio della patente. Il contrasto con l’art. 3 Cost. appare evidente, sotto il profilo del principio di uguaglianza, in relazione alla diversa disciplina delineata dal secondo comma del medesimo articolo a seguito della sentenza della Corte costituzionale 27 maggio 2020, n. 99. La differenza di trattamento venutasi a determinare all’interno del medesimo articolo di legge, originariamente formulato in maniera unitaria mediante l’utilizzo della tecnica del rinvio agli elementi oggettivi della fattispecie contemplata dal primo comma per estenderne gli effetti ostativi alla diversa fattispecie delineata dal secondo comma, non appare giustificata a fronte di situazioni omogenee, connotate dal medesimo presupposto oggettivo (l’applicazione delle misure di prevenzione), e dunque partecipanti di una medesima ratio. Appare evidente la disparità di trattamento che si viene a creare a seconda che la sottoposizione alle misure di prevenzione avvenga prima o dopo il rilascio del titolo abilitativo alla guida. Sotto altro ma concorrente profilo l’esercizio del potere in sede di rilascio e in sede di revoca della patente di guida risponde alla tutela del medesimo interesse pubblico, ovvero quello della sicurezza stradale, degradando ad interesse legittimo la posizione giuridica del privato, necessariamente, sia in un caso che nell’altro. Ne consegue che anche il comma 1 deve ritenersi affetto dai medesimi vizi di incostituzionalità, laddove la norma non venga interpretata nel senso di attribuire all’Autorità pubblica non già un potere con carattere automatico e vincolato, bensì pienamente discrezionale a fronte della specifica misura di prevenzione cui nel caso concreto è sottoposto il soggetto istante, come discrezionale deve intendersi il potere esercitato in sede di revoca, per effetto dell’intervento della Corte n. 99/2020. Tale sentenza ha rilevato che le categorie dei destinatari delle misure di prevenzione sono variegate ed eterogenee, al punto che non è agevole identificarne un denominatore comune. La diversità delle fattispecie di cui al d.lgs. n. 159 del 2011, che rilevano come indice di pericolosità sociale, impone che l’Autorità pubblica, anche in sede di rilascio della patente di guida, oltre che di revoca del titolo, operi una valutazione in concreto. La circostanza che la misura di prevenzione sia intervenuta in un momento anteriore o successivo al rilascio della patente deve considerarsi un fatto neutro rispetto alla sicurezza della circolazione stradale, che rappresenta l’interesse primario tutelato dalla norma sospettata di illegittimità costituzionale. L’art. 120, comma 1, del Codice della Strada si pone altresì in contrasto con gli artt. 4, 16 e 35 Cost., in quanto, nel prevedere l’attribuzione al Prefetto di un potere vincolato ridonda in termini di sproporzionalità e irragionevolezza incidenti sulla libertà personale, sul diritto al lavoro e sulla libertà di circolazione. Con riferimento alle misure di prevenzione, condividendo quanto rilevato dal Tar Marche con l’ordinanza di rimessione 27 maggio 2019, n. 356, va aggiunto che: - “l’autorità giudiziaria che dispone l’applicazione della sorveglianza speciale di P.S. è tenuta, ai sensi dell’art. 8 del citato decreto legislativo, a stabilire le prescrizioni a cui l’interessato deve attenersi per tutto il periodo di efficacia della misura”; - “tali prescrizioni, tuttavia, non possono avere l’effetto di inibire all’interessato la possibilità di vivere una vita quanto più possibile normale (anche se vengono notevolmente limitate la libertà di spostamento e la libertà di frequentazione di altre persone) e, soprattutto, non debbono impedirgli di svolgere attività lavorativa lecita. Questo secondo profilo emerge sia dall’art. 8, comma 3, laddove si prevede addirittura che il Tribunale in determinati casi “ordini” all’interessato di darsi alla ricerca di un lavoro, sia, a livello più generale, dall’art. 67, comma 5, del D.lgs. n. 159/2011 (laddove si prevede che “Per le licenze ed autorizzazioni di polizia, ad eccezione di quelle relative alle armi, munizioni ed esplosivi, e per gli altri provvedimenti di cui al comma 1 le decadenze e i divieti previsti dal presente articolo possono essere esclusi dal giudice nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato e alla famiglia”)”. Ora, è evidente che il diniego automatico del rilascio della patente di guida in presenza della sottoposizione, presente o passata, ad una misura di prevenzione impedisce di fatto all’interessato di svolgere con maggiore agio una attività lavorativa lecita per tutto il periodo in cui egli è sottoposto alla sorveglianza speciale (il che rende la misura ancora più gravosa di quanto abbia inteso configurarla il giudice penale). A fronte di quanto sopra rilevato, di contro, il carattere discrezionale del provvedimento prefettizio, come sottolineato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 99 del 2020, evita di non contraddire l’eventuale finalità della misura di prevenzione “di inserimento del soggetto nel circuito lavorativo”, che la misura stessa si propone.
Circolazione stradale
Covid-19 – Vaccino – Odontoiatra – Omessa vaccinazione – Sospensione dal servizio – Non va sospesa.      Non va sospesa la sospensione dal servizio di un odontoiatra che non si è vaccinato, atteso che, in sede di comparazione dei contrapposti interessi, appare prevalente la tutela della salute pubblica e, in particolare, la salvaguardia delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (1).    (1) Ha premesso la Sezione che i vaccini per i quali è previsto l'obbligo oggi contestato presentano tutte le necessarie autorizzazioni rilasciate dalle preposte Autorità internazionali e nazionali; b) le verifiche scientifiche e i procedimenti amministrativi previsti per il rilascio delle dette autorizzazioni risultano conformi alla normativa e quindi tali da fornire, anche in un'ottica di rispetto del principio di precauzione, sufficienti garanzie - allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, unico possibile metro di valutazione – in ordine alla loro efficacia e sicurezza.  Ad avviso della Sezione, anche con riguardo alla ragionevolezza della misura della sospensione dall’esercizio della professione e al sotteso bilanciamento tra gli interessi coinvolti dalla presente vicenda - pur tutti costituzionalmente rilevanti e legati a diritti fondamentali - meritano conferma le considerazioni già espresse da questa sezione, dovendosi ritenere assolutamente prevalente la tutela della salute pubblica e, in particolare, la salvaguardia delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (per l’esistenza di pregresse morbilità, anche gravi, come i tumori o le cardiopatie, o per l’avanzato stato di età) bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo posti di frequente a contatto con il personale sanitario o sociosanitario. Verso costoro sussiste uno stringente vincolo di solidarietà, cardine del sistema costituzionale (art. 2 Cost.) ed immanente e consustanziale alla stessa relazione di cura e di fiducia che si instaura tra paziente e personale sanitario, che impone di scongiurare l’esito paradossale di un contagio veicolato dagli stessi soggetti chiamati alle funzioni di cura ed assistenza. ​​​​​​​
Covid-19
Risarcimento danni – Ambiente – Danno ambientale – Azione ex artt. 309 ss., d.lgs. n. 152 del 2006 – Presupposti – Individuazione.       A mezzo dell’azione prevista dagli artt. 309 ss., d.lgs. n. 152 del 2006 - che può essere attivata su impulso di regioni, province autonome, enti locali, persone fisiche o giuridiche nonché organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell'ambiente - si intende tutelare il valore “Ambiente”, che costituisce l’oggetto di uno specifico interesse pubblico rispetto a casi di danno o anche di semplice minaccia di danno ambientale; in tal caso, quindi, il bene della vita tutelato in via diretta dal Legislatore non è l’interesse particolare di un soggetto che chiede di essere risarcito per il danno cagionato alla propria sfera patrimoniale, bensì l’interesse alla tutela ambientale posto in capo al Ministero dell’ambiente che, su sollecitazione dei soggetti sopra indicati, adotta le necessarie misure di precauzione, prevenzione e contenimento del danno a seguito della apposita valutazione discrezionale che è chiamato a svolgere ai sensi del comma 3 dell’art. 309, d.lgs. cit. (1)   (1) Ha chiarito la Sezione che le disposizioni del d.lgs. n. 152 del 2006 hanno consentito allo Stato di ottenere il risarcimento del danno ambientale da parte del responsabile, ma non consentono di ritenere che lo Stato medesimo – o altre pubbliche amministrazioni – di per sé rispondano del danno cagionato ad un singolo proprietario da un illecito cagionato da un terzo: se un soggetto cagiona un danno ad un proprietario, rendendo ‘inservibile’ il fondo con una condotta che ne comporta il suo inquinamento, il proprietario danneggiato può agire solo nei confronti dell’autore della condotta illecita, mentre lo Stato è titolare della pretesa risarcitoria per la lesione arrecata all’ambiente e può agire nei confronti del medesimo autore della condotta illecita, nonché nei confronti del proprietario del fondo inquinato, qualora sussistano i relativi presupposti. E’ pur vero che i soggetti pubblici e privati sopra indicati sono legittimati ad agire ai sensi dell’art. 310 T.U. cit. secondo i principi generali, per l'annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, nonché avverso il silenzio inadempimento del Ministro dell’ambiente e per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell'attivazione, da parte del medesimo Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale, ma si tratta pur sempre di azioni volta a stimolare iniziative concrete a tutela dell’interesse generale ambientale che risulta essere stato leso e non di azioni risarcitorie a tutela di singoli beni privati. ​​​​​​​Il Ministro dell’ambiente deve farsi parte attiva nell’adottare le misure di contenimento dei danni ambientali e di messa in sicurezza (e perciò può essere compulsato a mezzo di azioni giurisdizionali a cui sono legittimati i soggetti sopra indicati, ivi comprese le associazioni di tutela ambientale), ma non è soggetto passivo dell’azione di danno. 
Risarcimento danni
Edilizia – Sanatoria – Capannone industriale realizzato in un parco – Non è sanabile.        Non è sanabile il capannone industriale realizzato in un parco (1).    (1) La Sezione ha ricordato come l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 17 del 2016, ha evidenziato che il nulla osta dell'art. 13, l. n. 394 del 1991 ha a oggetto la previa verifica di conformità dell'intervento con le disposizioni del piano per il parco (che - a norma dell'art. 12 - persegue la tutela dei valori naturali ed ambientali affidata all'Ente parco) e del regolamento del parco (che - a norma dell'art. 11 - disciplina l'esercizio delle attività consentite entro il territorio del parco). Quegli atti generali rappresentano gli strumenti essenziali e indefettibili della cura dell'interesse naturalistico e ambientale in ragione della quale è istituito il parco con il suo "speciale regime di tutela e di gestione". “Essi disciplinano in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti, le loro ubicazioni, destinazioni, modalità di esplicazione e così via, secondo un disegno organico inteso a "la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale". A differenza di una valutazione di compatibilità, la detta verifica di conformità - che solo accerta la conformità degli interventi concretamente prospettati alle figure astrattamente consentite - non comporta un giudizio tecnico-discrezionale autonomo e distinto da quello già dettagliatamente fatto e reso noto, seppure in via generale, mediante i rammentati strumenti del Piano per il parco e del Regolamento del parco. L'interpretazione dell'Adunanza Plenaria è puntuale: "Questi strumenti, dettando i parametri di riferimento per la valutazione dei vari interventi, inverano l'indispensabile e doverosa cura degli interessi naturalistico-ambientali. I limiti di cui si tratta sono del resto intesi essenzialmente alla preservazione del dato naturalistico e si esplicano per lo più in valutazioni generali di tipo negativo con l'indicazione di opere reputate comunque incompatibili con quella salvaguardia. Sicché detti strumenti assorbono in sé le valutazioni possibili e le traducono in precetti per lo più negativi (divieti o restrizioni quantitative), rispetto ai quali resta in concreto da compiere una mera verifica di conformità senza residui margini di apprezzamento. Il che è reso ontologicamente possibile dall'assenza, rispetto all'interesse naturalistico, di spazi per valutazioni di tipo qualitativo circa l'intervento immaginato: si tratta qui infatti, secondo una distinzione di base ripetutamente presente in dottrina a proposito delle varie declinazioni della tutela ambientale, di salvaguardare l'"ambiente-quantità", il che tecnicamente consente questo assorbimento, negli atti generali e pianificatori, della cura dell'interesse generale. Questi strumenti così definiscono ex ante le inaccettabilità o limiti di accettabilità delle trasformazioni che altrimenti caratterizzerebbero un congruo giudizio di compatibilità rispetto a quella salvaguardia."  Il citato art. 13 della legge quadro subordina il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti od opere al nulla-osta dell'Ente parco che ne verifica la compatibilità con la tutela dell'area naturale protetta (art. 13, comma 1).  Ma non riguarda opere in sanatoria. E ciò si spiega.  Si tratta infatti di evitare che l'antropizzazione del Parco segua una logica casuale e connotata dalla creazione di stati di fatto quale quella che connota talvolta inevitabilmente lo sviluppo urbano, una volta introdotta la regola generale di ammissibilità delle valutazioni postume (art. 36 del t.u. edilizia).  Con specifico riguardo alla natura del nulla-osta in argomento si evidenzia come esso sia, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, "atto diverso dall'autorizzazione paesaggistica agli interventi, agli impianti e alle opere da realizzare, in quanto atto endoprocedimentale prodromico rispetto al rilascio dell'autorizzazione stessa" (Corte cost., sentenza 29 dicembre 2004, n. 429) dotato di una sua autonomia essendo l'interesse naturalistico ambientale diverso da quello paesaggistico.  Infatti la valutazione paesaggistica postuma, entro certi limiti, dall'art. 167 comma 4 del Codice dei beni culturali e del paesaggio che recita: "L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:  a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;  b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;  c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380."  Nulla di analogo è prescritto per il nulla osta ad interventi nell'ambito dei parchi.  Se ne deve desumere la radicale inammissibilità dei pareri postumi dell'Ente Parco e la natura preventiva dell'autorizzazione di cui all'art. 13 della legge quadro sulle aree protette.  Il nulla-osta si inserisce, nella trama normativa della legge quadro, come punto terminale di contatto, come elemento di congiunzione tra le esigenze superiori della protezione naturalistica e le attività economiche e sociali e va letto coordinandolo con le altre previsioni di meccanismi operativo-funzionali. In un'area integralmente protetta, infatti, sono vietate tutte quelle attività che non siano espressamente consentite dal piano e dettagliatamente disciplinate nel relativo regolamento.  Ne deriva che il legislatore, stante la prioritaria esigenza di salvaguardia e tutela di valori costituzionalmente rilevanti quali l'ambiente e la natura oggetto di protezione integrale nell'ambito delimitato dal Parco, ha costruito il nulla-osta come atto necessariamente destinato a precedere il rilascio di provvedimenti abilitativi puntuali che riguardino un singolo, specifico intervento da valutarsi preventivamente… La differenza tra immobili o aree oggetto di puntuale tutela paesaggistica e le aree integralmente protette, rimesse alla tutela tramite specifici Enti Parco, e le finalità di tutela, in funzione all'antropizzazione del territorio, non consentono quindi un'applicazione della sanatoria prevista nell'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001” (Cons. Stato Sez. VI, 6 luglio 2021, n. 5152). In sostanza, pertanto, in base all'art. 13 della legge sulle aree protette, possono essere ammessi solo nulla osta preventivi. ​​​​​​​Ne deriva che, in ogni caso, il permesso di costruire in sanatoria non avrebbe potuto essere rilasciato e il provvedimento di diniego si presentava con un atto vincolato. 
Edilizia
Atto amministrativo – Atto presupposto - Rapporto con atto conseguenziale –– Individuazione.  ​​​​​​​     L’illegittimità ed il conseguente annullamento dell’atto presupposto determinano l’illegittimità di quello conseguente, venendo meno la situazione giuridica che costituisce la condizione unica e necessaria per la sua legittima esistenza (cd. invalidità derivata); l’annullamento del provvedimento presupposto si ripercuote su quello presupponente, che è travolto e caducato (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che la nozione di atto presupposto è fondata, in relazione ad atti di un unico procedimento o anche ad atti autonomi, sull’esistenza di un collegamento fra gli atti stessi, così stretto nel contenuto e negli effetti, da far ritenere che l’atto successivo sia emanazione diretta e necessaria di quello precedente, così che il primo è in concreto tanto condizionato dal secondo nella statuizione e nelle conseguenze da non potersene discostare (Cons. Stato, sez. IV, 23 marzo 2000, n. 1561; id., sez. V, 15 ottobre 1986, n. 544). La dottrina, dal canto suo, ha osservato come la connessione di più provvedimenti amministrativi per presupposizione postuli un aspetto strutturale ed uno funzionale. Sotto l’aspetto strutturale, gli atti sono in una relazione di successione giuridica e cronologica, o di necessario concatenamento; l’atto presupposto non soltanto precede e prepara quello presupponente, ma ne è il sostegno esclusivo. Gli effetti del provvedimento pregiudiziale sono i fatti costitutivi del secondo, o meglio del relativo potere; vi è una consequenzialità necessaria tra i due provvedimenti, tale che l’esistenza e la validità di quello presupposto sono condizioni indispensabili affinché l’altro possa legittimamente esistere e produrre la propria efficacia giuridica. Sotto l’aspetto funzionale, poi, i più atti risultano preordinati alla realizzazione di un unico rapporto amministrativo, riguardano, cioè, un unico bene della vita; ciascun atto spiega da solo taluni effetti giuridici, ma soltanto congiuntamente all’altro dà vita al rapporto giuridico, che rappresenta l’oggetto dell’interesse pubblico considerato dai più poteri funzionalmente collegati. Da quanto detto emerge che, sul piano della disciplina, l’illegittimità ed il conseguente annullamento dell’atto presupposto determinano l’illegittimità di quello conseguente, venendo meno la situazione giuridica che costituisce la condizione unica e necessaria per la sua legittima esistenza (cd. invalidità derivata): l’annullamento del provvedimento presupposto si ripercuote su quello presupponente, che è travolto e caducato. Ed invero, l’atto presupposto è fondamento esclusivo di quello applicativo, nel senso che l’esistenza e la validità del primo sono condizioni necessarie affinché il secondo possa legittimamente venire ad esistenza; non è possibile che l’atto presupposto non esista o, qualora emanato, sia successivamente eliminato (dal giudice o dalla P.A. in via di autotutela) e che rimanga legittimamente in vita quello dipendente. Infatti, essendo gli atti concatenati, le sorti dell’atto presupposto si ripercuotono inevitabilmente su quelle dell’atto presupponente: gli effetti sostanziali prodotti da quest’ultimo postulano l’avvenuta realizzazione di quelli prodotti dall’atto presupposto, di tal ché, se questi, a seguito dell’annullamento dell’atto presupposto, sono stati rimossi con efficacia retroattiva, il rapporto amministrativo originato dall’atto dipendente non può sussistere. 
Atto amministrativo
Covid-19 – Accesso ai documenti – Dati forniti dalla Protezione civile – Dati incompleti – Non vanno sospesi.             Non può essere accolta l’istanza, presentata dal Codacons, di sospensione delle schede, pubblicate sul sito ufficiale del Dipartimento della Protezione Civile “COVID-19 Italia – Monitoraggio della situazione”, nella parte in cui non riportano i dati relativi ai deceduti di Covid-19 a casa e in terapia intensiva in ospedale, nonché ai posti realmente disponibili in terapia intensiva e presso quali strutture sul territorio nazionale, e la possibilità concreta di trasferimento attraverso la cosiddetta la Cross – Centrale remota per le operazioni di soccorso, non avendo dette schede né la forma né soprattutto la sostanza del provvedimento amministrativo (1).   (1) Ha chiarito il decreto che le ordinanze di protezione civile, sindacabili dinanzi al giudice amministrativo, sono ben altro dai dati dalla stessa forniti; ed infatti non necessariamente ogni atto, quali appunto le dette schede, sol perché in qualche modo collegato alle ordinanze di protezione civile ne mutua la sostanza e il regime giuridico. Pertanto, in sé considerati, comunicati e conferenze stampa sono gli atti con cui si estrinseca l’attività informativa del Dipartimento della protezione civile e che detta attività informativa non ha né può avere alcuna valenza provvedimentale, dovendosi per l’effetto affermare con la dovuta chiarezza, proprio per la delicatezza dei dati di che trattasi e delle questioni implicate e della meritevolezza dell’intento perseguito dal ricorrente, che non appare convincente, nella presente sede di sommaria delibazione, la tesi per cui detti atti (comunicati, conferenze stampe, schede riassuntive) sono direttamente impugnabili per violazione dell’art. 21 octies, l. n. 241 del 1990, il che nulla leva, che la trasparenza rimane ovviamente valore centrale anche con riguardo al tema comunicazione, da parte delle autorità competenti, di dati e informazioni relative alla emergenza sanitaria in atto, che infatti appaiono di indubbia rilevanza e di inequivoco interesse pubblico.
Covid-19
Giurisdizione – Risarcimento danni -Rimozione di rifiuti abbandonati sua area di proprietà comunale – Omesso ordine da parte del Comune - Giurisdizione del giudice amministrativo       È devoluta alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo la controversia introdotta dal privato al fine di ottenere il risarcimento del danno causato dall’omessa adozione da parte del Comune di un provvedimento di rimozione di rifiuti abbandonati sua area di proprietà comunale, sulla quale il ricorrente debba procedere a interventi di riparazione di una condotta idrica dallo stesso gestita, trattandosi di responsabilità conseguente all’omesso esercizio, da parte della pubblica amministrazione, di un potere autoritativo discrezionale (nella specie quello di cui all’art. 192, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), ai sensi dell’art. 7 c.p.a., rispetto al quale la posizione soggettiva vantata dal privato non assume la natura di diritto soggettivo, ma quella di interesse legittimo pretensivo (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che non sussiste nell’ordinamento giuridico un’obbligazione a carico di un soggetto che nasca dall’iniziativa autonoma di altro soggetto, come se l’unilaterale scelta di svolgere un lavoro ne faccia automaticamente ricadere il peso economico su altri.  Conseguentemente, l’azione risarcitoria esperita in prime cure attiene chiaramente non già a un rapporto obbligatorio tra ricorrente e Comune, bensì ad una asserita responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., riconducibile al mancato esercizio di un doveroso potere amministrativo. ​​​​​​​
Giurisdizione
Covid-19 - Sardegna – Ordinanza Sindaco di Cagliari - Chiusura di distributori automatici cosiddetti h24 di bevande e alimenti confezionati – Va sospesa.             Deve essere sospesa  l’ordinanza del Sindaco del Comune di Cagliari n. 21 del 3 aprile 2020 nella parte in cui ordina che siano “chiusi i distributori automatici cosiddetti h24 che distribuiscono bevande e alimenti confezionati compresi quelli posti nelle aree di servizio e di rifornimento carburante e con eccezione di quelli ubicati all’interno delle strutture pubbliche e private, purché abbiano esclusivo accesso dalla struttura ospitante e non siano dotate di ingressi autonomi e diretti sulla pubblica via”; ed invero, da un lato l’attività di cui è titolare il ricorrente rientra tra quelle di vendita di generi alimentari, seppure in forma automatica, che la stessa ordinanza fa salve; dall’altro lato, dall’esecuzione dell’ordinanza deriva, infatti, al ricorrente un danno irreparabile perchè dall’attività di cui è causa trae l’unica fonte di sostentamento per sè e per la propria famiglia (1).   (1) Ha chiarito il decreto che nell’attuale contesto di emergenza sanitaria l’ordinanza sindacale impugnata persegua, coerentemente con la normativa statale e regionale, la finalità di garantire l’attuazione delle misure di distanziamento sociale dettate dal Governo tra le quali è ricompresa anche quella di limitare gli spostamenti che non siano dovuti a imprescindibili esigenze di salute, lavorative o di assoluta urgenza. Ha aggiunto che il punto 5 dell’ordinanza sindacale in questione prevede, fra l’altro, che “Sono sospese le attività commerciali al dettaglio, fatta eccezione per le attività di vendita di generi alimentari e di prima necessità di cui al DPCM 11 marzo 2020…tutti gli esercizi di vendita di generi alimentari, market e minimarket dovranno uniformarsi alla chiusura serale non oltre le ore 21.00…”. L’attività del ricorrente può sostanzialmente ricondursi alla categoria della rivendita di generi alimentari, seppur con modalità in automatico, che, come si detto, è stata espressamente fatta salva dal DPCM 11 marzo 2020. L’esigenza di un raccordo interpretativo tra la menzionata normativa statale e l’ordinanza sindacale impugnata, in termini coerenti con la finalità di limitare al massimo le occasioni di spostamento della cittadinanza, può far ritenere che l’ordine di chiusura dei distributori automatici “h24” debba trovare applicazione negli stessi limiti temporali dettati dalla disciplina di apertura delle rivendite alimentari (chiusura non oltre le ore 21.00 e apertura nei soli giorni feriali), restando dunque preclusa l’apertura e il conseguente accesso al pubblico soltanto dalle ore 21.00 alle ore 08,00 della mattina successiva (oltre che, come detto, nei giorni festivi).
Covid-19
Covid-19 – Lazio – Comune di Ladispoli – Ordinanza sindacale 28 maggio 2020 - Limitazione degli orari di apertura degli esercizi di vicinato cosiddetti “minimarket etnici” e divieto vendita da asporto - Sospensione monocratica – Esclusione. Deve essere respinta, per mancanza del requisito dell’estrema gravità e urgenza, l’istanza di sospensione, in via monocratica, dell’ordinanza del 28 maggio 2020 emessa dal Sindaco di Ladispoli, recante “Misure per la prevenzione dell'emergenza epidemiologica da COVID 19, per il contrasto del degrado urbano e per la tutela della sicurezza e dell'incolumità pubblica. Limitazione degli orari di apertura degli esercizi di vicinato cosiddetti “minimarket etnici”- Divieto e limitazione di vendita da asporto di bevande in contenitori di vetro e di consumo di bevande alcoliche nelle aree pubbliche” atteso che il tempo trascorso tra l’adozione dell’ordinanza e l’istanza di tutela priva la mancanza di un danno irreparabile che non consente di attendere la disamina collegiale.
Covid-19
Processo amministrativo – Giudizio cautelare – Istanza di misure cautelari monocratiche – Mancanza di domanda di misura cautelare collegiale - Inammissibilità        E’ inammissibile la richiesta di adozione di misure cautelari monocratiche se non è stata presentata anche una domanda di misura cautelare collegiale perché nessuna disposizione del codice del processo amministrativo contempla e consente la richiesta in via autonoma delle sole misure cautelari monocratiche in corso di causa, senza la contestuale domanda principale di misure cautelari collegiali (1).  ​​​​​​​(1) Ha chiarito il decreto che la richiesta di misure cautelari monocratiche in corso di causa è sempre e solo accessoria a una domanda principale di misure cautelari collegiali (art. 56, comma 1, c.p.a.); nella specie non vi è una domanda di misure cautelari collegiali corredata da una domanda accessoria di misure monocratiche, ma la sola domanda di misure monocratiche autonome; posto che le misure cautelari presidenziali sono interinali e devono essere vagliate dal collegio, a cui la domanda cautelare va rimessa, non essendoci una domanda di parte di misure cautelari collegiali, l’organo monocratico da un lato non può, pena la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, rimettere le parti al collegio in difetto di una domanda di parte in tal senso e dall’altro lato non può adottare misure cautelari autonome.
Processo amministrativo
Agricoltura – Quote latte – Dati forniti dai produttivi – Veridicità - Onere della prova. Processo amministrativo - Ricorso collettivo e cumulativo - Ricorso collettivo - Quote latte – Prescrizione dei crediti – Inammissibilità.    ​​​​​​​                In materia di quote latte, in assenza di prove certe e dell'individuazione dei soggetti che hanno reso false dichiarazioni o dei pubblici ufficiali che hanno alterato i dati sul patrimonio bovino per farli "quadrare" con quelli stimati della produzione lattiera, non è possibile annullare le operazioni di stima e gli accertamenti consecutivi svolti; ed infatti, le indagini, finanche governative, scaturite dai dubbi di legittimità del meccanismo (riguardanti l’attendibilità dei dati utilizzati nel tempo dall’AIMA e poi dall’AGEA) non sono in grado di scardinare l'intero sistema nazionale delle c.d. quote latte, né sono sufficienti per far ritenere assolto in capo ai produttori l’onere probatorio al punto da spostare sull'amministrazione l’obbligo di provare la bontà e la stessa veridicità dei dati utilizzati (1).              In materia di quote latte, è inammissibile il ricorso collettivo proposto da alcuni produttori per dedurre l’estinzione dei crediti per prescrizione ovvero per compensazione (2).    (1) Cons. Stato, sez. III, 20 maggio 2019, n. 3202. Ad avviso della Sezione ciò accade, a maggior ragione laddove le richiamate affermazioni non si traducano nemmeno in un principio di prova del concreto impatto delle ridette indagini sulla attribuzione delle QRI e sulla conseguente determinazione del prelievo supplementare dovuto dalla singola azienda, la cui contestata entità, oltre tutto, è estranea al petitum dell’odierna controversia” (Cons. Stato, sez. III, 2 novembre 2019, n. 7481).   (2) Cons. St., Ad. Plen, n. 1 del 2018. Ha ricordato la Sezione che nel processo amministrativo impugnatorio la regola generale è che il ricorso abbia ad oggetto un solo provvedimento e che i vizi - motivi si correlino strettamente a quest'ultimo, salvo che tra gli atti impugnati esista una connessione procedimentale o funzionale (da accertarsi in modo rigoroso onde evitare la confusione di controversie con conseguente aggravio dei tempi del processo, ovvero l'abuso dello strumento processuale per eludere le disposizioni fiscali in materia di contributo unificato), tale da giustificare la proposizione di un ricorso cumulativo (Cons. Stato, sez. III, 15 luglio 2019, n.4926; id., A.P., 27 aprile 2015, n. 5; id., sez. IV, 26 agosto 2014, n. 4277; id., sez. V, 27 gennaio 2014, n. 398; id. 14 dicembre 2011, n. 6537). Nel processo amministrativo, quindi, il ricorso cumulativo, pur non essendo precluso in astratto ha, comunque, carattere eccezionale, che si giustifica se ricorre una connessione oggettiva tra gli atti impugnati, in quanto riferibili ad una stessa ed unica sequenza procedimentale o iscrivibili all'interno della medesima azione amministrativa (Cons. Stato, sez. VI, 16 aprile 2019, n. 2481; id., sez. III, 7 dicembre 2015, n. 5547; id., sez. IV, 18 marzo 2010, n. 1617; id. 21 settembre 2020, n. 5514; id., sez. III, 3 luglio 2019, n. 4569; id. 23 ottobre 2013, n. 5141). Analogamente, affinché i ricorsi collettivi siano ammissibili nel processo amministrativo, occorre che vi sia identità di situazioni sostanziali e processuali; è, in particolare, necessario che le domande giudiziali siano identiche nell'oggetto, ossia afferiscano ai medesimi atti e rechino le medesime censure; le posizioni sostanziali e processuali dei ricorrenti siano del tutto omogenee e sovrapponibili; i ricorrenti non versino in condizioni di neppure potenziale contrasto (Consiglio di Stato , sez. IV , 18 marzo 2021, n. 2341; per un’applicazione in materia di quote latte cfr. Cons.St., sez. II, 7 maggio 2008, n. 5726). Le posizioni azionate afferiscono, invece, alla prescrizione del credito ovvero a ipotetiche compensazioni che necessariamente devono essere declinati individualmente e, dunque, riferirsi ai singoli e distinti rapporti obbligatori che legano ciascuno dei ricorrenti (produttori di latte) all’Amministrazione siccome inevitabilmente contraddistinti, quanto a genesi e gestione del rapporto, a presupposti del tutto autonomi. D’altro canto, la divisata sanzione s’impone anche sotto distinto profilo e cioè per il fatto che l’appellante si è limitato a riproporre le censure articolate in prime cure senza, però, corredarle di un doveroso vaglio critico delle argomentazioni su cui riposa la decisione di primo grado che, pertanto, mantengono la loro perdurante e attuale validità, non essendo state giustappunto superate dal mezzo in epigrafe.
Agricoltura
Contratti della Pubblica amministrazione - Qualificazione - Qualifica nella sola categoria prevalente - Art. 92, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010 – Estensione alle categorie a qualificazione obbligatoria – Esclusione.    Contratti della Pubblica amministrazione – Qualificazione – Nella sola categoria prevalente - Art. 12, comma 2, d.l. n. 47 del 2014 – Divieto di eseguire le lavorazioni riconducibili alla categoria OS34    Contratti della Pubblica amministrazione – Qualificazione – Categoria prevalente – Mancanza – Conseguenza         La regola contenuta nell’art. 92, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010 - secondo cui è sufficiente la qualifica nella sola categoria prevalente, ove capiente per l’importo totale dei lavori, per colmare il deficit di qualificazione nelle categorie scorporabili - non può applicarsi alle categorie a qualificazione obbligatoria, ostandovi l’esigenza, avvertita dal legislatore con la previsione di tali categorie, di garantire il possesso di un livello minimo di qualificazione tecnica, ai fini della partecipazione alla gara e della conseguente esecuzione dei lavori.               L’art. 12, comma 2, d.l. n. 47 del 2014, nel porre un divieto all’operatore in possesso della qualificazione nella sola categoria prevalente di eseguire le lavorazioni riconducibili alla categoria OS34 “se privo delle relative adeguate qualificazioni” (lett. b), chiarisce che la qualifica nella sola categoria prevalente, anche se capiente per l’importo totale dei lavori, non consente di colmare il deficit di qualificazione nella categoria a qualificazione obbligatoria; la previsione di cui alla lett. b) del citato art. 12, comma 2, secondo cui il mancato possesso della qualificazione obbligatoria può essere sostituito dal ricorso al subappalto, rende evidente che tale istituto viene in rilievo in sede di partecipazione alla gara in quanto "sostitutivo" del requisito di qualificazione mancante (1).
Contratti della Pubblica amministrazione
Contratti della Pubblica amministrazione - Esclusione dalla gara – Omessa dichiarazione che il presidente del consiglio di amministrazione è stato anche presidente del consiglio di amministrazione di due società dichiarate fallite - Non comporta l’esclusione.       In mancanza di espressa previsione della lex specialis, non comporta l’esclusione dalla gara pubblica l’omessa dichiarazione, da parte del concorrente, che il presidente del consiglio di amministrazione, consigliere delegato e legale rappresentante è stato anche presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante di due società dichiarate fallite  (1)   (1) Ha chiarito la Sezione che non è configurabile, in relazione alla circostanza del fallimento delle società terze, la causa escludente costituita dell’asserita presentazione di documentazione o dichiarazioni non veritiere (nel senso chiarito dalla citata pronuncia n. 16 del 2020 dell’Adunanza Plenaria), con la conseguente mancata integrazione della fattispecie di cui all’art. 80, commi 5, lett.  f-bis), e 6, d.lgs. n. 50 del 2016.   A ciò si aggiunga che, in applicazione dei principi di parità di trattamento, di trasparenza e di proporzionalità, nonché del principio del rispetto dei diritti della difesa, le cause facoltative di esclusione, quali quelle delineate nelle lettere c) e c-bis) del comma 5 dell’art. 80 – il quale in parte qua recepisce le previsioni di cui all’art. 57, comma 4, della direttiva 2014/24/UE –, possono venire in rilievo soltanto alla condizione che gli operatori economici siano stati apertamente informati in via preventiva, in maniera chiara, precisa e univoca, dell’esistenza di siffatte cause escludenti e dei correlativi obblighi dichiarativi, vuoi che tale informazione risulti direttamente dai documenti di gara, vuoi che essa risulti da un rinvio, in tali documenti, alla normativa legislativa pertinente (v. sul punto ex plurimis, da ultimo, Corte Giust. UE 14 gennaio 2021, causa C-387/19), mentre, nel caso di specie, la lex specialis non contiene previsione alcuna in ordine alla presunta causa di esclusione invocata dall’originaria ricorrente.  ​​​​​​​Ha ancora chiarito la Sezione che, alla luce delle ipotesi indicate a titolo esemplificativo nelle linee-guida n. 6/2016 e ss.mm.ii. emanate in materia dall’ANAC ai sensi del comma 13 del citato art. 80 con riguardo alle previsioni di cui alle citate lettere c) e c-bis), non è possibile interpretare il consolidato orientamento del Consiglio di Stato quali norme di chiusura in grado di comprendere tutti i fatti anche non predeterminabili ex ante, ma in concreto comunque incidenti in modo negativo sull’integrità e affidabilità dell’operatore economico (v. Ad. Plen. n. 16 del 2020, § 13.) – è ravvisabile una situazione che in modo manifesto ed evidente sia idonea ad incidere sulla moralità ed affidabilità dell’operatore economico, della quale quest’ultimo avrebbe dovuto ritenersi consapevole e rispetto alla quale non fosse configurabile un’esclusione ‘a sorpresa’ a carico dello stesso, attesa la non significatività, in tale contesto valutativo, della semplice circostanza di rivestire la qualifica di amministratore, legale rappresentante e/o socio di una società di capitali dichiarata fallita, terza ed estranea alla procedura di evidenza pubblica, in assenza dell’estensione del fallimento ai soci e dell’avvio di procedimenti penali o lato sensu sanzionatori o di azioni di responsabilità nei confronti dell’amministratore per condotte in eventu qualificabili come illeciti professionali incidenti in modo univoco in senso pregiudizievole sull’affidabilità dell’operatore partecipante alla gara. 
Contratti della Pubblica amministrazione
Covid-19 – Vaccino - Infermieri – Obbligo – Mancata vaccinazione – Sospensione dal servizio – Mancanza di atto formale di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte della competente Azienda sanitaria – Irrilevanza ex se            Non deve essere sospesa la delibera del Consiglio Direttivo dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche che ha sospeso dall’Albo degli infermieri un infermiere che si è sottratto dall’obbligo vaccinale senza accampare un elemento ostativo alla vaccinazione ma la mancanza di un atto formale di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte della competente Azienda Sanitaria e l’impossibilità, da parte dell’Ordine professionale, di surrogarsi a detta azienda nel compito di accertare un fatto (la mancata sottoposizione a vaccinazione) le cui conseguenze sono vincolativamente determinate dal legislatore (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che non sussiste per il ricorrente il pericolo di un danno grave e irreparabile: egli, infatti, potrà agevolmente rimuovere gli effetti negativi dell’atto impugnato sottoponendosi alla vaccinazione anti Covid-19, così adempiendo a un preciso obbligo derivante dalla legge e, ancor prima (cfr. Cons. Stato, Sez. III, decr. 1 dicembre 2021, n. 6401), dal giuramento professionale (cfr. anche Tribunale di Catanzaro, ord. 19 dicembre 2021), che parla di “una sorta di condizione risolutiva potestativa” (...) “il cui accadimento rientra nella disponibilità del lavoratore il quale in qualunque momento, con un comportamento volontario – che, anzi, sarebbe doveroso atteso lo specifico obbligo vigente a suo carico – può far cessare gli effetti della sua sospensione dal lavoro e dalla conseguente retribuzione”).  Ha aggiunto  che nel bilanciamento tra gli interessi in gioco, quello del ricorrente all’esercizio dell’attività sanitaria e alla correlativa percezione della remunerazione in violazione dell’obbligo vaccinale è destinato a soccombere a fronte delle pressanti esigenze di tutela della salute pubblica e, soprattutto della salute di chi si rivolga al personale sanitario.  Ha quindi richiamato la giurisprudenza secondo cui “il diritto soggettivo individuale al lavoro ed alla conseguente retribuzione è sì meritevole di protezione, ma solo fino all’estremo limite in cui la sua tutela non sia suscettibile di arrecare un pregiudizio all’interesse generale (nella specie, la salute pubblica), di fronte al quale è destinato inesorabilmente a soccombere, sicché, ove il singolo intenda consapevolmente tenere comportamenti potenzialmente dannosi per la collettività, violando una disposizione di legge che quell’interesse miri specificamente a proteggere, deve sopportarne le inevitabili conseguenze” (Tribunale di Catanzaro, ord. 19 dicembre 2021). 
Covid-19
Processo amministrativo – Competenza - ​​ Criterio dell’efficacia – Ratio - Rimessione all’Adunanza plenaria.    Processo amministrativo – Competenza – Cittadinanza italiana – Istanza – Declaratoria di inammissibilità – Tar competente – Rimessione all’Adunanza plenaria.             E’ rimessa all’Adunanza plenaria la questione se la ratio sottesa al c.d. criterio dell’efficacia, previsto dall’art. 13, comma 1, secondo periodo, c.p.a., sia solo quella di temperare il c.d. criterio della sede e, cioè, finalizzata a radicare, secondo un più generale principio di prossimità, che presiede ad entrambi i criteri, e secondo una logica di decentramento, la competenza territoriale del Tribunale “periferico” in ordine ad atti emanati da amministrazioni aventi sede in una circoscrizione di un Tribunale, ma esplicanti effetti diretti limitati alla circoscrizione territoriale di un altro Tribunale, o se interpretato e contrario esso, secondo una logica di accentramento, per converso determini anche un ampliamento, rispetto a quanto prevede l’art. 13, comma 3, c.p.a., della competenza territoriale del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, quando l’atto sia adottato da un organo periferico dello Stato o da un amministrazione non statale, ma esplichi effetti diretti lesivi ultraregionali, non limitati o comunque non agevolmente circoscrivibili all’ambito territoriale esclusivo di una sola Regione (1).             E’ rimessa all’Adunanza plenaria la questione  se il decreto di inammissibilità dell’istanza finalizzata ad ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana, adottato dalla Prefettura, abbia effetti diretti limitati al solo ambito territoriale in cui ha sede la Prefettura o se esso invece, in quanto idoneo a interrompere il procedimento per la concessione della cittadinanza nonché ad incidere sullo status dell’interessato, esplichi gli stessi o analoghi effetti erga omnes e territorialmente illimitati che ha un decreto di rigetto della medesima istanza emesso in via centrale dal Ministero dell’Interno, e tanto al fine di determinare definitivamente, come prescrive l’art. 16, comma 3, c.p.a., se, ai sensi dell’art. 13 c.p.a., sia competente a conoscere del ricorso il Tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede la Prefettura, che ha emesso il decreto di inammissibilità, o invece il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma (2).    (1)  Ha ricordato la Sezione che l’art. 13, comma 1, c.p.a. definisce quale criterio di competenza territoriale primario, inderogabile, quello della sede la pubblica amministrazione emanante (c.d. criterio della sede), con la conseguenza che gli atti da questa adottati devono essere giudicati dal Tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede la stessa pubblica amministrazione, aggiungendo, altresì, che è inderogabilmente competente a conoscere delle controversie riguardanti atti o comportamenti «i cui effetti diretti sono limitati all’ambito territoriale della regione in cui il tribunale ha sede» (c.d. criterio dell’efficacia) il Tribunale nella cui circoscrizione territoriale si sono esclusivamente prodotti detti effetti, anche se l’autorità emanante abbia sede in altra Regione.  Il criterio dell’efficacia ha carattere meramente correttivo o, se si preferisce, suppletivo rispetto a quello ordinario e principale della sede e radica la competenza del Tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione l’atto esplica i propri effetti diretti lesivi solo quando l’autorità emanante abbia sede nella circoscrizione territoriale di un Tribunale amministrativo regionale diverso.  Il criterio principale di riparto della competenza per territorio, fondato sulla sede dell’autorità che ha emesso l’atto impugnato, è infatti suscettibile di essere sostituito da quello inerente agli effetti diretti dell’atto, secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, solo qualora gli stessi si esplichino esclusivamente nel luogo compreso in una diversa circoscrizione di Tribunale amministrativo regionale (Cons. St., Ad. plen., 24 settembre 2012, n. 33; id., sez. III, 24 marzo 2014, n. 1383). Ne segue che, anche qualora un atto di un’autorità statale centrale, che ha sede in Roma, esplichi i propri effetti solo nell’ambito di una circoscrizione territoriale ben delimitata e diversa dalla circoscrizione territoriale del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, il criterio dell’efficacia opererà, con la devoluzione della controversia al Tribunale “periferico”. Diversamente, laddove, cioè, gli effetti dell’atto esulassero da un circoscritto ambito territoriale e fossero ultraregionali (si pensi ad un atto a contenuto generale), opererebbe infatti il criterio residuale dell’art. 13, comma 3, c.p.a., secondo cui «negli altri casi», per gli atti statali, è competente il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, al di là, ovviamente, delle ulteriori ipotesi di competenza inderogabile di detto Tribunale previste dall’art. 14 c.p.a.  La ratio sottesa al c.d. criterio dell’efficacia è stata tradizionalmente, già nel vigore dell’abrogata l. n. 1034 del 1971, quella di radicare la competenza del Tribunale amministrativo regionale più vicino al ricorrente, quando gli effetti lesivi dell’atto siano limitati ad un ristretto ambito territoriale nel quale egli si trova, anche se l’autorità emanante, centrale o periferica, abbia sede altrove, decentrando la competenza territoriale secondo una logica di prossimità, e non già quella, in senso inverso, di riconoscere ipotesi ulteriori di competenza in capo al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, accentrando la competenza territoriale in capo a questo Tribunale al di là delle ipotesi, già numerose, previste dalla legge (art. 13, comma 3, e art. 14 c.p.a.), in contrasto con l’esigenza, avvertita già dalla relazione di accompagnamento al codice del processo amministrativo, di evitare un eccessivo aggravio per il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma.  Va ricordato sul punto che, secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio ribadita, come si dirà, anche dalla stessa Adunanza plenaria nel vigore del nuovo codice, l’art. 2, lettera b), l. n. 1034 del 1971 assegnava la cognizione al Tribunale amministrativo regionale, nel cui ambito territoriale di giurisdizione abbia sede l’organo periferico, dei ricorsi contro gli atti da questo adottati, anche indipendentemente dall’efficacia infraregionale o ultraregionale dell’atto stesso (Cons. St., sez. VI, 18 agosto 2009, n. 4965).  Si tratta qui anzitutto di comprendere se anche nel vigore della nuova legge processuale l’art. 13, comma 1, c.p.a. radichi, e contrario, la competenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, quando l’atto sia adottato da un organo periferico dello Stato, ma esplichi in ipotesi effetti diretti anche ultraregionali o addirittura generali, perché l’applicazione di questo criterio secondo la logica inversa dell’accentramento, ampliativa, dunque, della competenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, al di là dell’incertezza che comporta l’esatta perimetrazione degli effetti diretti ultraregionali di un atto adottato da un’amministrazione periferica o locale, potrebbe condurre ad una eccessiva concentrazione del contenzioso in capo a detto Tribunale anche quando non sia certo o agevole ricondurre la lesività di detti effetti entro un ambito territoriale circoscritto.  E ciò, peraltro, non senza considerare che opera in materia un fondamentale principio di scindibilità degli effetti, alla stregua del quale, di fronte all’impugnazione di un atto potenzialmente idoneo ad operare in più Regioni, devono essere apprezzati, ai fini della statuizione sulla competenza territoriale, i soli effetti interessati dall’azione giudiziale e, quindi, la portata effettuale dell’ipotetica pronuncia di annullamento (Cons. St., sez. III, 23 giugno 2014, n. 3156, in tema di informative antimafia).    (2) La sezione ha affrontato il problema della natura e degli effetti dei  provvedimenti emessi dall’autorità centrale e recanti il rigetto dell’istanza volta ad ottenere il riconoscimento della cittadinanza; se il principio per cui il diniego ha effetto sull’intero territorio nazionale in quanto afferenti allo status civitatis, si estende anche ai provvedimenti di inammissibilità adottati dall’autorità prefettizia perché essi determinano comunque un arresto procedimentale tale da incidere sulla pretesa, sostanzialmente inscindibile sul piano degli effetti perché riferentesi ad uno status, ad ottenere la cittadinanza.  E’ stato anche affermato che il decreto che dichiara inammissibile la domanda non è un atto di diniego della cittadinanza, ma un atto di un organo periferico che si inserisce nell’iter amministrativo, determinandone l’arresto; b) non è un atto idoneo ad incidere sullo status del soggetto interessato con efficacia erga omnes perché l’interessato può riproporre la domanda anche il giorno dopo la pronuncia di inammissibilità; c) non è produttivo, quindi, di effetti su tutto il territorio nazionale come, invece, i provvedimenti adottati dall’amministrazione centrale.  Il secondo quesito che dunque la Sezione, a fronte dell’incertezza interpretativa sul punto e sulla stessa portata degli «effetti diretti», di cui all’art. 13, comma 1, c.p.a., del decreto di inammissibilità da parte della Prefettura, ritiene di porre all’Adunanza plenaria è se il decreto di inammissibilità della domanda di cittadinanza, pronunciato dalla Prefettura, abbia effetti diretti limitati al solo ambito territoriale in cui ha sede la Prefettura o se esso invece, in quanto idoneo a interrompere il procedimento per la concessione della cittadinanza nonché ad incidere sullo status dell’interessato, esplichi gli stessi o analoghi effetti erga omnes e territorialmente illimitati che ha un decreto di rigetto della medesima istanza emesso in via centrale dal Ministero dell’Interno.
Processo amministrativo
Giurisdizione - Contratti della Pubblica amministrazione –– Autodichia della Camera dei deputati – Esclusione.  Contratti della Pubblica amministrazione - Subappalto – Previsione della soglia massima di subappaltabilità- Art. 105, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 – Incompatibilità con il diritto unionale – Disapplicazione.  Contratti della Pubblica amministrazione – Subappalto – Contratti a lavoratori autonomi – Art. 105, comma 3, lett. a), d.lgs. n. 50 del 2016 – Distinzione.            Considerato che la materia dell’affidamento a terzi dei contratti di lavori, servizi e forniture – pur involgendo l’acquisizione, da parte dell’amministrazione della Camera, di beni e servizi per lo svolgimento delle sue funzioni – non rientra nella sfera di autonomia normativa costituzionalmente riconosciuta, le relative controversie sono sottratte alla giurisdizione domestica; da ciò discende che le norme del Regolamento di Amministrazione e contabilità della Camera dei Deputati (artt. 39 e ss.), dettate in materia di contratti, non essendo espressione della ridetta autonomia normativa costituzionalmente fondata, non giustificano l’attrazione della controversia nell’ambito della cognizione dell’organo di autodichia (il Consiglio di giurisdizione della Camera, al quale il regolamento per la tutela giurisdizionale attribuisce il compito di decidere in primo grado sui “ricorsi e qualsiasi impugnativa, anche presentata da soggetti estranei alla Camera, avverso gli atti di amministrazione della Camera medesima”) (1).         L’art. 105, comma 2, del Codice dei contratti pubblici (nella parte in cui prevede che il subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell’importo complessivo del contratto) deve essere disapplicato in quanto incompatibile con l’ordinamento euro-unitario, come affermato dalla Corte di Giustizia nelle pronunce Sezione Quinta, 26 settembre 2019, C-63/18, e 27novembre 2019, C-402/18 (2).
Contratti della Pubblica amministrazione
Silenzio della P.A. – Silenzio assenso – Rivendita generi monopolio – Richiesta di assegnazione – Silenzio assenso - Inconfigurabilità.             Non è configurabile la formazione del silenzio-assenso ex art. 20, l. 7 agosto 1990, n. 241 su una richiesta di assegnazione di una rivendita di generi di monopolio (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che il procedimento di cui all’art. 20, l. 7 agosto 1990, n. 241, circa la formazione di un titolo abilitativo attraverso il meccanismo del silenzio-assenso, non è configurabile allorché l’amministrazione deve rilasciare una vera e propria concessione amministrativa. In tali ipotesi rientra quella dell’autorizzazione alla vendita di generi di monopolio, la quale, alla stregua della disciplina riveniente dall’art. 19, l. 22 dicembre 1957, n. 1293, effettuata nella forma della rivendita ordinaria o speciale, è soggetta a regime di vera e propria concessione amministrativa, atteso che si riferisce ad un’attività ancora oggetto di monopolio statale. Ed invero, la l. 22 dicembre 1957, n. 1293, all’art. 19, dopo avere distinto le rivendite di generi di monopolio in rivendite ordinarie e rivendite speciali ed avere altresì stabilito che queste ultime sono anch’esse affidate, in genere, a privati, a trattativa privata, per la durata non superiore ad un novennio, prevede che: “Nei casi di rinnovo delle concessioni di cui al precedente comma, il concessionario è tenuto a corrispondere all’Amministrazione (...)”, con ciò stesso attribuendo al provvedimento di assegnazione della rivendita la qualifica espressa di “concessione” e qualificando espressamente come “concessionario” il suo titolare. Del resto, la lettura dell’intera l. n. 1293 del 1957 porta alla conclusione che l’attività di rivendita di generi di monopolio, effettuata nella forma della rivendita ordinaria o speciale, è attività soggetta a regime di vera e propria concessione amministrativa, visto che si riferisce ad un’attività ancora oggetto di monopolio statale. Ciò premesso, deve rilevarsi inequivocabilmente che il procedimento di cui all’art. 20, l. n. 241 del 1990 circa la formazione di un titolo abilitativo attraverso il meccanismo del silenzio assenso non è configurabile allorché l’Amministrazione deve rilasciare una vera e propria concessione amministrativa.
Silenzio della P.A.
Accesso ai documenti – Diritto - Documenti già trasmessi all’autorità giudiziaria penale – Accessibilità.        E’ illegittimo il diniego di ostensione di documento o registrazioni audio motivata sul rilievo che gli stessi sono stati già acquisti dalla autorità giudiziaria ai quali possono essere chiesti attraverso il parallelo canale disciplinato dall’altro settore regolatorio, e ciò in quanto l’art. 2, l. n. 241 del 1990 non contempla tra i casi di esclusione del diritto di accesso, la contemporanea detenzione del documento da parte di altra amministrazione o autorità dello Stato (1).       (1) Ha chiarito il Tar che qualora un atto o documento la cui visione sia strumentale alla tutela di una posizione giuridicamente rilevante ai sensi della l. n. 241 del 1990, formi oggetto anche di disciplina – e tutela, nella ricorrenza delle relative condizioni – in altri rami del diritto, nei quali l’accesso è sottoposto a differente regolamentazione e a presupposti e condizioni differenti, l’amministrazione detentrice del medesimo atto assoggettata all’accesso ex l. n. 241 del 1990, non può sottrarsi ai suoi obblighi di ostensione (ove predicabili a termini degli artt. 22, ss. l. cit.) solo perché l’atto stesso formi oggetto anche di tutela e disciplina in altri ambiti dell’ordinamento. Ambedue i settori dell’ordinamento disciplinano, infatti, autonomamente il diritto di accesso sulla base di regole proprie che ammettono o escludono il diritto di accedere al medesimo documento, senza reciproche interferenze o ingerenze poiché quelle regole, interne a ciascuno dei due settori ordinamentali di disciplina del diritto di accesso, costituiscono due distinti ed indipendenti microcosmi. La ragione che sottende la previsione, in ciascun settore, di distinte e parallele regolamentazioni dell’accesso allo stesso documento o atto, risiede nel fatto che esso presenta diversi livelli di interesse per l’ordinamento giuridico, il quale proprio in ragione della contestuale rilevanza del documento nei due distinti settori, contempla e detta due autonome regolamentazioni delle condizioni, dei presupposti e delle esclusioni del diritto di accedere al medesimo atto, senza che, tuttavia, l’ordinamento avverta l’esigenza di consentire l’esercizio del diritto stesso in via alternativa, imponendo, cioè, al privato di avvalersi dell’uno o dell’altro canale ordinamentale per accedere al medesimo documento. L’esistenza di due diversi settori di regolamentazione dell’accesso al medesimo documento è, infatti, indice della contemporanea rilevanza dello stesso documento (e degli interessi che l’esercizio di esso involge) per i due settori ordinamentali, non certo della vicendevole esclusione dei due livelli di tutela di modo che l’amministrazione possa negare il diritto di accesso ex art. 22, l. n. 241 del 1990 perché il documento è accessibile al privato interessato attraverso il parallelo canale disciplinato dall’altro settore regolatorio. Il plesso normativo definito agli artt. 22 e seguenti della legge sul procedimento – e relativi regolamenti attuativi – si connota infatti per autosufficienza regolatoria: non può, invero, la p.a. opporre al privato, per l’accesso ad un atto da essa formato o detenuto, la concomitante previsione di un differente e parallelo corpus di disciplina, del diritto d’accesso allo stesso documento, dettato da un altro settore ordinamentale. L’amissione o l’esclusione del diritto di accedere a un documento vanno infatti rinvenute interamente nel corpus normativo del Capo V della l. 7 agosto 1990, n. 241, il quale come precisato, è caratterizzato da un principio che può essere definito di autosufficienza regolatoria, nel senso che la regula iuris in forza della quale consentire o escludere il diritto all’accesso va ricercata unicamente nelle disposizioni dettate dagli artt. 22 e ss. della legge; nei quali, invero non è menzionata, tra le ipotesi di esclusione del diritto di accesso contemplate all’art. 24 dedicato appunto alla “Esclusione del diritto di accesso” l’esistenza di una parallela previsione di altro ramo dell’ordinamento del diritto di accedere allo stesso documento. La Sezione ha quindi concluso che non può l’amministrazione detentrice del documento oggetto della richiesta di accesso del privato, nella specie la RAI, opporre che quel documento – nella specie la fonoregistrazione - è stato acquisito dall’autorità giudiziaria requirente o ad essa trasmesso, alla quale quindi l’istante debba rivolgersi assoggettandosi conseguentemente alla regolamentazione dettata dal Codice di procedura penale, che consente all’indagato di accedere agli atti del fascicolo del pubblico ministero solo dopo la chiusura delle indagini e il relativo avviso (art. 415-bis c.p.) e alla persona offesa dal reato dopo la presentazione della richiesta di archiviazione e il relativo avviso (art. 408, comma 3, c.p.p.). Non risulta infatti, ad avviso della Sezione,  condivisibile, ad attento esame del disposto dei commi 6 e 7 dell’art. 24, l. n. 241 del 1990 l’orientamento non recente della giurisprudenza, secondo cui “non sono ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti afferenti ad informative penali inoltrate nei confronti degli istanti, ad eventuali indagini in corso, etc. in quanto relative ad un (eventuale) procedimento penale e rientranti perciò nella esclusiva disponibilità dell'organo requirente procedente (Cfr., da ultimo Tar Palermo ​​​​​​​n. 60 del 18 gennaio 2005)” (Tar Lazio, sez. II quater, 14 maggio 2007, n. 4346). Invero, l’esclusione del diritto di accesso nelle ipotesi indicate dall’art. 24, comma 6 e disciplinate con l’apposito regolamento governativo da esso previsto, qualora i documenti costituiscano oggetto di indagine penale (ipotesi indicata alla lett. c) del comma 6 in esame) è già contemplata, a mente di tale comma, in ben definiti termini restrittivi, vale a dire “quando i documenti riguardino…le azioni strettamente strumentali alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche investigative (…), all’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini”. ​​​​​​​Posta siffatta regola di esclusione, già enunciata in termini di stretta strumentalità all’identità delle fonti di informazione e all’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini, il successivo comma 7 dell’art. 24, l. n. 241 del 1990, contrappone comunque a tale già tassativa esclusione, una rilevante eccezione, prevedendola come operante in via generale ogni qualvolta la conoscenza dei documenti amministrativi sia necessaria per curare o difendere interessi giuridici dei richiedenti l’accesso. 
Accesso ai documenti
Circolazione stradale – Patente di guida – Revisione – Per assunzione di sostanze stupefacenti - Natura sanzionatoria – Esclusione.    Circolazione stradale – Patente di guida – Revisione – Per assunzione di sostanze stupefacenti - Indagini di laboratorio – Art. 15, l. n. 689 del 1981 - Contraddittorio sulle indagini di laboratorio con richiesta di revisione – Inapplicabilità.              L’istituto della revisione della patente di guida per assunzione, da parte del guidatore, di sostanze stupefacenti accertate da indagini di laboratorio non configura sanzione amministrativa, sia pure accessoria, bensì rappresenta un provvedimento amministrativo non sanzionatorio, funzionale alla garanzia della sicurezza del traffico; l’amministrazione può, dunque, legittimamente disporre la revisione della patente di guida tutte le volte in cui il comportamento del patentato ingeneri un mero dubbio sulla sua idoneità, non essendo necessaria la certezza in ordine al venir meno di tali requisiti (1).  Nel caso di revisione della patente di guida per assunzione, da parte del guidatore, di sostanze stupefacenti accertate da indagini di laboratorio, non si applica l’art. 15, l. n. 689 del 1981, che prevede la comunicazione all’interessato dell’esito delle analisi e la possibilità per questo di chiederne la revisione “se per l’accertamento della violazione sono compiute analisi di campioni”, essendo tale disposizione  applicabile in materia di violazioni amministrative, mentre nella specie si tratta di una nuova verifica sulla idoneità psico-fisica della persona alla guida di veicoli a motore (2).       (1) Cons. Stato, sez. IV, 3 ottobre 2018, n. 5682; id., sez. III, 12 maggio 2011, n. 3813; sez. VI, 20 dicembre 2012, n. 6570; sez. VI, 18 marzo 2011, n. 1669.  Ha ricordato la Sezione che la revisione è stata disposta a seguito di dubbi in ordine alla idoneità psico-fisica del ricorrente alla guida di veicoli a motore, sorti in relazione alla circostanza che lo stesso risultava assuntore di sostanze stupefacenti, come risultante dalla accertata positività alla cocaina, al THC ed alla benzoilecgonina. Emergono, dunque, ragioni fattuali e giuridiche poste a base della decisione dell’amministrazione, rivenienti le prime dalle risultanze delle prove tossicologiche effettuate sulla persona e le seconde dalla avvenuta applicazione dell’art. 128 del Codice della strada, il quale prevede, al comma 1, che “Gli uffici competenti del Dipartimento per i trasporti terrestri, nonché il Prefetto nei casi previsti dagli artt. 186 e 187, possono disporre che siano sottoposti a visita medica presso la commissione medica locale di cui all’art. 19, comma 4….qualora sorgano dubbi sulla persistenza nei medesimi dei requisiti fisici e psichici prescritti…”.   Ha aggiunto la Sezione che l’esistenza del presupposto normativamente richiesto per l’adozione del provvedimento di revisione è stata adeguatamente esternata nel provvedimento, avendo l’amministrazione rappresentato che i dubbi sull’idoneità psico-fisica derivavano dalla accertata positività all’uso di sostanze stupefacenti. In disparte il profilo motivazionale, deve, inoltre, essere evidenziato, sotto il profilo sostanziale, che la suddetta circostanza è certamente elemento idoneo a fondare i suddetti dubbi, attesa la pacifica incidenza delle sostanze stupefacenti sulla integrità delle condizioni psichiche del guidatore, necessaria per la conduzione in sicurezza dei veicoli a motore.      (2) La Sezione ha escluso l’applicazione dell’art. 15, l. n. 689 del 1981, che prevede la comunicazione all’interessato dell’esito delle analisi e la possibilità per questo di chiederne la revisione “se per l’accertamento della violazione sono compiute analisi di campioni”. Di conseguenza, la disposizione è applicabile in materia di violazioni amministrative, trattandosi di un adempimento posto a carico dell’amministrazione e di un diritto riconosciuto al privato al fine di garantire la piena tutela di quest’ultimo nel procedimento di accertamento della violazione.  Ha puntualizzato il parere che nella fattispecie in esame l’accertamento di laboratorio effettuato non costituisce atto strumentale all’accertamento di una violazione amministrativa, finalizzato alla irrogazione di una sanzione. Invero, il prefato accertamento rileva nella vicenda all’esame della Sezione unicamente quale presupposto per disporre la revisione della patente e, dunque, una nuova verifica sulla idoneità psico-fisica della persona alla guida di veicoli a motore.  Non vi è, alla base della revisione, l’avvenuto accertamento di una violazione amministrativa, ma unicamente il dato fattuale della rilevata qualità, in capo al conducente, di soggetto assuntore di sostanze stupefacenti, che ha fatto sorgere dubbi sulla persistenza dei suddetti requisiti di idoneità.  
Circolazione stradale
Contratti della Pubblica amministrazione – Sopralluogo – Appalto servizi - Gestore uscente – Non occorre.                       Il gestore uscente di un servizio non può essere gravato dell’onere di documentare l’effettuazione di un nuovo sopralluogo nei luoghi interessati dalle prestazioni contrattuali, qualora l’oggetto della fornitura o del servizio presenti caratteristiche sovrapponibili a quelle del rapporto in atto (1).    (1) Ha chiarito la Sezione, richiamando un precedente in termini (sez, V, n. 4597 del 2018) Link che se è vero che l’art. 79, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 prevede che “Quando le offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una visita dei luoghi o dopo consultazione sul posto dei documenti di gara e relativi allegati, i termini per la ricezione delle offerte, comunque superiori ai termini minimi stabiliti negli artt. 60, 61, 62, 64 e 65, sono stabiliti in modo che gli operatori economici interessati possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie per presentare le offerte.”, così che in linea astratto la clausola di cui si discute non può di per sé dirsi contraria alla legge o non prevista dalla legge (fermo restando - si ribadisce che nel caso di specie tale previsione riguarda la fase della gara in senso stretto e non la fase dell’indagine di mercato) non può tuttavia sottacersi che la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che il sopralluogo ha carattere di adempimento strumentale a garantire anche il puntuale rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di gara e che l’obbligo di sopralluogo ha un ruolo sostanziale, e non meramente formale, per consentire ai concorrenti di formulare un'offerta consapevole e più aderente alle necessità dell'appalto.   L'obbligo di sopralluogo, strumentale a una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi, è infatti funzionale alla miglior valutazione degli interventi da effettuare in modo da formulare, con maggiore precisione, la migliore offerta tecnica (Cons. Stato, sez. V, 19 febbraio 2018, n. 1037). È stato anche sottolineato che l’obbligo per il concorrente di effettuazione di un sopralluogo è finalizzato proprio ad una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi: tale verifica può, dunque, dirsi funzionale anche alla redazione dell'offerta, onde incombe sull'impresa l’onere di effettuare tale sopralluogo con la dovuta diligenza, in modo da poter modulare la propria offerta sulle concrete caratteristiche dei locali (Cons. Stato, sez. VI, 23 giugno 2016, n. 2800). Proprio in relazione alla funzione del sopralluogo, così come delineata dalla ricordata giurisprudenza, deve ammettersi che un simile obbligo è da considerarsi superfluo e sproporzionato allorché sia imposto ad un concorrente che sia gestore uscente del servizio, il quale per la sua stessa peculiare condizione si trova già nelle condizioni soggettive ideali per conoscere in modo pieno le caratteristiche dei luoghi in cui svolgere la prestazione oggetto della procedura di gara.  
Contratti della Pubblica amministrazione
Informativa antimafia - Impugnazione – Legittimazione attiva - Ex amministratori e i soci della società attinta – Autonoma legittimazione – Rimessione alla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.                           Sono rimesse all’Adunanza plenaria le questioni se in materia di impugnazione di interdittive antimafia vada, o meno, riconosciuta, in capo ad ex amministratori e soci della società attinta, autonoma legittimazione a ricorrere, avuto riguardo alla situazione giuridica dedotta in giudizio, e se gli stessi vadano ritenuti soggetti che patiscano “effetti diretti” dall’adozione di provvedimenti di siffatta natura; in caso di soluzione positiva al primo quesito, se l’effetto devolutivo proprio dell’appello si estenda anche al caso in cui il ricorso in primo grado non sia stato riunito a ricorsi aventi ad oggetto l’impugnazione del medesimo provvedimento da parte degli stessi ovvero da diversi ricorrenti (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che la specifica questione dei soggetti legittimati ad impugnare le informative prefettizie non si registra unanimità nella giurisprudenza del Consiglio di Stato. Secondo un orientamento (Tar Palermo, sez. III, 14 ottobre  2020, n. 6205; id.16 maggio 2018, n. 2895; 11 maggio 2018, n. 2829) il ricorso proposto da soggetti diversi dall’impresa destinataria dell’interdittiva è inammissibile per carenza di legittimazione attiva, in quanto il decreto prefettizio può essere impugnato solo dal soggetto che ne patisce gli effetti diretti sulla sua posizione giuridica di interesse legittimo. Nel senso invece della legittimazione dell’amministratore della società attinta da informativa a impugnare in proprio, per proprio interesse morale, si è espressa sempre la sez. III del Tar Palermo con decisione 4 luglio 2017, n. 1559, relativa a ricorso proposto da ex amministratori della società, o loro parenti, menzionati nell’interdittiva quali soggetti partecipi degli elementi indiziari da cui viene desunto il pericolo di condizionamento di stampo mafioso, ritenendosi la sussistenza della legittimazione al ricorso, in ragione della lesione concreta ed attuale della situazione professionale e patrimoniale dei soggetti che abbiano dovuto rinunciare all’incarico di amministratori della società, nonché sotto il profilo della potenziale lesione dell’onore e reputazione personale dei soggetti sui quali nel provvedimento venga ipotizzato un condizionamento mafioso. Una certa apertura pare evincersi anche dalla decisione del Consiglio di Stato sez. III, 7 aprile 2021, n. 2793, sebbene nella diversa fattispecie di scioglimento dell'Organo consiliare ai sensi dell'art. 143, d.lgs. n. 267 del 2000, ove si ritiene "che l'ammissibilità del ricorso vada riconosciuta alla stregua del più recente e favorevole indirizzo propenso a conferire rilevanza all'interesse, quanto meno morale, a che gli amministratori del disciolto Consiglio, a tutela della loro stessa immagine e reputazione, facciano dichiarare l'erroneità delle affermazioni contenute nel provvedimento impugnato e, quindi, l'inesistenza di forme di pressione e di vicinanza della compagine governativa alla malavita organizzata (Cons. St., sez. III, n. 4074 del 2020 e n. 5548 del 2020). Né varrebbe obiettare che la lesione dell'immagine del singolo ex amministratore discende semmai (e a tutto voler concedere) essenzialmente dai "fatti" posti a fondamento della misura dissolutoria, l'accertamento della cui veridicità è oggetto di verifica solo incidentale da parte del giudice amministrativo.     La tesi non persuade in quanto non si può negare che quei fatti assurgono a significanza proprio per il tramite del giudizio valutativo altamente discrezionale che ne rende l'amministrazione, sicché, se la portata del loro disvalore è compendiata ed enucleata essenzialmente nell'atto ex art. 143, è certamente apprezzabile l'interesse demolitorio volto a contrastare l'interpretazione che in detto atto risulta trasposta e cristallizzata>. ​​​​​​​La questione che il C.g.a. sottopone all’Adunanza Plenaria è quindi relativa alla possibilità, o meno, di riconoscere, in capo ad ex amministratori e soci di una società attinta da interdittiva antimafia, autonoma legittimazione a ricorrere, avuto riguardo alla situazione giuridica dedotta in giudizio, che si pretende direttamente ed immediatamente pregiudicata dall’interdittiva (a causa della sostituzione degli organi di gestione, con perdita, da parte degli ex amministratori, delle cariche ricoperte, e quindi pregiudizio professionale; impossibilità di effettuare scelte imprenditoriali strategiche e quindi compromissione degli investimenti economici profusi nell’azienda, quanto ai soci; con lesione della dignità e reputazione, quanto ai soggetti le cui vicende personali e familiari costituiscano diretto oggetto di motivazione). La questione postula anche la risoluzione del problema della individuazione dei soggetti che patiscano “effetti diretti” dall’adozione di provvedimenti di siffatta natura. ​​​​​​​La soluzione cui tende questo Consiglio è quella seguita dal secondo orientamento giurisprudenziale, per le ragioni che si passano ad esporre, fondate sia sul quadro normativo, sia sulla specifica e peculiare situazione fattuale, avuto riguardo al contenuto concreto della informativa antimafia. ​​​​​​​Dall’analisi degli artt. 84 e 91, d.lgs. n. 159 del 2011, emerge che l’emanazione dei provvedimenti interdittivi costituisce frutto di un procedimento amministrativo connotato da una natura tendenzialmente cautelare e con finalità preventiva dell’infiltrazione mafiosa, al quale, secondo la giurisprudenza, non possono essere estese le garanzie del contraddittorio di cui alla l. n. 241 del 1990, e ciò nonostante la decisione prefettizia si basi generalmente su accertamenti di fatto complessi, in qualche caso addirittura di tipo indiziario, nell’ambito dei quali ben possono manifestarsi significativi margini di errore. ​​​​​​​Al riguardo, il Tar Bari, con ordinanza della sez. III,  20 gennaio 2020, n. 28 di rimessione alla Corte di Giustizia della questione della compatibilità degli artt. 91, 92 e 93 del Codice antimafia con il diritto eurounitario, aveva osservato che il provvedimento di cui si discute non costituisce una misura provvisoria e strumentale, adottata in vista di un provvedimento che definisca, con caratteristiche di stabilità e inoppugnabilità, il rapporto giuridico controverso, bensì atto conclusivo del procedimento amministrativo avente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra l’impresa e la P.A., con riverberi assai durevoli nel tempo, se non addirittura permanenti, indelebili e inemendabili, evidenziando il possibile contrasto tra l’esclusione del contraddittorio endoprocedimentale e le fonti eurounitarie, con riferimento specifico al diritto a una buona amministrazione sancito dall’art. 41 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (che comprende “ il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio”) riconosciuta avente “lo stesso valore giuridico dei trattati” ex art. 6, par. 1, del Trattato UE. ​​​​​​​La Corte di Giustizia, come noto, con ordinanza della sez. IX, 28 maggio 2020, C-17/20, MC, ha dichiarato irricevibile la domanda di pronuncia pregiudiziale ritenendo che l’ordinanza del giudice nazionale non avesse fornito dati idonei a dimostrare l’esistenza di un criterio di collegamento della disciplina nazionale con il diritto UE ovvero a dimostrare che detta disciplina costituisca attuazione di quest’ultimo, precisando che: l’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali UE si rivolge non agli Stati membri bensì unicamente alle istituzioni, agli organi e agli organismi dell’Unione europea;  se è vero che il principio del rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio generale del diritto UE che trova applicazione quando l’amministrazione intende adottare nei confronti di una persona un atto che le arrechi pregiudizio – sicché in forza di tale principio i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione – è altrettanto vero che “tale obbligo incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, quand’anche la normativa dell’Unione applicabile non preveda espressamente siffatta formalità”. ​​​​​​​Sebbene la decisione lasci il nodo irrisolto, specie se si consideri che i provvedimenti in questione appaiono “trasversali”, coinvolgendo la libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi previste dal TFUE e potendo impattare sulle disposizioni del diritto dell’Unione europea relative alle libertà fondamentali, occorre sottolineare che il principio ivi comunque espresso circa la rilevanza eurounitaria del contraddittorio riprende e rilancia i principi in precedenza espressi nella decisione del 9 novembre 2017, in C-298/16, secondo cui “…… il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio generale del diritto dell’Unione che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto che gli arreca pregiudizio. In forza di tale principio, i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione. Tale obbligo incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, quand’anche la normativa dell’Unione applicabile non preveda espressamente siffatta formalità (sentenza del 17 dicembre 2015, WebMindLicenses, C-419/14, EU:C:2015:832, punto 84 e giurisprudenza ivi citata)”. ​​​​​​​Sotto ulteriore profilo, occorre considerare che, nonostante la giurisprudenza tradizionalmente affermi una netta demarcazione tra le aree di intervento della repressione penale e della prevenzione amministrativa, nell’ambito della quale si estrinsecano i provvedimenti in questione, è innegabile che gli elementi costitutivi dei presupposti applicativi dell'informazione antimafia siano correlati sovente ad una (libera) valutazione (o addirittura rivalutazione in senso ostativo) di fatti oggetto di procedimenti penali o indagini di polizia; ovvero, ad un giudizio prognostico-probabilistico applicato ad un insieme di fatti ritenuti sintomatici, di apprezzabile significato indiziario, dai quali si perviene alla ragionevole conclusione di permeabilità mafiosa, secondo il criterio civilistico del "più probabile che non", con la conseguenza che non trovano nemmeno applicazione le regole della certezza al di là di ogni ragionevole dubbio necessaria per pervenire alla condanna penale, né la garanzia fondamentale della "presunzione di non colpevolezza" di cui all'art. 27, comma 2, Cost., alla quale è ispirato anche l'art. 6 CEDU.  ​​​​​​​Ciò, nonostante l’invasività degli effetti delle misure in questione, per pervenire alle quali si attinge normalmente a piene mani da atti di procedimenti penali, senza però che il procedimento in questione, formalmente amministrativo, contempli alcune delle garanzie riconosciute all’indagato e/o all’imputato. ​​​​​​​La possibilità di ricorrere consentirebbe (a chi si trova definitivamente estromesso da ogni attività economica/professionale) di recuperare, quantomeno a provvedimento emesso, attraverso la tutela giudiziale, parte delle garanzie ordinariamente connesse a provvedimenti di natura gravemente afflittiva.
Informativa antimafia
Amministrazione dello Stato – Contratto – Consumatore – Giustizia amministrativa – Tutela cautelare L’art. 3 del d.l. n. 115 del 2022, nella sua formulazione letterale, si riferisce allo ius variandi del venditore relativamente ai contratti di fornitura in essere, ossia alla possibilità dell’operatore di modificare il prezzo prima della scadenza della relativa parte del contratto; pertanto, la norma non appare prima facie applicabile anche ai contratti a tempo determinato o ai contratti che prevedano una scadenza predeterminata delle condizioni economiche a data precedente il 30 aprile 2023, essendo in questione in tal caso non l’esercizio dello ius variandi ma un rinnovo contrattuale liberamente pattuito dalle parti. ● Non si ravvisano precedenti in termini (Fattispecie relativa al caso di una società che aveva impugnato il provvedimento con cui l’Autorità garante della concorrenza e del mercato aveva imposto alla società ricorrente di sospendere “l’applicazione di ogni variazione delle condizioni economiche dei contratti di fornitura comunicate dal 10 agosto 2022 e confermi le condizioni economiche di fornitura in essere fino al 30 aprile 2023, dandone comunicazione ai consumatori individualmente e con la medesima forma precedentemente utilizzata”. La società aveva chiesto la sospensione cautelare del provvedimento in parola, lamentando un ingente danno economico, ed il Consiglio di Stato, con la predetta ordinanza, ha accolto l’istanza cautelare solo entro i limiti indicati in massima, precisando che “qualora invece si tratti di contratti a tempo indeterminato, che non prevedono scadenza nella parte economica o la prevedano in data posteriore al 30 aprile 2023, essi non possano essere modificati nella parte concernente le condizioni economiche prima della scadenza del termine indicato nell’art. 3 del D.L.115/2022 e pertanto per essi valga il “congelamento” dello ius variandi disposto dal decreto c.d. Aiuti bis”.
Amministrazione dello Stato
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Durc irregolare – Correzione con compensazione – Condizione.     Al di là della portata innovativa o meno della modifica dell’art. 80, comma 4, quinto periodo, d.lgs. n. 50 del 2016, introdotta dall’art. 8, comma 5, d.l. 17 luglio 2020, n. 76, l’accertamento dell’esistenza di un controcredito da portare in compensazione di un Durc irregolare prodotto in sede di gara pubblica va scrutinato sulla base della specifica disciplina di settore; non è quindi utile la compensazione amministrativa o legale tra l’impresa ausiliaria e l’Inps con riferimento al rapporto di debito/credito intercorrente tra i due soggetti”, sia in ragione dell’effetto solutorio del versamento tardivo, che ha estinto l’obbligazione in modo satisfattivo per il creditore pubblico, sia in considerazione del fatto che il “meccanismo della compensazione amministrativa previsto dall’art. 3, comma 2, lett. c), d.m. 30 gennaio 2015 fa riferimento al c.d. Durc interno ossia alla procedura che riguarda i rapporti contributivi tra l’impresa e l’Inps  (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che in tema di gare ad evidenza pubblica, ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i, d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare le gravi violazioni delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, la nozione di “violazione grave” non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina previdenziale, ed in particolare dal Durc; ne consegue che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti con l’Amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacarne il contenuto (Cons. Stato, A.P., 4 maggio 2012, n. 8). Tale pronuncia, peraltro, è stata resa in fattispecie nella quale è stato ritenuto legittimo un provvedimento di esclusione basato su di un Durc negativo, ed è stata conseguentemente riformata la sentenza appellata nella parte in cui ha escluso la definitività della violazione alle norme in materia di contributi in ragione della proposizione, davanti al competente Tribunale, di un ricorso finalizzato ad accertare la regolarità della posizione contributiva dell’impresa esclusa perché destinataria del Durc negativo. In base alla disciplina normativa sopra richiamata la violazione ostativa rispetto alla partecipazione alla gara è quella indicata nel Durc: nondimeno, è stato chiarito (Cons. Stato, A.P., 25 maggio 2016, n. 10; id., sez. V, 5 giugno 2018, n. 3385; id. n. 4188 del 2019) ​​​​​​​che in presenza di Durc irregolare che non corrisponde alla reale situazione contributiva dell’operatore economico, e che abbia comportato l’adozione di un provvedimento espulsivo da parte della stazione appaltante, è consentita l’impugnazione delle determinazioni cui è giunta la stazione appaltante dinanzi al giudice amministrativo, il quale ha la possibilità di compiere un accertamento puramente incidentale, ai sensi dell’art. 8 c.p.a., sulla regolarità del rapporto previdenziale. Il regime delle “violazioni ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva” (così il citato comma 2 dell’art. 38), proprio in quanto individuato mediante rinvio al Durc, è integrato dal regolamento adottato con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali 30 gennaio 2015 in attuazione dell'art. 4, d.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito dalla legge 16 maggio 2014, n. 78 (recante «Semplificazioni in materia di Documento Unico di Regolarità Contributiva»). Esso stabilisce che la situazione di regolarità dell’impresa sussiste in caso di “crediti in fase amministrativa oggetto di compensazione per la quale sia stato verificato il credito, nelle forme previste dalla legge o dalle disposizioni emanate dagli Enti preposti alla verifica e che sia stata accettata dai medesimi Enti” [art. 3, comma 2, lett. c)]. Tale decreto integra il precetto normativo dell’art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006, nella misura in cui concorre a definire la disciplina delle violazioni contributive rilevanti ai fini dell’esclusione dalla procedura di gara relativa all’aggiudicazione di un contratto pubblico (l’art. 4, comma 1, d.l. n. 34 del 2014 rimette infatti a tale disciplina la verifica della “regolarità contributiva nei confronti dell'INPS”: con la conseguenza che l’accertamento delle “violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali”, di cui all’art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006, deve essere operato alla stregua di tale normativa). In altre parole, l’accertamento dell’esistenza di un controcredito da portare in compensazione (in tesi tale da dimostrare la regolarità contributiva dell’impresa) va comunque scrutinato sulla base della specifica disciplina di settore. Quest’ultima richiede la verifica del credito e l’accettazione da parte dell’ente debitore. A conclusioni non dissimili si giunge se si invoca il diritto comune. La compensazione (legale), quale modalità – satisfattiva - di estinzione dell’obbligazione diversa dall’adempimento, opera - con riferimento a crediti omogenei, liquidi ed esigibili: art. 1243, primo comma, cod. civ. – dal momento della loro coesistenza, ma solo a seguito di eccezione della parte convenuta in giudizio per l’adempimento del debito (art. 1242, primo comma, cod. civ.): la ratio di tale disposizione è comunemente individuata nella tutela dell’interesse del debitore a valutare l’interesse anche al proprio adempimento (dal che l’esclusione dell’automaticità dell’estinzione: richiedendosi comunque, anche se in via stragiudiziale, un “atto decisionale del debitore”). Si ritiene, in particolare, che il “fatto-coesistenza” non abbia di per sé effetti estintivi (tanto che il creditore, in mancanza dell’eccezione, può chiedere ed ottenere l’adempimento), ma l’effetto modificativo-costitutivo del sorgere del diritto di opporre la compensazione (al cui esercizio soltanto segue l’effetto estintivo ex tunc). In disparte la compatibilità strutturale della richiamata disciplina del codice civile (implicante una difesa processuale, o comunque una dialettica sostanziale, diretta a neutralizzare la domanda del creditore) con la fattispecie di sindacato incidentale del Durc in sede di impugnazione del provvedimento espulsivo, ciò che appare ancor più problematico è il coordinamento, sul piano funzionale, con la specificità delle regole in materia di procedimenti di evidenza pubblica. L’argomento è stato recentemente indagato dalla sentenza della sez. V del Consiglio di Stato n. 4188 del 2019 (resa in fattispecie relativa all’applicazione dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016, ma con riferimento ad un profilo indifferente alla successione di norme): con riguardo anche al profilo diacronico, avendo la pronuncia giustamente sottolineato l’esigenza che l’iniziativa, anche stragiudiziale, del debitore si collochi comunque in epoca anteriore a quella della “presentazione dell’offerta in gara”. Perché la compensazione operi nel senso di “correggere” un Durc irregolare, è dunque necessario che il meccanismo legale disciplinato dal codice civile si coordini con le specifiche regole della disciplina del procedimento di gara. D’altra parte, lo stesso art. 1246, n. 5), cod. civ. esclude che la compensazione operi nei casi di divieto (espresso o tacito) previsto dalla legge: a tutela dell’interesse creditorio, ma anche di interessi superindividuali presidiati da norme imperative. ​​​​​​​La dottrina civilistica ha in proposito escluso che le esigenze contabili dell’amministrazione possano supportare l’affermazione di un generale limite alla compensazione operante nei confronti degli enti pubblici: ma ha comunemente osservato che l’operatività dell’istituto rimane subordinata al rispetto delle forme e delle iniziative prescritte dalle normative di settore.  
Contratti della Pubblica amministrazione
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – False informazione rese dal concorrente – Espulsione automatica - Esclusione.           La falsità di informazioni rese dall’operatore economico partecipante a procedure di affidamento di contratti pubblici e finalizzata all’adozione dei provvedimenti di competenza della stazione appaltante concernenti l’ammissione alla gara, la selezione delle offerte e l’aggiudicazione, è riconducibile all’ipotesi prevista dalla lett. c) [ora c-bis)] dell’art. 80, comma 5, del codice dei contratti di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50; in conseguenza di ciò la stazione appaltante è tenuta a svolgere la valutazione di integrità e affidabilità del concorrente, ai sensi della medesima disposizione, senza alcun automatismo espulsivo; alle conseguenze ora esposte conduce anche l’omissione di informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione, nell’ambito della quale rilevano, oltre ai casi oggetto di obblighi dichiarativi predeterminati dalla legge o dalla normativa di gara, solo quelle evidentemente incidenti sull’integrità ed affidabilità dell’operatore economico; la lett. f-bis) dell’art. 80, comma 5, del codice dei contratti pubblici ha carattere residuale e si applica in tutte le ipotesi di falso non rientranti in quelle previste dalla lett. c) [ora c-bis)] della medesima disposizione (1).   (1) La questione era stata rimessa all’Adunanza plenaria dalla sez. V con ord. 9 aprile 2020, n. 2332.  Ha chiarito l’Alto Consesso che all’ipotesi prevista dalla falsità dichiarativa (o documentale) di cui alla lettera f-bis) quella relativa alle «informazioni false o fuorvianti» ha un elemento specializzante, dato dalla loro idoneità a «influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione» della stazione appaltante. Ai fini dell’esclusione non è dunque sufficiente che l’informazione sia falsa ma anche che la stessa sia diretta ed in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura di gara. Coerentemente con tale elemento strutturale, la fattispecie equipara inoltre all’informazione falsa quella fuorviante, ovvero rilevante nella sua «attitudine decettiva, di “influenza indebita”», secondo la definizione datane dall’ordinanza di rimessione, ovvero di informazione potenzialmente incidente sulle decisioni della stazione appaltante, e che rispetto all’ipotesi della falsità può essere distinta per il maggior grado di aderenza al vero. La ragione della descritta equiparazione si può desumere dalle considerazioni svolte in precedenza e cioè dal fatto che le informazioni sono strumentali rispetto ai provvedimenti di competenza dell’amministrazione relativamente alla procedura di gara, i quali sono a loro volta emessi non solo sulla base dell’accertamento di presupposti di fatto ma anche di valutazioni di carattere giuridico, opinabili tanto per quest’ultima quanto per l’operatore economico che le abbia fornite. Ne segue che, in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale, la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione della stazione appaltante diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo, e dall’altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie, consistente nella comune attitudine di entrambe le informazioni a sviare l’operato della medesima amministrazione. Nella medesima direzione si spiega la circostanza che l’art. 80, comma 5, lett. c) [ora c-bis)] d.lgs. n. 50 del 2016 preveda anche «l’omissione di informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione», quale ulteriore fattispecie di grave illecito professionale, a completamento e chiusura di quella precedente, ma rispetto a questa tipizzata in termini più ampi, con il riferimento al «corretto svolgimento della procedura di selezione», ed in cui il disvalore si polarizza sull’«elemento normativo della fattispecie» (così l’ordinanza di rimessione), ovvero sul carattere doveroso dell’informazione. L’ipotesi presuppone un obbligo il cui assolvimento è necessario perché la competizione in gara possa svolgersi correttamente e il cui inadempimento giustifica invece l’esclusione. Rispetto alle esigenze di trasparenza che si pongono tra i preminenti valori giuridici che presiedono alle procedure di affidamento di contratti pubblici (art. 30, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016), l’obbligo dovrebbe essere previsto a livello normativo o dall’amministrazione, attraverso le norme speciali regolatrici della gara. Nondimeno, come ricordato dalla Sezione rimettente, deve darsi atto che è consolidato presso la giurisprudenza il convincimento secondo cui l’art. 80, comma 5, lett. c) [ora lett. c-bis)], è una norma di chiusura in grado di comprendere tutti i fatti anche non predeterminabili ex ante, ma in concreto comunque incidenti in modo negativo sull’integrità ed affidabilità dell’operatore economico, donde il carattere esemplificativo delle ipotesi previste nelle linee-guida emanate in materia dall’ANAC, ai sensi del comma 13 del medesimo art. 80 (linee-guida n. 6 del 2016; al riguardo si rinvia al parere reso dalla commissione speciale di questo Consiglio di Stato appositamente costituita sull’ultimo aggiornamento alle più volte richiamate linee-guida: parere del 13 novembre 2018, n. 2616; § 7.1; cfr. inoltre: Cons. Stato, V, 5 maggio 2020, n. 2850, 12 marzo 2020, n. 1774, 12 aprile 2019, n. 2407, 12 febbraio 2020, n. 1071; VI, 4 giugno 2019, n. 3755).  Sennonché in tanto una ricostruzione a posteriori degli obblighi dichiarativi può essere ammessa, in quanto si tratti di casi evidentemente incidenti sulla moralità ed affidabilità dell’operatore economico, di cui quest’ultimo doveva ritenersi consapevole e rispetto al quale non sono configurabili esclusioni “a sorpresa” a carico dello stesso. L’elemento comune alle fattispecie dell’omissione dichiarativa ora esaminata con quella relativa alle informazioni false o fuorvianti suscettibili di incidere sulle decisioni dell’amministrazione concernenti l’ammissione, la selezione o l’aggiudicazione, è dato dal fatto che in nessuna di queste fattispecie si ha l’automatismo espulsivo proprio del falso dichiarativo di cui alla lettera f-bis). Infatti, tanto «il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione», quanto «l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione» sono considerati dalla lettera c) quali «gravi illeciti professionali» in grado di incidere sull’«integrità o affidabilità» dell’operatore economico. E’ pertanto indispensabile una valutazione in concreto della stazione appaltante, come per tutte le altre ipotesi previste dalla medesima lettera c) [ed ora articolate nelle lettere c-bis), c-ter) e c-quater), per effetto delle modifiche da ultimo introdotte dalla legge decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32 - Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici; convertito dalla l. 14 giugno 2019, n. 55]. Nel contesto di questa valutazione l’amministrazione dovrà pertanto stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante; se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni; ed infine se il comportamento tenuto dall’operatore economico incida in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità. Del pari dovrà stabilire allo stesso scopo se quest’ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa di gara, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità ed affidabilità. Qualora sia mancata, una simile valutazione non può essere rimessa al giudice amministrativo. Osta a ciò, nel caso in cui tale valutazione sia mancata, il principio di separazione dei poteri, che in sede processuale trova emersione nel divieto sancito dall’art. 34, comma 2, del codice del processo amministrativo (secondo cui il giudice non può pronunciare «con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati»). Laddove invece svolta, operano per essa i consolidati limiti del sindacato di legittimità rispetto a valutazioni di carattere discrezionale in cui l’amministrazione sola è chiamata a fissare «il punto di rottura dell’affidamento nel pregresso e/o futuro contraente» [Cassazione, sezioni unite civili, nella sentenza del 17 febbraio 2012, n. 2312, che ha annullato per eccesso di potere giurisdizionale una sentenza di questo Consiglio di Stato che aveva a sua volta ritenuto illegittimo il giudizio di affidabilità professionale espresso dall’amministrazione in relazione all’allora vigente art. 38, comma 1, lett. f), dell’abrogato codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163]; limiti che non escludono in radice, ovviamente, il sindacato della discrezionalità amministrativa, ma che impongono al giudice una valutazione della correttezza dell’esercizio del potere informato ai princìpi di ragionevolezza e proporzionalità e all’attendibilità della scelta effettuata dall’amministrazione. Il sistema così descritto ha carattere completo e coerente con la causa di esclusione “facoltativa” prevista a livello sovranazionale, consistente nella commissione di «gravi illeciti professionali» tali da mettere in dubbio l’integrità dell’operatore economico e da dimostrare con «mezzi adeguati», ai sensi dell’art. 57, par. 4, lett. c), della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, poi attuata con il codice dei contratti pubblici attualmente vigente. Nondimeno, su di esso è intervenuto il sopra menzionato “correttivo”, di cui al d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, con l’aggiunta all’art. 80, comma 5, del codice della lettera f-bis), e dunque della causa di esclusione relativa all’operatore economico che presenti nella procedura di gara (o negli affidamenti di subappalti; ipotesi che qui non rileva) «documentazione o dichiarazioni non veritiere». Non «informazioni» dunque, come invece previsto dalla lettera c), ma documenti o dichiarazioni. Al riguardo, è innanzitutto da escludere che i diversi termini impiegati rivestano una rilevanza pratica, poiché documenti e dichiarazioni sono comunque veicolo di informazioni che l’operatore economico è tenuto a dare alla stazione appaltante e che quest’ultima a sua volta deve discrezionalmente valutare per assumere le proprie determinazioni nella procedura di gara. Affermata dunque un’identità di oggetto tra le lettere c) e f-bis) in esame, dall’esame dei rispettivi elementi strutturali si ricava anche una parziale sovrapposizione di ambiti di applicazione, derivante dal fatto che entrambe fanno riferimento a ipotesi di falso. Per dirimere il conflitto di norme potenzialmente concorrenti sovviene allora il criterio di specialità (art. 15 delle preleggi), in applicazione del quale deve attribuirsi prevalenza alla lettera c), sulla base dell’elemento specializzante consistente nel fatto che le informazioni false, al pari di quelle fuorvianti, sono finalizzate all’adozione dei provvedimenti di competenza della stazione appaltante «sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione» e concretamente idonee ad influenzarle. Per effetto di quanto ora considerato, diversamente da quanto finora affermato dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, l’ambito di applicazione della lettera f-bis) viene giocoforza a restringersi alle ipotesi - di non agevole verificazione - in cui le dichiarazioni rese o la documentazione presentata in sede di gara siano obiettivamente false, senza alcun margine di opinabilità, e non siano finalizzate all’adozione dei provvedimenti di competenza dell’amministrazione relativi all’ammissione, la valutazione delle offerte o l’aggiudicazione dei partecipanti alla gara o comunque relativa al corretto svolgimento di quest’ultima, secondo quanto previsto dalla lettera c).
Contratti della Pubblica amministrazione
Cittadinanza - Diniego - Discrezionalità - Obbligo di motivazione – Valutazione in concreto – Mancata autocertificazione della condanna penale – Conseguenze – Rilevanza dell’elemento soggettivo - Distinzione tra dichiarazione “mendace”, “erronea”, “omissiva” o “reticente”.   a) Non può ritenersi esercitata legittimamente l’ampia discrezionalità dell’Amministrazione attraverso forme di “automaticità” del giudizio di diniego della cittadinanza per l’esistenza di un solo risalente precedente penale, concernente un comportamento di non particolare allarme sociale, di recente depenalizzato, e per la “non veritiera” autocertificazione.   La motivazione del provvedimento di diniego di cittadinanza deve essere correlata alle modalità e caratteristiche del fatto penalmente perseguito, apprezzato in concreto, alla gravità dello stesso e al suo disvalore sociale, alla pena comminata, alla circostanza che si tratti di unico episodio nel periodo di lungo soggiorno del ricorrente in Italia e che sia stato commesso a distanza di tempo (circa 11 anni) dal momento in cui l’istanza è stata esaminata, alla circostanza che il reato sia stato dichiarato estinto e che il fatto sia stato successivamente depenalizzato (nella specie, si è trattato dell’unica condanna per l’importazione abusiva di 5 stecche di sigarette dal Paese di origine, quantità minima, inferiore a 10 Kg, punita dall’art. 291- bis del DPR 43/1973 con la multa, e per evasione dell’IVA, di cui all’art. 70 DPR 633/1972, fattispecie entrambe per cui opera oggi la depenalizzazione di cui al D.lgs. n. 8 del 2016, art. 1, commi 1 e 2).   b) Nella disciplina dettata dall’art. 9, comma 1, lett. f) legge n. 91 del 1992, la dichiarazione del richiedente riguardante i precedenti penali non comporta per espressa previsione del legislatore l’acquisizione del beneficio (cosicché l’autocertificazione non veritiera ne determinerebbe, ex art. 75 d.P.R. n. 445 del 2000, l’automatica decadenza).   L’autocertificazione ha lo scopo di portare a conoscenza dell’Amministrazione una serie di elementi di valutazione riguardanti la situazione personale ed economica del richiedente rilevanti ai fini di apprezzarne l’avvenuta integrazione in Italia e l’assenza di cause ostative collegate a ragioni di sicurezza della Repubblica e all’ordine pubblico. In quest’ambito, può assumere rilevanza l’elemento soggettivo del richiedente e la distinzione tra dichiarazione “mendace”, “erronea”, “omissiva” o “reticente”, da accertarsi in concreto, caso per caso.   c) L’Amministrazione è tenuta a ponderare accuratamente se sia mancata nel ricorrente non solo l’intenzione di ingannare, ma anche la consapevolezza di porre in essere una condotta dotata di rilevanza giuridica (per mancata conoscenza della condanna intervenuta e ignoranza delle previsioni di legge concernenti la mancata annotazione delle condanne penali emesse per decreto nelle certificazioni del casellario).
Cittadinanza
Contratti della Pubblica amministrazione – Contratto – Sorti a seguito di annullamento della gara – Inefficacia e obbligo di ripetizione del procedimento di gara – Possibilità.       Una volta ammessa in linea di principio la possibilità per il giudice amministrativo di modulare l’efficacia della sentenza, nella speciale materia di contratti pubblici, caratterizzata dalla peculiare disciplina di cui agli artt. 121 e 122 c.p.a., non può escludersi che tale facoltà includa, ex art. 34 lett. e) c.p.a., anche quella di disporre opportunamente circa la sorte del contratto, coordinandone l’inefficacia con l’obbligo di ripetizione del procedimento di gara (in tutti quei casi nei quali il giudizio non si concluda con una pronuncia di aggiudicazione o di subentro del ricorrente vittorioso), quando gli interessi dedotti in giudizio lo richiedano (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che la possibilità per il giudice amministrativo di modulare gli effetti della dichiarazione di inefficacia del contratto di appalto, in conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione, è già stata affermata in giurisprudenza (Tar Lazio, II ter, 24 dicembre 2019, nr. 14851) in maniera conforme con quanto ritenuto, in via generale, dall’Adunanza Plenaria (sentenza del 22 dicembre 2017, nr. 13 e giurisprudenza ivi richiamata, tra cui Cons. Stato, sez. VI, n. 2755 del 2011). Più precisamente, si è ritenuto che la regolazione della decorrenza dell’inefficacia del contratto può essere decisa dal giudice con effetti costitutivi dell’assetto di interessi, ulteriori e non meramente dipendenti dall’annullamento, ai sensi dell’art. 122 c.p.a. A stretto rigore, la disposizione citata demanda al giudice la regolazione degli effetti dell’inefficacia del contratto, salvo che dall’annullamento dell’aggiudicazione derivi la ripetizione della gara; tuttavia, essa va coordinata con l’art. 34 c.p.a., che consente di adottare le misure necessarie a tutelare le situazioni giuridiche dedotte in giudizio e che, attesa la sua valenza generale ed atipica, non c’è ragione di escludere dal rito appalti, risolvendosi essa in uno strumento di effettività di tutela che si affianca armonicamente alla statuizione prevista dall’art. 122 c.p.a. ( e che, a ben vedere, ne integra una ipotesi applicativa tipica) la cui natura costitutiva ne risulta così ampliata. Come accennato, tale conclusione risulta coerente con quanto affermato dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 17 del 2020, laddove quest’ultima riconosce in linea generale la possibilità del giudice di regolare gli effetti conformativi dell’accoglimento del ricorso (sia pure, in quella sede, per derogare all’effetto retroattivo dell’annullamento in funzione dell’efficacia ex nunc : “Il Consiglio di Stato ha già fatto applicazione di codesti principi (leading case Cons. Stato, sez. VI, n. 2755 del 2011)…la regola dell’annullamento con effetti ex tunc dell’atto impugnato può, sia pure in circostanze assolutamente eccezionali, trovare una deroga, con la limitazione parziale della retroattività degli effetti (si veda, in questo senso, Sez. VI, 9 marzo 2011, n. 1488), o con la loro decorrenza ex nunc. L’ordinamento riconosce la possibilità di graduare l’efficacia delle decisioni di annullamento di un atto amministrativo (cfr. l’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 e l’art. 34, comma 1, lettera a), del Codice del processo amministrativo). È altresì ammessa la possibilità per il giudice amministrativo di modellare nel caso concreto l’efficacia delle sentenze in materia di contratti pubblici (cfr. artt. 121 e 122 del Codice del processo amministrativo).”). ​​​​​​​Appare dunque evidente che, una volta ammessa in linea di principio la possibilità per il giudice amministrativo di modulare l’efficacia della sentenza, nella speciale materia di contratti pubblici, caratterizzata dalla peculiare disciplina di cui agli artt. 121 e 122 c.p.a., non può escludersi che tale facoltà includa, ex art. 34 lett. e) c.p.a., anche quella di disporre opportunamente circa la sorte del contratto, coordinandone l’inefficacia con l’obbligo di ripetizione del procedimento di gara (in tutti quei casi nei quali il giudizio non si concluda con una pronuncia di aggiudicazione o di subentro del ricorrente vittorioso), quando gli interessi dedotti in giudizio, lo richiedano. 
Contratti della Pubblica amministrazione
Mare - Idrocarburi – Permesso di ricerca – Rilascio – Presupposti – Limiti – Deroga – Condizioni – Rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea E’ rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, la questione se la direttiva 94/22/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 maggio 1994 vada interpretata nel senso di ostare ad una legislazione nazionale quale quella descritta, che da un lato individua come ottimale ai fini del rilascio di un permesso di ricerca di idrocarburi un’area di una data estensione, concessa per un periodo di tempo determinato e dall’altro lato consente di superare tali limiti con il rilascio di più permessi di ricerca contigui allo stesso soggetto, purché rilasciati all’esito di distinti procedimenti amministrativi (1). (1) Ha chiarito la Sezione che la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 4 gennaio 2019, n. 92, ha affermato che non esisterebbe una normativa che vieti di concedere ad un stesso soggetto più permessi, con il risultato di superare l’estensione di area massima di cui all’art. 6, l. n. 9 dei 1991. La Sezione ha affermato di non condividere peraltro non condivide l’ulteriore affermazione della sentenza 92/2019, per cui tale divieto non si potrebbe senz’altro desumere dalla normativa europea, ovvero dalla direttiva 94/22/CE anche lì richiamata, la quale si limiterebbe ad affermare il principio di concorrenza. Secondo la sentenza n. 92 del 2019, tale principio sarebbe comunque rispettato se per ogni area delle dimensioni massime indicate la società interessata proponesse un'autonoma istanza esaminata in concorrenza con altre. Si osserva però, che la stessa sentenza in questione finisce per ammettere come questa conclusione non sia assoluta, nel momento in cui ipotizza la possibilità di un’elusione del divieto legislativo proprio attraverso la fittizia frammentazione di un permesso in realtà unico.  
Mare
Covid-19 – Misure di contenimento del contagio – Dispositivi di protezione personale – Obbligo anche durante l'orario scolastico per i bambini fra i 6 e gli 11 anni – Deroghe - d.P.C.M. 3 dicembre 2020 – Mancata previsione – Necessità di disporre incombenti istruttori a carico della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Covid-19
Economia - Carte elettroniche – Utilizzo – Autorizzazione – Preavviso di revoca – Schema di regolamento che modifica d.m. n. 458 del 2001 – Parere del Consiglio di Stato.              Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di regolamento che  interviene sul decreto ministeriale 7 novembre 2001, n. 458 (recante “Regolamento sul funzionamento dell’archivio informatizzato degli assegni bancari e postali e delle carte di pagamento”) a seguito dell'introduzione, con d.lgs. 15 dicembre 2017, n. 218 (art. 6, comma 3), dell’art. 10-ter, l. 15 dicembre 1990, n. 386, mediante il quale viene disciplinato, alla luce delle successive direttive comunitarie e della normazione interna di recepimento, il preavviso di revoca dell'autorizzazione all’utilizzo di carte di pagamento nonché l’annotazione dell’avvenuto pagamento delle ragioni di debito (1).      (1) Ha chiarito la Sezione che lo schema di regolamento sottoposto al suo esame interviene sul decreto ministeriale 7 novembre 2001, n. 458 (recante “Regolamento sul funzionamento dell’archivio informatizzato degli assegni bancari e postali e delle carte di pagamento”) a seguito dell'introduzione, con d.lgs. 15 dicembre 2017, n. 218 (art. 6, comma 3), dell’art. 10-ter, l. 15 dicembre 1990, n. 386, mediante il quale viene disciplinato nello specifico, alla luce delle successive direttive comunitarie e della normazione interna di recepimento, il preavviso di revoca dell'autorizzazione all’utilizzo di carte di pagamento nonché l’annotazione dell’avvenuto pagamento delle ragioni di debito.  Ha chiarito la Sezione che le disposizioni recate dal regolamento in oggetto hanno aggiunto, ai dati contenuti nell’archivio informatizzato degli assegni bancari e postali e delle carte di pagamento (c.d. Centrale di Allarme Interbancaria, CAI), istituito presso la Banca d'Italia con d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, il dato ulteriore relativo all’avvenuto pagamento, effettuato successivamente all'iscrizione nell'archivio (per effetto della revoca dell'autorizzazione all'utilizzo della carta di pagamento), di tutte le ragioni di debito nei confronti dell'emittente.   Il testo interviene, conseguentemente, sulla disciplina della trasmissione dei dati relativi alle carte di pagamento. Contiene, infine, l’aggiornamento dei riferimenti normativi in materia di protezione dati, adeguati ai Regolamenti UE. ​​​​​​​
Economia
Sanità pubblica – Prestazioni odontostomatologiche – Dentisti - Intesa approvata dalla Conferenza Stato-Regioni per l’erogazione di prestazioni odontostomatologiche - Deroghe all’ordinario regime autorizzatorio – Impugnazione - Inammissibilità.       E’ inammissibile il ricorso proposto dall’Associazione nazionale dentisti avverso l’Intesa - approvata dalla Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano, ai sensi dell’art. 8 comma 6, l. n. 131 del 2003 – che ha introdotto deroghe all’ordinario regime autorizzatorio, impugnazione proposta per asserita violazione degli artt. 117 Cost. e 8 comma 6, l. n. 131 del 2003 poiché l’Intesa, priva di natura normativa, in base al dettato dell’art. 120 Cost., comprimerebbe l’autonomia regionale (1) ​​​​​​ (1) La Sezione ha preliminarmente riconosciuto la legittimazione ad agire dell’Associazione nazionale dentisti ad impugnare un atto regolatorio (nella specie, l’Intesa - approvata dalla Conferenza permanente per i rapporti tra Stato - Regioni– che ha introdotto deroghe all’ordinario regime autorizzatorio).  Ha infatti riconosciuto l’esistenza dei presupposti, richiesti dalla giurisprudenza (Cons. St., A.P., 20 febbraio 2020, n. 6; id., sez. III, 7 agosto 2019, n. 5605), per affermare la legittimazione di una associazione rappresentativa di interessi collettivi, e cioè: a) la questione dibattuta deve attenere in via immediata al perimetro delle finalità statutarie dell'associazione e, cioè, che la produzione degli effetti del provvedimento controverso si risolva in una lesione diretta del suo scopo istituzionale, e non della mera sommatoria degli interessi imputabili ai singoli associati; b) l'interesse tutelato con l'intervento deve essere comune a tutti gli associati, che non vengano tutelate le posizioni soggettive solo di una parte degli stessi e che non siano, in definitiva, configurabili conflitti interni all'associazione (anche con gli interessi di uno solo dei consociati), che implicherebbe automaticamente il difetto del carattere generale e rappresentativo della posizione azionata in giudizio; resta, infine, preclusa ogni iniziativa giurisdizionale sorretta dal solo interesse al corretto esercizio dei poteri amministrativi, occorrendo un interesse concreto ed attuale (imputabile alla stessa associazione) alla rimozione degli effetti pregiudizievoli prodotti dal provvedimento controverso (Cons. St., A.P., 2 novembre 2015, n. 9).  La Sezione ha quindi riconosciuto la legittimazione dell’Associazione nazionale dentisti ad agire al fine di vedere eliminato un atto che è volto a conformare il regime autorizzato cui resta soggetto l’esercizio della professione in argomento.   La Sezione ha invece affermato l’inammissibilità dell’impugnazione dell’Intesa che, pur obbligando, sul piano politico e (solo indirettamente) sul piano giuridico, le parti a tenere fede all’impegno assunto, non assume, nell’immediato, una valenza sostitutiva degli atti normativi che i singoli soggetti istituzionali restano, viceversa, chiamati ad adottare né, parimenti, s’impone, nei relativi contenuti, con diretta ed automatica cogenza a questi ultimi, dal momento che non è di certo consentito sovvertire l’ordine costituzionale delle competenze normative essendo la potestà legislativa regionale attribuita, senza deroghe di sorta, ai soli Consigli regionali e quella statale al Parlamento da norme formalmente costituzionali.  La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 361 del 2010 ha, invero, già chiarito che «a livello regionale è solo il Consiglio regionale l'organo titolare del potere legislativo» e che nemmeno la disciplina contenuta nell'art. 120 Cost. può essere interpretata come legittimante il conferimento di poteri legislativi ad un soggetto che sia stato nominato Commissario dal Governo soggiungendo, con la successiva pronuncia n. 278 del 2014, che l'esercizio del potere di cui all'art. 120, comma 2, Cost. non può modificare l'ordine delle attribuzioni, né creare nuovi tipi di atti legislativi di competenza di organi che non hanno funzioni legislative.  Sotto distinto profilo occorre, poi, soggiungere che se è vero che il principio di leale collaborazione, anche in una accezione minimale, impone alle parti che sottoscrivono un accordo ufficiale in una sede istituzionale di tener fede ad un impegno assunto (Corte Costituzionale n. 58 del 2007 e n. 31 del 2006), è altrettanto vero che la declinazione specifica di tale impegno, nella sua portata cogente, rispetto all’esercizio della funzione normativa delle Regioni, vieppiù se a livello legislativo, non è affatto automatica né risulta esplorata, siccome non attuale, la possibilità e le relative forme di interventi sostitutivi ovvero correttivi in attuazione dell’art. 120 Cost..  Deve, dunque, rilevarsi, in via conclusiva, come il documento oggetto di intesa approvato dalla Conferenza Stato – Regioni si riveli, in considerazione sia della sua natura giuridica sia dei suoi specifici contenuti talvolta non definiti e, dunque, bisognevoli di ulteriore sviluppo, strutturalmente e funzionalmente inidoneo ad accreditarsi come fonte contraddistinta da immediata e cogente forza precettiva esaurendo i propri effetti sul piano dei soli rapporti intersoggettivi tra gli Enti che hanno approvato l’intesa senza che ad essi si accompagni l’inserimento di una nuova disciplina, già compiuta, nell’ambito dell’ordinamento giuridico generale.  L’Intesa, infatti, di per sé, non è idonea a ledere direttamente la posizione degli appellanti, né come singoli né come collettività, non avendo il suddetto atto nessuna forza di spiegare, in via autonoma, effetti giuridici nei loro confronti né, dunque, di conformarne la sfera giuridica.  L’Intesa in argomento si inquadra, invero, con valenza meramente preparatoria in una sequenza complessa di atti non ancora perfezionata necessitando della mediazione costitutiva di ulteriori provvedimenti cui si riconnettono, sul piano genetico, gli effetti ritenuti pregiudizievoli e che oggi sono solo preannunciati, futuri e nemmeno così scontati non potendo i successivi ed ulteriori sviluppi tradursi in una mera ed automatica trasposizione del contenuto dell’Intesa nel conseguente provvedimento normativo regionale, immaginando così di poter completamente sterilizzare, in via preventiva, la discrezionalità propria del dibattito interno alle Assemblee regionali: il contenuto dell’intesa dovrà, invero, essere trasfuso in atti normativi delle Regioni ovvero delle Province autonome nel rispetto delle prerogative degli organi legislativi regionali, imputandosi solo alla specifica disciplina di riferimento, una volta adottata e resa efficace secondo i prescritti e tipizzati procedimenti, gli effetti innovativi dell’ordinamento giuridico.  La lesione della sfera giuridica della Associazione potrà quindi configurarsi solo a seguito dell’eventuale recepimento nelle legislazioni regionali, nei termini ritenuti qui penalizzanti, dei principi guida contenuti nell’Intesa de qua.  9.4. D’altro canto, ed ad ulteriore conforto di quanto fin qui evidenziato, è sufficiente notare che, nella stessa prospettazione di parte appellante, vi sarebbero già oggi atti di recepimento non del tutto allineati alle coordinate conformative tracciate nella suddetta Intesa, come ad esempio nel caso della Regione Campania rispetto alla quale gli appellanti evidenziano che “la Regione Campania, con il Decreto n. 10/2018 che ha recepito l’Intesa Stato Regioni del 9/6/2016, ha derogato alla stessa escludendo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 19 della L. n. 241/1990 dall’obbligo di presentazione della SCIA gli studi e gli ambulatori odontoiatrici privati”. ​​​​​​​E lo stesso sarebbe a dirsi sempre secondo gli appellanti – quanto ad una lettura meno stringente dei presupposti operativi dell’autorizzazione – per la Regione Basilicata che, nella LR n. 19 del 24/7/2017, avrebbe imposto l’obbligo di autorizzazione solamente ai centri odontoiatrici che sono costituiti come società, mentre per lo studio odontoiatrico ha previsto la possibilità di inviare una semplice comunicazione all'Asl, nonché, seguendo la stessa esemplificazione contenuta nel mezzo qui in rilievo, per altre iniziative regionali pur adottate in epoca successiva all’Intesa qui impugnata come nei casi della Regione Umbria e della Valle d’Aosta. 
Sanità pubblica
Covid-19 - Sanità - Strutture residenziali e semiresidenziali socio-sanitarie e assistenziali - Personale parasanitario – Assunzione – Delibera di Giunta regionale con assunzione in deroga – Non va sospesa.        Deve essere respinta l’istanza, proposta dalla Federazione Nazionale Migep delle Professioni Sanitarie e Sociosanitarie e da un sindacato degli Operatori Sociosanitari, di sospensione cautelare monocratica della Deliberazione della Giunta Regionale che fornisce indicazioni inerenti la sostituzione del personale nelle strutture residenziali e semiresidenziali socio-sanitarie e socio-assistenziali per anziani, disabili e minori in contesto emergenziale da diffusione covid-19, atteso che la stessa non impedisce a dette strutture di procedere con le assunzioni di Operatori Sociosanitari attingendo alle graduatorie degli idonei o, una volta esaurite dette graduatorie, con bandi di concorso ad hoc (che prevedano, come requisito per poter partecipare, il necessario titolo professionale) (1).  (1) Ha chiarito il decreto che non appare illogico o sproporzionato, in una condizione di emergenza ed in deroga alla disciplina di settore, consentire di assumere anche operatori a supporto, ovvero che lavorino sempre in affiancamento a un Operatore Sociosanitario, che:  stiano frequentando un corso per Operatori Sociosanitari; abbiano conseguito l’attestato di qualifica professionale di assistente familiare; abbiano svolto, con regolare contratto di lavoro, per almeno 6 mesi anche non consecutivi, mansioni di assistenza al domicilio di anziani non autosufficienti o disabili;  a conclusione di un corso di studio di istruzione superiore della durata di 5 anni che si conclude con il rilascio di un diploma di maturità, abbiano conseguito il diploma di Tecnico dei Servizi Socio-Sanitari; abbiano conseguito la laurea triennale in Educazione Professionale (classe di laurea L/SNT2); siano in possesso del titolo di infermiera volontaria (artt. 1729 e ss., d.lgs. n. 66 del 2010).
Covid-19
Professioni e mestieri – Notaio – Consiglio notarile - Spese di funzionamento – Finanziamento – Criterio.              Gli artt. 93, ult. cap., l. n. 89 del 1913 e 14, r.d.l. n. 1324 del 1923 riconoscono a ciascun Consiglio Notarile una potestà impositiva funzionale all’acquisizione, nei confronti di ciascun iscritto, delle risorse necessarie per coprire le spese di funzionamento del Consiglio medesimo, fissando il criterio di “proporzionalità”; le “esigenze di bilancio” del Consiglio notarile, anche alla luce di una “fotografia reddituale” degli iscritti, possano giustificare, di anno in anno, l’adozione di un criterio di quantificazione della tassa mediante aliquote progressive per scaglioni che valorizzino la “componente solidaristica” dell’appartenenza di ciascun iscritto al medesimo Consiglio (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che il Legislatore, negli artt. 93, ult. cap., l. n. 89 del 1913 e 14, r.d.l. n. 1324 del 1923, utilizzando i termini “proporzionale” e “in proporzione”, ha attribuito loro un significato certo e univoco che non lascerebbe spazio ad ulteriori e diverse interpretazioni “controtestuali”.  Il riferimento normativo alla “proporzionalità” in una disposizione risalente al primo Novecento presenta, infatti, uno spazio interpretativo, anche tenendo conto dei principi introdotti dalla Carta costituzionale.  La proporzionalità cui ha riguardo l’art. 93, comma 2, l. n. 89 del 1913, non può essere intesa in modo vincolato, come volta ad imporre l’applicazione di un’aliquota unica, bensì come formula diretta ad esprimere un principio di solidarietà di cui i Consigli notarili devono tener conto in sede di definizione della tassa annuale: un principio secondo cui va chiesto di più a chi è in condizione di dare di più, a fronte di un’utilità restituita in modo eguale per tutti. Si tratta di interpretazione rafforzata alla luce dell’intero ventaglio di principi e valori costituzionali, non solo quello di cui all’art. 53 Cost., con specifico riferimento alla materia tributaria, ma anche, e prima ancora, quelli di uguaglianza sostanziale e solidarietà, di cui agli artt. 3 e 2 Cost..  Alla luce di tali considerazioni, il significato del concetto di “proporzionalità” di cui all’art. 93 ult. cap. della Legge sull’ordinamento notarile può essere inteso come imposizione di una contribuzione “in proporzione” all’aumentare delle possibilità economiche degli iscritti alle spese di funzionamento del Consiglio Notarile Distrettuale, non preclusivo dell’adozione di un sistema di ripartizione della tassa annuale mediante più aliquote per scaglioni.   La norma, in altri termini, non esclude che le “esigenze di bilancio” del Consiglio, anche alla luce di una “fotografia reddituale” degli iscritti, possano giustificare, di anno in anno, l’adozione di un criterio di quantificazione della tassa mediante aliquote progressive per scaglioni che valorizzino la “componente solidaristica” dell’appartenenza di ciascun iscritto al medesimo Consiglio.  Alla luce delle ragioni suesposte, sono manifestamente infondate le questioni di costituzionalità dedotte, nessun contrasto potendo ravvisarsi con l’art. 53 Cost.   Né, d’altra parte, l’interpretazione qui condivisa, rendendo criteri di tassazione diversi nei diversi Collegi notarili, determina per ciò solo un vulnus al principio di uguaglianza, ammettendo un trattamento differente per i notai in dipendenza dell’appartenenza a diversi Collegi notarili.  E’ sufficiente osservare che la tassa è annuale ed è già differenziata sul territorio nazionale, in quanto collegata ai costi di funzionamento dei singoli Consigli Notarili, che ne determinano l’importo, utilizzando come base imponibile l’onorario repertoriale dei singoli notai.  Ciascun Collegio notarile deve, quindi, annualmente motivare le specifiche esigenze di bilancio.  Alla stregua dell’opzione interpretativa suillustrata, quindi, il singolo Collegio notarile, in relazione all’importo da reperire mediante la tassa annuale, di volta in volta valuta se il criterio meccanicamente proporzionale svolga adeguatamente l’indicata funzione solidaristica o se, invece, sia necessario introdurre aliquote differenziate essendo eccessivo il peso prodotto dall’aliquota unica per i notai con onorario repertoriale più basso, come mediamente accade, soprattutto negli ultimi anni, per quelli più giovani. 
Professioni e mestieri
Militari, forze armate e di polizia - Procedimenti disciplinari – Rimborso spese legali – Art. 18, d.l. n. 67 del 1997 – Non spetta. Militari, forze armate e di polizia - Procedimenti disciplinari – Rimborso spese legali – Art. 18, d.l. n. 67 del 1997 – Violazione artt. 3 e 24 Cost. – Manifesta infondatezza.           L’art. 18, d.l. 25 marzo 1997, n. 67, convertito nella l. 23 maggio 1997, n. 135, che prevede il rimborso delle “spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali” non è applicabile al procedimento davanti alla commissione di disciplina, previsto dagli artt. 16 e ss. delle Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale per gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, trattandosi di procedimento di natura disciplinare (1).       E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, d.l. 25 marzo 1997, n. 67, convertito nella l. 23 maggio 1997, n. 135, per la mancata previsione del rimborso delle spese sostenute per la difesa anche nel procedimento davanti alla commissione di disciplina, di cui agli artt. 16 e segg. delle Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., rientrando la disciplina del rimborso delle spese legali nella discrezionalità del legislatore, che deve contemperare la tutela dei dipendenti pubblici con le esigenze dei limiti della spesa pubblica, e non essendo il procedimento disciplinare soggetto alla medesima tutela costituzionale dei procedimenti giurisdizionali ma al rispetto del nucleo essenziale del principio del contraddittorio (2).   (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 18, d.l. 25 marzo 1997, n. 67, convertito nella l. 23 maggio 1997, n. 135, si interpreta nel senso che la spettanza del rimborso è subordinata ad una duplice condizione “a) l'esistenza di un giudizio, promosso nei confronti del dipendente, conclusosi con un provvedimento che abbia definitivamente escluso la sua responsabilità; b) la sussistenza di un nesso tra gli atti e i fatti ascritti al dipendente e l'espletamento del servizio e l'assolvimento degli obblighi istituzionali” (Cons. St., sez. IV, 13 gennaio 2020, n. 280; id. 10 gennaio 2020, n. 239; id. 28 novembre 2019, n. 8137). Il “giudizio” in base alla lettera della legge non può, dunque, che essere ricondotto ad un procedimento giurisdizionale, civile, penale, o davanti alla Corte dei Conti. Trattandosi del riconoscimento di un beneficio di carattere economico a carico dell’erario previsto dal legislatore per i dipendenti pubblici, la relativa disciplina non può essere estesa in via analogica ad altre fattispecie e a differenti presupposti. Le disposizioni dell’art. 18, d.l. n. 67 del 1997 e le analoghe disposizioni previste per gli enti locali non sono suscettibili di interpretazione analogica, né estensiva, trattandosi di “materia disciplinante, secondo parametri di rigore e tassatività, le modalità ed i presupposti sostanziali di impiego di denaro pubblico” (cfr. Cass. civ., sez. III, 25 settembre 2014, n. 20193 con riguardo al rimborso delle spese di un procedimento penale richiesto da un assessore comunale, non legato da un rapporto organico di dipendenza con l’ente). (2) La Sezione ha escluso che siano configurabili profili di incostituzionalità della norma. Con riferimento all’art. 24 Cost. è evidente che non sussiste alcuna violazione di tale disposizione, trattandosi di un procedimento disciplinare amministrativo non integralmente coperto da tale norma a tutela del diritto di difesa nei procedimenti giurisdizionali. La Corte costituzionale ha, infatti, affermato che la garanzia costituzionale del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. si dispiega nella sua pienezza solo rispetto ai procedimenti giurisdizionali, e non può, quindi, essere invocata in materia di procedimento disciplinare che, viceversa, ha natura amministrativa e sfocia in un provvedimento non giurisdizionale, rispetto ai quali si riflette in maniera attenuata con il rispetto delle norme che regolano il procedimento amministrativo relative alla imparzialità, alla trasparenza e alla partecipazione (sentenze n. 505 del 14 dicembre 1995; n. 460 del 3 novembre 2000). In particolare, nei procedimenti disciplinari che possono concludersi con sanzioni afflittive delle condizioni di vita della persona, incidendo in maniera determinante sulla sfera lavorativa delle stessa, si richiede il rispetto delle garanzie procedurali per la contestazione degli addebiti e per la partecipazione dell'interessato al procedimento, in quanto, in base ai principi che ispirano la disciplina del “patrimonio costituzionale comune” relativo al procedimento amministrativo, desumibili dagli obblighi internazionali (art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali), dall’ordinamento comunitario (art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) e dalla legislazione nazionale (legge n. 241 del 1990), vanno garantiti all'interessato alcuni essenziali strumenti di difesa, quali la conoscenza degli atti che lo riguardano, la partecipazione alla formazione dei medesimi e la facoltà di contestarne il fondamento e di difendersi dagli addebiti (sentenza n. 182 del 30 maggio 2008, che ha escluso la violazione dell’art. 24 della Costituzione per la mancata previsione della possibilità di nominare quale difensore un avvocato nei procedimenti disciplinari degli appartenenti all’amministrazione di pubblica sicurezza, in quanto, “anche se il legislatore potrebbe nella sua discrezionalità prevederla seguendo un modello di più elevata garanzia… la norma consente all'inquisito di partecipare al procedimento e di difendere le proprie ragioni”). Con particolare riferimento al procedimento disciplinare relativo ai dipendenti delle forze armate, la Corte ha affermato che il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. non si estende, nel suo pieno contenuto, oltre la sfera della giurisdizione sino a coprire ogni procedimento contenzioso di natura amministrativa, nel quale tuttavia deve essere salvaguardata “una possibilità di contraddittorio” che garantisca il nucleo essenziale di valori inerenti ai diritti inviolabili della persona quando possono derivare per essa sanzioni che incidono su beni, quale il mantenimento del rapporto di servizio o di lavoro, che hanno rilievo costituzionale (sentenza n. 356 del 24 luglio 1995). Rispetto a tale consolidata giurisprudenza costituzionale - che ha ricondotto il diritto di difesa, nell’ambito dei procedimenti disciplinari amministrativi, al nucleo essenziale del rispetto del principio del contraddittorio, tramite la previa contestazione degli addebiti e la possibilità di partecipazione al procedimento - non può quindi ritenersi che dall’art. 24 Cost. discenda un vincolo per il legislatore di assicurare per i dipendenti pubblici sottoposti ad un procedimento disciplinare, pur se connotato da alcuni risvolti peculiari, quale quello previsto dalle Disp. att. c.p.p. in relazione alla specialità delle funzioni svolte, la medesima disciplina, oltretutto di carattere economico, prevista per i procedimenti giurisdizionali. Quanto alla lamentata irragionevolezza, la scelta di ampliare il beneficio del rimborso delle spese legali anche al di fuori delle ipotesi già previste dalla legge appartiene evidentemente alla discrezionalità del legislatore, che nel caso di specie, non si può ritenere essere stata esercitata in maniera manifestamente illogica o irragionevole, tenuto conto della diversa natura del procedimento giurisdizionale rispetto a quello disciplinare e della esigenza di contemperare la tutela dei dipendenti pubblici con quelle generali dei limiti della spesa pubblica (cfr. Cass. civ. Sez. Unite, 6 luglio 2015, n. 13861, che con riferimento alla disciplina dell’art. 18, d.l. n. 67 del 1997 e alla compatibilità costituzionale del giudizio di congruità da parte dell’Avvocatura dello Stato, ha richiamato il “dovere del legislatore di tener conto delle esigenze di finanza pubblica, che impongono di non far carico all'erario di oneri eccedenti quanto è necessario, e al contempo sufficiente, per soddisfare gli interessi generali e i doveri giuridici che presidiano l'istituto del rimborso spese”).  
Militari, forze armate e di polizia
Processo amministrativo – Deposito sentenza appellata -  Contratti della pubblica amministrazione – Gara - Offerta  ​​​​​Anche nel regime del processo amministrativo telematico vige l’obbligo, imposto dall’art. 94, comma 1, c.p.a., di depositare entro il termine di decadenza di 30 giorni (ovvero 15 giorni nei riti abbreviati) dalla notificazione dell’appello la copia (anche non autentica) della sentenza gravata a pena di inammissibilità. Tale previsione è funzionale a garantire esigenze di ordine pubblico processuale, indisponibili per le parti private, strumentali al regolare svolgimento del giudizio.   L'obbligo di indicazione del codice identificativo di gara (CIG) attiene non alla fase di scelta del contraente, ma alla fase esecutiva del procedimento di gara, ed in particolare alla stipula del contratto, essendo la stessa essenzialmente funzionale alla tracciabilità dei flussi finanziari, secondo quanto inferibile dall'art. 3, comma  5, della legge. n. 136/2010.   L’omesso pagamento del contributo ANAC non può essere considerato causa di inammissibilità delle offerte o di loro esclusione, ciò tanto più qualora l’omessa indicazione del CIG nel bando non abbia posto i concorrenti in condizione di versare il contributo.
Processo amministrativo
Processo amministrativo – Termine per l’impugnazione - Titoli edilizi – Dies a quo – Individuazione.   Processo amministrativo – Interesse a ricorrere – Edilizia – Titoli edilizi - Vicinitas – Limiti.  Il momento da cui computare i termini decadenziali di proposizione del ricorso nell’ambito dell’attività edilizia deve essere individuato nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area ovvero laddove si contesti la violazione delle distanza; viceversa esso decorre dal completamento dei lavori o dal grado di sviluppo degli stessi, ove si contesti il dimensionamento, la consistenza ovvero la finalità dell’erigendo manufatto.         In materia edilizia, la vicinitas non rappresenta un dato decisivo per fondare l’interesse ad impugnare, nel senso che di per sé non è sufficiente, dovendosi dimostrare che l’intervento contestato abbia capacità di propagarsi sino a incidere negativamente sul fondo del ricorrente (2).         (1) Cons. St., sez. IV, n. 5754 del 2017; sez. VI, n. 4830 del 2017; sez. IV, n. 3067 del 2017; id., 15 novembre 2016, n. 4701; id., n. 1135 del 2016; id., nn. n. 4909 e 4910 del 2015. Ha poi ricordato la Sezione che giurisprudenza (Cons. St., sez. IV, 23 maggio 2018, n. 3075) ha avuto modo di chiarire che la “piena conoscenza” non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere riconoscibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso. Vi è dunque “piena conoscenza” quando si è consapevoli dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività e tale consapevolezza determina la sussistenza di una condizione dell’azione, l’interesse al ricorso, mentre la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione.   (2) Cons. St., sez. IV, 19 novembre 2015, n. 5278. L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il titolo edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere è stata infatti superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, deve essere concretamente indagato e accertato anche l'interesse ad agire. Questo indirizzo valorizza ragioni di coerenza con i principî generali sulle condizioni per l'azione nel processo amministrativo (Cons. St., A.P., 25 febbraio 2014, n. 9; successivamente, sez. IV, 19 novembre 2015, n. 5278 citata; per ultimo sez. IV, 5 febbraio 2018, n. 707). D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati può non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna vicenda contenziosa non appare evidente come la trasformazione edilizia contestata potesse incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica delle ricorrenti. Queste ultime hanno addotto a giustificazione del loro interesse all’impugnazione un generico profilo di depauperamento della condizione edilizia della zona. La sussistenza dunque del requisito della mera vicinitas non costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente (Cons. St., sez. V, 15 dicembre 2017, n. 5908). In chiave comparata, peraltro, è utile ricordare che già in altri ordinamenti europei (ad esempio in Francia) , a proposito dell’interesse a ricorrere contro un permesso di costruire, si richiede, nell’idea di considerare anche la sicurezza giuridica dei titoli autorizzatori (nel caso in esame rilasciati 3 anni prima), la dimostrazione puntuale dello stesso (cfr. Conseil d'État, 17 marzo 2017, n. 396362 e l’art. L-600.1.2 del Code de l'urbanisme, nel testo introdotto con ordinanza n. 2013-638 del 18 luglio 2013, che stabilisce che l'impugnazione di un permesso di costruire richiede la dimostrazione che l'intervento edilizio sia tale da incidere in modo diretto sul godimento di un bene da parte del ricorrente).
Processo amministrativo
Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione - Perdita del raggruppamento temporaneo di imprese - Modifica soggettiva del Rti – Anche in fase di gara – Rimessione all’Adunanza plenaria   E’ rimessa all’Adunanza plenaria la questione se sia possibile interpretare l’art. 48, commi 17, 18 e 19–ter, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 nel senso che la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese in caso di perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80 dello stesso Codice dei contratti da parte del mandatario o di una delle mandanti è consentita non solo in fase di esecuzione, ma anche in fase di gara; in caso di risposta positiva alla prima domanda va precisata la modalità procedimentale con la quale detta modifica possa avvenire, se, cioè, la stazione appaltante sia tenuta, anche in questo caso, ed anche qualora abbia già negato la autorizzazione al recesso che sia stata richiesta dal raggruppamento per restare in gara avendo ritenuto intervenuta la perdita di un requisito professionale, ad interpellare il raggruppamento, assegnando congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere la propria partecipazione alla gara (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che nella sentenza dell’Adunanza plenaria 27 maggio 2021, n. 10, la modificabilità del raggruppamento per la perdita di requisiti di cui all’art. 80 del codice dei contratti in capo alla mandataria o ad una delle mandanti in fase di gara è detta non ammissibile incidentalmente, nel corso, cioè, della trattazione dedicata alla questione centrale della quale l’Adunanza plenaria era stata investita dal giudice rimettente, e dunque, senza che siano stati spesi argomenti a supporto di tale conclusione, (se non il mero richiamo alle sentenze della Quinta sezione alla delibera dell’Anac), né tantomeno messi a confronto gli opposti orientamenti.  ​​​​​​​Ha aggiunto che l’interpretazione delle disposizioni rilevanti è sicuramente connotata da alto livello di problematicità in quanto:  il dato letterale, a ben riflettere, non pare decisivo per ricavare la regola della fattispecie: l’inciso “in corso di esecuzione” riferito al caso di perdita dei requisiti di partecipazione, senza che lo si dica inutile o superfluo come fatto dal giudice di primo grado, od anche illogico, potrebbe essere stato avvertito dal legislatore come precisazione necessaria per evitare il possibile dubbio interpretativo che il richiamo ai “requisiti di cui all’art. 80” vale a dire a quei requisiti – e a quell’articolo del codice – la cui verifica si compie in fase procedurale avrebbe potuto far sorgere circa l’effettivo ambito applicativo della disposizione. ​​​​​​​Si aggiunga che risponde a logica l’argomento per il quale se il legislatore, introducendo il comma 19 – ter all’interno dell’art. 48 del Codice, avesse voluto far eccezione alla deroga e ripristinare il principio di immodificabilità del raggruppamento in caso di perdita dei requisiti generali di cui all’art. 80 del codice in fase di gara, la via maestra sarebbe stata quella di operare la distinzione all’interno dello stesso comma 19 – ter, senza dar vita ad un arzigogolo interpretativo; rinviando alle “modifiche soggettive” contemplate dai commi 17, 18 e 19, invero, la norma pianamente dice suscettibili di portare alla modifica del raggruppamento in fase di gara tutte le sopravvenienze ivi previste, compresa la perdita dei requisiti generali. Ad ogni modo non si può negare che occorra superare in sede interpretativa una distonia e contraddizione tra le norme che sembra ricorrere su di un duplice piano: sul piano interno, poiché non può negarsi che, a voler seguire una certa interpretazione tra le due possibili, si finisce coll’ammettere la modifica soggettiva del raggruppamento in corso di gara in caso di impresa sottoposta a procedura concorsuale o raggiunta da interdittiva antimafia e non invece nel caso in cui la stessa abbia perduto qualcuno dei requisiti generali di partecipazione: vero che ciascuna vicenda ha la sua peculiarità, ma resta il fatto che la permanenza in gara o l’esclusione di un operatore economico dipende da situazioni che tutte possono essere ricondotte quoad effectum (e, dunque unitariamente assunte in sede di interpretazione del dato normativo) alla perdita dell’integrità dell’operatore economico per la sua condotta professionale (es. il mancato versamento di contributi previdenziali o il mancato pagamento dei tributi, ma anche il dubbio circa l’idoneità morale conseguente all’adozione di uno dei provvedimenti della normativa antimafia) o alla perdita dell’affidabilità circa la sua capacità di eseguire le prestazioni oggetto del contratto in affidamento (i pregressi inadempimenti, specialmente se intervenuti con la stessa stazione appaltante, ma anche lo stato di decozione comportante l’assoggettamento alla procedura concorsuale), e delle quali indubbiamente quelle che consentono la modifica soggettiva risultano per più versi maggiormente allarmanti per l’interesse pubblico delle altre per le quali si viole escluso.  Sempre sul piano interno, perché è consentita la modifica soggettiva del raggruppamento anche in caso di perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80 in fase di esecuzione, quand’ormai la stazione appaltante ha ben poche possibilità di vagliare l’affidabilità del raggruppamento per come riorganizzatosi al venir meno di un suo componente, con ogni possibile incertezza sulla residuata capacità di esecuzione, e non in fase di gara quando è ancora in tempo ad effettuare ogni verifica sui rimanenti componenti. ​​​​​​​Sul piano esterno, perché se è vero che la deroga al principio di immodificabilità dei raggruppamenti per sopravvenuto assoggettamento a procedura concorsuale di un soggetto aggregato o per adozione nei suoi confronti di una misura prevista dalla normativa antimafia evita che le vicende dell’uno possano ripercuotersi su tutti gli altri, in situazioni in cui non sia incisa la capacità complessiva dello stesso raggruppamento che, riorganizzatosi al suo interno, si ancora in grado di garantire l’esecuzione dell’appalto (da ultimo, così è spiegata la deroga proprio dall’Adunanza plenaria n. 10 del 2021, al par. 25) – a sua volta eliminando quelle giustificate preoccupazioni (di non poter aggiudicarsi e concludere l’esecuzione dell’appalto per colpa di uno degli associati) dell’imprese con la finalità di favorire le aggregazioni di imprese, e, in ultima analisi, ampliare il campo degli operatori economici che possono aspirare all’aggiudicazione di pubbliche commesse – è fuor di dubbio, seguendo questa via di ragionamento, queste stesse ragioni possano condurre a dire giustificata la deroga all’immodificabilità del raggruppamento per la perdita dei requisiti generali di partecipazione e, specularmente, a dire non giustificato un diverso trattamento di detta vicenda. ​​​​​​​Quanto sopra è tanto più vero ove si consideri che nessuna delle ragioni che sorreggono il principio di immodificabilità della composizione del raggruppamento varrebbero a spiegare in maniera convincente il divieto di modifica per la perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80 in sede di gara: non la necessità di evitare che la stazione appaltante si trovi ad aggiudicare la gara e a stipulare il contratto con un soggetto del quale non abbia potuto verificare i requisiti, generali o speciali di partecipazione in quanto, una volta escluso dall’Adunanza plenaria nella sentenza n. 10 del 2021 la c.d. sostituzione per addizione, tale evenienza non potrà giammai verificarsi quale che sia la vicenda sopravvenuta per la quale sia venuto meno uno dei componenti del raggruppamento, né la tutela della par condicio dei partecipanti alla procedura di gara, che è violato solo se all’uno è consentito quel che all’altro è negato, ma qui tutti sono trattati allo stesso modo perché possono alle stesse condizioni pervenire all’aggiudicazione della procedura di gara, ossia a condizione che sia garantito l’integrale e continuativo possesso dei requisiti di partecipazione a partire dalla presentazione della domanda e fino all’esecuzione del contratto, situazione che, a ben vedere, ricorre sempre, quale che sia la ragione per la quale uno dei componenti del raggruppamento viene meno se gli altri sono in grado di garantire con i loro requisiti la corretta esecuzione del contratto. ​​​​​​​Infine, valga la seguente riflessione: per quanto detto in precedenza, se vietare la modifica soggettiva al raggruppamento del quale uno dei componenti sia incorso in perdita dei requisiti di partecipazione in fase di gara, ma che sia comunque capace di eseguire il contratto in affidamento, non apporta alcun vantaggio alla stazione appaltante per la quale, rispettata quest’ultima condizione, quale che sia il numero dei componenti il raggruppamento, resta comprovata l’affidabilità dell’operatore, innegabile, invece, è il vantaggio per le imprese che, da un lato, hanno la necessità di raggrupparsi per poter competere in taluni segmenti di mercato, e dall’altro, subirebbero ingiustamente effetti negativi di altrui condotte che non hanno in alcun modo potuto evitare.  
Contratti della Pubblica amministrazione
Informativa antimafia - Controllo giudiziario  - Esito favorevole del controllo – Illegittimità dell’informativa – Esclusione.            Dal provvedimento favorevole, emanato all’esito del periodo di controllo giudiziario, che afferma l’inesistenza, a quella data, di elementi che possano far desumere l’esistenza di un rischio infiltrativo attuale, non può desumersi l’illegittimità dell’informativa antimafia resa in precedenza (1).     (1) Ha chiarito la Sezione che la valutazione del giudice della prevenzione penale circa l’assenza di elementi che lascino supporre una disponibilità attuale dell’impresa a condizionamenti illeciti attiene ad un profilo diverso ed ulteriore (l’accertamento della c.d. “messa a disposizione”) rispetto alla ricognizione probabilistica del rischio di infiltrazione, che costituisce invece presupposto del provvedimento prefettizio; ma soprattutto si colloca in un momento a questo successivo.  Non è peraltro casuale che nella sistematica normativa il controllo giudiziario presuppone l’adozione dell’informativa: rispetto alla quale rappresenta un post factum.  Pretendere di sindacare la legittimità del provvedimento prefettizio alla luce delle risultanze del (successivo) controllo giudiziario, finalizzato proprio ad un’amministrazione dell’impresa immune da (probabili) infiltrazioni criminali, appare dunque operazione doppiamente viziata: perché inevitabilmente diversi sono gli elementi fattuali considerati – anche sul piano diacronico – nelle due diverse sedi, ma soprattutto perché diversa è la prospettiva d’indagine, id est l’individuazione dei parametri di accertamento e di valutazione dei legami con la criminalità organizzata.  La valutazione finale del giudice della prevenzione penale si riferisce dunque alla funzione tipica di tale istituto, che è un controllo successivo all’adozione dell’interdittiva, ed ha riguardo alle sopravvenienze rispetto a tale provvedimento. ​​​​​​​
Informativa antimafia
Processo amministrativo – Giudizio cautelare - Appello cautelare – Decreto monocratico del Tar – Non luogo a provvedere.           Deve essere dichiarato il non luogo a provvedere sulla proposizione dell’appello avverso un decreto cautelare presidenziale, rappresentando lo stesso un rimedio giuridico inesistente secondo il vigente tessuto processuale poiché, ai sensi dell’art. 56, comma 2, c.p.a.; sulle istanze di rimedi giuridici inesistenti non vi è luogo a provvedere, perché non vi è luogo a incardinare una fase o grado di giudizio, esulando dalle competenze presidenziali l’esercizio di qualsivoglia potere processuale non previsto da nessuna disposizione di legge, sia nel senso che non è possibile provvedere sul merito della richiesta, sia nel senso che non è possibile rimettere l’affare all’esame del collegio (1).    (1) É stato chiarito nel decreto che il ricorso risulta depositato e iscritto a ruolo mediante una “forzatura” del sistema informatico, con attribuzione della classificazione errata quale “appello avverso ordinanza cautelare”, essendo inesistente la tipologia “appello avverso decreto cautelare”; per ragioni di economia processuale il sistema informatico non dovrebbe consentire il deposito e iscrizione a ruolo di istanze non previste dall’ordinamento. Per tale profilo organizzativo il decreto è stato trasmesso, per conoscenza e competenza, al Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa.
Processo amministrativo
Commercio – Pagamenti - Utilizzo degli strumenti di pagamento elettronici – Schema di regolamento – Parere della sez. atti normativi del Consiglio di Stato – Precisazione soggetto deputato al controllo e chiarimento su "medesimo acquisto" – Necessità.              Nel Regolamento in materia di condizioni e criteri per l’attribuzione delle misure premiali per l’utilizzo degli strumenti di pagamento elettronici, ai sensi dell’art. 1, commi da 288 a 290, l. 27 dicembre 2019, n. 160 occorre indicare chiaramente il soggetto deputato al controllo e chiarire cosa si intenda per "medesimo acquisto", ossia se questo sia riferibile all'acquisto di un bene singolo o se, in tale nozione, rientri anche l'ipotesi di acquisto simultaneo di plurimi beni presso il medesimo esercente in un certo arco temporale (1).      (1) Il Regolamento in materia di condizioni e criteri per l’attribuzione delle misure premiali per l’utilizzo degli strumenti di pagamento elettronici (cashback) è adottato ai sensi dell’art. 1, commi da 288 a 290, l. 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio di previsione pluriennale per il triennio 2020-2022), cioè dei rimborsi in denaro spettanti nella misura del 10 per cento di ogni pagamento a coloro che volontariamente si siano registrati su apposita app e che abbiano realizzato almeno 50 transazioni con strumenti di pagamento elettronici su base semestrale sino ad un soglia massima complessiva di 1.500 euro per semestre.  La Sezione ha reso parere favorevole con osservazioni.  In primo luogo la Sezione ha evidenziato che il parere favorevole reso dal Garante per la protezione dei dati personali prot. n. 174 del 13 ottobre 2020 è stato adottato per ragioni di urgenza e di indifferibilità dal Presidente della predetta Autorità e dovrà, pertanto, essere ratificato entro trenta giorni dal Collegio del Garante, a pena di perdita di efficacia ex tunc, ai sensi dell’art. 5, comma 8, del Regolamento n. 1 del 2000 sull’organizzazione ed il funzionamento dell’Ufficio del Garante.   Di conseguenza la Sezione ha subordinato il proprio parere favorevole sullo schema di regolamento alla tempestiva ratifica, da parte del Collegio del Garante, del menzionato parere reso dal Presidente del Garante in data 13 ottobre 2020. In mancanza, infatti, il parere favorevole espresso dal Presidente del Garante dovrà essere considerato tamquam non esset e non si potrà, pertanto, dare ulteriore corso al regolamento in esame.   La Sezione ha poi rilevato che il parere favorevole reso dal Garante per la protezione dei dati personali è espressamente “formulato unicamente in relazione all’utilizzo dell’APP IO, e dell’insieme dei sistemi e delle componenti tecnologiche messe a disposizione da PagoPA, ai fini della realizzazione del Sistema Cashback”.  Il Garante, inoltre, ha reputato che la medesima APP IO deve essere vista “quale punto unico di accesso telematico per i cittadini ai servizi in rete della pubblica amministrazione (art. 64-bis CAD)”, riservandosi, in sede di verifica preventiva della valutazione di impatto compiuta dal Ministero dell’economia e delle finanze, l’esame delle “caratteristiche dell’APP IO su cui sono già state formulate alcune osservazioni nel provvedimento n. 102 del 12 giugno 2020 […], relative, in particolare, al previsto utilizzo di notifiche push, all’attivazione automatica di servizi non espressamente richiesti dall’utente, nonché al trasferimento di dati personali verso Paesi terzi […]”. Di conseguenza, il parere reso dalla Sezione, in consonanza ed in continuità a quello espresso dal Garante per la protezione dei dati personali, è limitato alla sola ipotesi di utilizzo della APP IO da parte degli aderenti al programma, precisandosi inoltre che, allo stato attuale, avendo il Garante per la protezione dei dati personali formulato il proprio parere “unicamente in relazione all’utilizzo dell’APP IO”, non è possibile consentire agli “Issuer convenzionati” l’utilizzo di sistemi alternativi alla suddetta APP IO per l’adesione al programma (art. 1, comma 1, lett. g) ed art. 3, comma 2, del regolamento in esame), utilizzo quest’ultimo non vietato ma da sottoporre all’esame preventivo del Garante per la privacy, stante l’evidente impatto del presente regolamento sulla delicata materia della protezione dei dati personali.  Infine, per evitare che le aspettative in capo agli aderenti al programma sull’erogazione del rimborso in denaro possano essere (pure solo in parte) disattese, la Sezione ha ritenuto necessaria la previa verifica delle coperture finanziarie da parte della Ragioneria generale dello Stato prima dell’adozione finale del regolamento in esame. 
Commercio
Concorrenza – Vendite piramidali – Individuazione – Fattispecie.          Si viola la concorrenza perchè si crea non una rete di vendita multilivello, bensì un sistema piramidale di acquisto da parte dei consumatori che vengono fittiziamente reclutati come incaricati alle vendite nel caso in cui  ci sia una assoluta prevalenza dei proventi connessi al reclutamento e all’autoconsumo su quelli derivanti dalle vendite dirette e l’incaricato sia principalmente indotto a reclutare nuovi consumatori anche per recuperare quanto inizialmente versato (1).       (1) Nella specie la Sezione ha rilevato che la società sanzionata commercializzava bevande a base di caffe per il tramite di un sistema di vendita che prevede un accordo d’intermediazione alle vendite con incaricati, ai sensi della l. n. 173 del 2005; gli incaricati intermediano la vendita dei prodotti della società a fronte di una commissione sostanzialmente parametrata al volume di vendite realizzate;  il prodotto viene direttamente venduto dalla società al cliente; il sistema prevede che un incaricato possa favorire l’ingresso di altro incaricato; a fronte di tale ingresso, l’incaricato “reclutante” potrà ricevere una commissione anche dalle vendite effettuate dall’incaricato reclutato e dagli incaricati da quest’ultimi reclutati fino a un certo limite; il sistema d’incentivo prevede che gli incaricati, sia in sede di reclutamento, sia successivamente, possono acquistare i prodotti della società;- per l’acquisto di tali prodotti il soggetto reclutante può avere una commissione sugli acquisti dell’incaricato reclutato; il sistema di remunerazione della società non prevede alcun bonus realizzato per il solo reclutamento di un incaricato, ma bonus sempre collegati alla vendita dei prodotti; L’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha avviato nei confronti della società un procedimento istruttorio, per presunta violazione degli artt. 20, 21, comma 1, lett. b) e c), e 23, lett. p) e s), d.lgs. n. 206 del 2005. In particolare, la condotta contestata consisteva nella creazione e gestione di un articolato sistema con caratteristiche piramidali, di promozione e commercializzazione di bevande a base di ganoderma, a cui venivano attribuiti nei claims pubblicitari particolari proprietà benefiche e/o salutistiche, non comprovate sul piano scientifico. Conclusa l’istruttoria l’Autorità ha deliberato che la pratica commerciale doveva ritenersi scorretta, ai sensi degli artt. 20, 21, comma 1, lettere b) e c), 23, lett. p) e s), del Codice del consumo, sotto due profili: da un lato, perché idonea a generare affidamento sulle inesistenti proprietà salutistiche delle bevande pubblicizzate; dall’altro lato, in ragione del carattere piramidale del sistema di commercializzazione e vendita. Ha ricordato la Sezione che nella letteratura di settore viene denominato “multilivello” il sistema di vendita realizzata fuori dai locali commerciali, in cui l’impresa attribuisce agli incaricati non solo il compito di vendere i prodotti o servizi, ma anche quello di invitare i consumatori a partecipare alla rete commerciale, attraverso la sottoscrizione di un contratto di incarico. Trattasi di una organizzazione gerarchica, ove ciascun incaricato potrà guadagnare una percentuale commisurata ai prodotti venduti da lui e da tutti gli incaricati che discendono direttamente ed indirettamente dalle proprie linee di vendita. I profitti rappresentati dai bonus sono quindi commisurati al posizionamento dell’incaricato nella rete. Le vendite piramidali sono anch’esse caratterizzate da un sistema commerciale multilivello ‒ rappresentato cioè da una rete di venditori strutturata su scala gerarchica interna ‒, nel quale tuttavia l’obiettivo commerciale primario non è collocare sul mercato il bene o servizio, bensì reclutare un numero maggiore di incaricati, il cui accesso nella rete è subordinato, sotto diverse forme, al pagamento di una «fee» che rappresenta l’introito maggiore dell’impresa. In definitiva, mentre una società che opera attraverso forme di vendita diretta multilivello retribuisce i propri agenti o venditori riconoscendo loro delle provvigioni direttamente proporzionali al valore o alla quantità del bene venduto, personalmente o per il tramite di altri soggetti che si è riusciti ad includere nella struttura, in un’organizzazione piramidale il sistema finisce per svincolarsi completamente dai risultati della vendita dei beni e servizi. Poiché il meccanismo della vendita piramidale comporta l’obbligo di pagamenti da parte dei soggetti che vogliano entrare nella rete dei venditori, il neo-affiliato, non appena avuto accesso alla struttura piramidale, avrà infatti come obiettivo primario la ricerca di altri venditori ai quali far pagare il diritto d’accesso alla catena o comunque la permanenza nella stessa, i quali a loro volta ne cercheranno altri e così via in un esercizio finalizzato a farlo avanzare nella scala gerarchica dei venditori, condizione che gli consente di percepire compensi per effetto di incaricati che siano posizionati sotto di lui. Il sistema è destinato a saturarsi una volta che risulti impossibile reclutare ulteriori aderenti, con il risultato che gli aderenti collocati nei livelli più bassi della struttura sopporteranno in via definitiva il costo dovuto dal pagamento della fee d’ingresso che non sono riusciti a “scaricare” su un livello ancor più basso. Per questo motivo, le forme di vendita con caratteristiche piramidali costituiscono una fattispecie di reato ‒ tipizzata al comma 1 dell’art. 5, l. 17 agosto 2005, n. 173, la quale fa divieto della «promozione e la realizzazione di attività e di strutture di vendita nelle quali l'incentivo economico primario dei componenti la struttura si fonda sul mero reclutamento di nuovi soggetti piuttosto che sulla loro capacità di vendere o promuovere la vendita di beni o servizi determinati direttamente o attraverso altri componenti la struttura» ‒, punita con la pena alternativa dell’arresto da sei mesi ad un anno o dell’ammenda da € 100.000 a € 600.000 (art. 6, l. n. 173 del 2005). La tutela così apprestata dall’ordinamento si rivolge, tanto al consumatore finale, quanto ai venditori vicini alla base della “piramide”: questi ultimi, infatti, sono di fatto costretti ad acquistare quantità sproporzionate di beni e servizi che non riusciranno poi a loro volta a vendere se non cagionando danni ai consumatori finali, pregiudizi rappresentati da prezzi o interessi eccessivi. La “debolezza” di dei venditori finali è caratterizzata, al pari di quella dei consumatori finali, da una situazione di squilibrio informativo (rispetto ai promotori dell’attività di vendita piramidale), cui si aggiunge, il più delle volte, una condizione di precarietà economica e sociale. L’art. 6, l. n. 173 del 2005 elenca una serie di elementi presuntivi tipici di un sistema illecito, identificabili nei seguenti obblighi: di acquistare dall’azienda o da terzi una rilevante quantità di prodotto, senza che vi sia diritto di restituzione dell’invenduto; di corrispondere un’ingente somma all’entrata nel sistema, in assenza di una reale controprestazione; di acquistare, all’entrata del sistema, prodotti o servizi non strettamente necessari o comunque sproporzionati all’attività commerciale svolta. L’ordinamento giuridico prende in separata considerazione il caso in cui la figura dell’incaricato alle vendite si sovrappone a quella di “consumatore”. A questa ipotesi si riferisce l’art. 23, comma 1, lett.  p), del Codice del consumo, il quale ‒ all’interno della lista delle pratiche commerciali considerate «in ogni caso» ingannevoli ‒ contempla la condotta del professionista che avvia, gestisce o promuove «un sistema di promozione a carattere piramidale nel quale il consumatore fornisce un contributo in cambio della possibilità di ricevere un corrispettivo derivante principalmente dall’entrata di altri consumatori nel sistema piuttosto che dalla vendita o dal consumo di prodotti». La previsione è riferita alle vendite multilivello che inducono gli incaricati all’acquisto dei prodotti per uso personale. Il fondamento della citata disposizione è qui quella di contrastare i sistemi distributivi basati sul progressivo ampliamento della base di consumatori reclutati con la prospettiva illusoria di ingenti guadagni. Poiché anche le microimprese sono oramai incluse tra i soggetti tutelati dalla disciplina dettata per le pratiche commerciali scorrette, deve ritenersi ‒ in assenza di una disposizione analoga a quella che il legislatore ha espressamente inserito per escludere l’applicabilità della tutela prevista dal codice del consumo in materia di pubblicità ingannevole per le microimprese (art. 19, comma 1, del Codice del consumo) ‒ che l’ambito applicativo dell’art. 5, n. 173 del 2005 sia limitato ai soli rapporti tra soggetti in cui quello tutelato non è, né il consumatore, né la micro-impresa. La Corte di Giustizia ha avuto modo di affermare che il divieto di «sistemi di promozione a carattere piramidale», ai sensi dell’allegato I, punto 14, della direttiva 2005/29, si fonda su tre condizioni cumulative. Innanzitutto, la promozione è basata sulla promessa che il consumatore avrà la possibilità di realizzare un beneficio economico. Poi, l’avveramento di tale promessa dipende dall’ingresso di altri consumatori in un siffatto sistema. Infine, la parte più consistente delle entrate che consentono di finanziare il corrispettivo promesso ai consumatori non risulta da un’attività economica reale (sentenza del 3 aprile 2014, C‑515/12, punto 20). In assenza di una reale attività economica che consenta di generare entrate a sufficienza per finanziare il corrispettivo promesso ai consumatori, un sistema di promozione a carattere piramidale inevitabilmente si fonda sul contributo economico dei suoi partecipanti, giacché la possibilità che un aderente a detto sistema ottenga un corrispettivo dipende principalmente da quanto versato dagli ulteriori aderenti (sentenza del 3 aprile 2014, C‑515/12, punto 21). Un sistema di questo genere presenta inevitabilmente «carattere piramidale» nel senso che la sua perpetuazione richiede l’adesione di un numero sempre crescente di nuovi partecipanti onde finanziare i corrispettivi versati ai membri già presenti. Esso implica altresì che gli aderenti più recenti sono meno suscettibili di ricevere un corrispettivo a fronte della loro partecipazione. Tale sistema cessa di essere redditizio allorché la crescita del numero degli aderenti, che teoricamente dovrebbe tendere all’infinito affinché il sistema perduri, non basta più a finanziare i corrispettivi promessi a tutti i partecipanti (sentenza del 3 aprile 2014, C‑515/12, punto 22). Con specifico riguardo al nesso che deve sussistere tra i contributi versati da nuovi aderenti e i corrispettivi percepiti dagli aderenti già esistenti, risulta dalla formulazione della maggior parte delle versioni linguistiche dell’allegato I, punto 14, della direttiva 2005/29, che il finanziamento del corrispettivo che un consumatore può percepire dipende «essenzialmente» o «principalmente» dai contributi versati in seguito da nuovi partecipanti al sistema. Non è invece richiesto che il nesso finanziario imposto debba necessariamente essere diretto. Quel che rileva è la qualificazione come «essenziale» o «principale» delle partecipazioni versate da nuovi partecipanti a un siffatto sistema. L’allegato I, punto 14, della direttiva 2005/29 è pertanto applicabile a un sistema in cui sussiste un nesso indiretto tra le partecipazioni versate da nuovi aderenti e i corrispettivi percepiti dagli aderenti già presenti (sentenza 15 dicembre 2016, in causa C‑667/15).
Concorrenza
Sanità – Regione Puglia – Utilizzo defibrillatore semiautomatico esterno (DAE) - Da parte di personale non sanitario – Prova di idoneità finale - Alla presenza di istruttori della Centrale Operativa o della ASL o delegati del Direttore della Centrale operativa 118 o del Direttore della ASL – Legittimità.       La disciplina regionale contenuta nella deliberazione della Giunta regionale Puglia del 18 luglio 2018, n. 1295 recante la «Nuova regolamentazione della formazione ed autorizzazione all’utilizzo del defibrillatore semiautomatico esterno (DAE) da parte di personale non sanitario nella Regione Puglia»,  nella parte in cui prevede che la prova di idoneità finale sostenuta dagli aspiranti esecutori BLSD che hanno frequentato i corsi presso i centri accreditati debba svolgersi «alla presenza di istruttori della Centrale Operativa o della ASL o delegati del Direttore della Centrale operativa 118 o del Direttore della ASL» non si pone in contrasto con la normativa statale di cui  all'art. 1, comma 2, l. n. 120 del 2001, e all’accordo Stato-Regioni del 30 luglio 2015, né si discosta dalle prescrizioni della l. reg. Puglia n. 14 del 2018; infatti essa non preclude l’operatività di una molteplicità di soggetti attivi nel campo della formazione sul territorio regionale in una prospettiva di sussidiarietà orizzontale, essendo solo diretta ad assicurare un controllo circa la reale acquisizione, all’esito dei corsi di formazione, di effettive competenze,  necessarie in un ambito così delicato quale è quello dell’utilizzo dei defribillatori (1). 
Sanità pubblica
Militari forze armate e di polizia – procedimento disciplinare – processo penale – sentenza – riavvio – termine – decorrenza – conoscenza - individuazione Il procedimento disciplinare nei confronti del personale militare deve essere instaurato o ripreso, ai sensi dell’art. 1392, co. 3, e dell’art. 1393, co. 4, d. lgs. 15 marzo 2010 n. 66, a decorrere dalla data di intervenuta conoscenza della sentenza che conclude definitivamente e complessivamente il processo penale, non assumendo alcun rilievo, ai fini della determinazione del dies a quo, il passaggio in giudicato di precedenti sentenze con riferimento a singoli capi di imputazione. La conoscenza della sentenza conclusiva del processo penale deve essere integrale, non essendo sufficiente la mera conoscenza del dispositivo o di estratti della stessa, e legalmente certa, dovendo la stessa irrevocabilità risultare formalmente, secondo le modalità previste dalla legge (1). 1. Il Collegio osserva, in definitiva, che ciò che le norme intendono tutelare, per il tramite dell’attesa della definizione del giudizio penale, sia nell’interesse pubblico che nell’interesse del dipendente, è la correttezza e completezza della valutazione in sede disciplinare dei “fatti” (tutti i fatti) che hanno formato oggetto di giudizio penale. Tale finalità verrebbe evidentemente frustrata laddove si affermasse l’esigenza di instaurare singoli procedimenti disciplinari per singoli fatti, mano a mano che questi siano definiti in sede penale. Tale conclusione è ulteriormente confermata da quanto previsto dall’art. 1355, co. 4, cod. ord. mil, che, nel definire i criteri generali per la “irrogazione delle sanzioni disciplinari”, afferma: “se deve essere adottato un provvedimento disciplinare riguardante più trasgressioni commesse da un militare, anche in tempi diversi, è inflitta un'unica punizione in relazione alla più grave delle trasgressioni e al comportamento contrario alla disciplina rivelato complessivamente dalla condotta del militare stesso”. Il che dimostra, ancora una volta, - per un verso, come sussista l’esigenza di una valutazione unitaria di più trasgressioni, perché il “comportamento contrario alla disciplina” deve essere comprensibilmente “rivelato” dalla complessiva condotta del militare e non atomisticamente, attraverso la singola valutazione di ogni specifico episodio; - per altro verso, come tale modus di valutazione si risolva in una garanzia per il militare ed in un possibile vantaggio per lo stesso in sede di concreta irrogazione e quantificazione della sanzione. 11.3. Le considerazioni sin qui esposte consentono di affermare come, ai fini dell’avvio o della ripresa del procedimento disciplinare, occorre considerare la “totale” definizione del giudizio a suo tempo istaurato, non attribuendo rilevanza all’eventuale, parziale passaggio in giudicato di una sentenza (in relazione, cioè, solo ad alcuni capi di imputazione) con formula di assoluzione (diversa da quelle considerate impeditive del procedimento disciplinare dall’art. 653 c.p.p.), ovvero, come nel caso di specie, di non doversi procedere per intervenuta prescrizione.
Militari, forze armate e di polizia
Concessione amministrativa – Aree pubbliche - Procedura di evidenza pubblica – Necessità - Occupazione anticipata dell’area – Elusione della concorrenza – Fattispecie      L’atto di sottomissione per occupazione anticipata di area demaniale marittima per posa ombrelloni, adottato senza previo espletamento di gara ad evidenza pubblica e preceduto dal rilascio di concessione per la posa ombrelloni ad uso temporaneo, del pari avvenuto in assenza di procedura di evidenza pubblica, è illegittimo in quanto contrario ai principi legislativi e giurisprudenziali di concorrenzialità. L’Amministrazione, autorizzando l’anticipata occupazione, ha di fatto consentito alla concessionaria di ottenere la concessione demaniale della spiaggia per un’intera stagione estiva, completando così il periodo oggetto della richiesta di rilascio della concessione demaniale e creando in tal modo effetti definitivi e non anticipatori della concessione demaniale. (1)     I proprietari o detentori di immobili prossimi all’area oggetto di concessione – attesa la più alta probabilità che gli stessi, rispetto ad altri, possano recarsi a fini di balneazione nel tratto di spiaggia suddetto – sono annoverabili tra i soggetti titolari di un interesse differenziato e qualificato, affinché sia adeguatamente garantita la libera balneazione, rapportando quindi tale esigenza alla situazione effettiva delle persone e all’esistenza di spiagge sufficienti a soddisfare il bisogno collettivo (2). ​​​​​​​ (1, 2) Ha evidenziato il T.a.r, quanto all’interesse a ricorrere avverso la concessione demaniale, la giurisprudenza si è già pronunziata a favore della legittimazione ad agire in capo al soggetto proprietario di immobili ubicati in prossimità del sito oggetto della concessione. Al riguardo è stato infatti ritenuto applicabile, ai fini della legittimazione all’azione, lo stesso criterio di “stabile collegamento tra il ricorrente e la zona interessata dall'intervento assentito che la giurisprudenza ha forgiato in tema di impugnazione di titoli edificatori rilasciati a terzi, dato che anche in questo caso l’interesse che i terzi mirano a tutelare è quello a un corretto assetto urbanistico, territoriale ed ambientale dell’area ove è collocato un loro centro di interessi” (C.g.a., sez. giur., 6 marzo 2008, n. 144, nonché T.A.R. Trentino Alto Adige Trento, 6 marzo 2008, n. 60). Sotto diversa angolazione si consideri altresì che nella specie i ricorrenti, quali proprietari o detentori di immobili prossimi all’area oggetto di concessione, sono sicuramente annoverabili tra i soggetti titolari di un interesse differenziato e qualificato – attesa la più alta probabilità che gli stessi, rispetto ad altri, possano recarsi a fini di balneazione nel tratto di spiaggia suddetto – affinché sia adeguatamente garantita la libera balneazione, rapportando quindi tale esigenza alla situazione effettiva delle persone e all’esistenza di spiagge sufficienti a soddisfare il bisogno collettivo. Pertanto la lesione della propria posizione consisterebbe, altresì, nella sottrazione di spazi destinati alla libera balneazione (ex multis Tar Lecce, sez. 1, 3/12/2009 n. 2989). Quanto al merito il T.a.r. ha richiama la consolidata giurisprudenza univoca nell’affermare che, in base al principio comunitario di concorrenzialità, le concessioni demaniali, in quanto concernenti beni economicamente contendibili, devono essere affidate mediante procedura di gara (Cons. Stato V, 11 giugno 2018). Pertanto, per l'affidamento del relativo contratto (attivo e non passivo) è necessario e sufficiente, in assenza di specifici autovincoli posti dalla P.A, il "rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica". Segnatamente, come rilevato dal Consiglio di Stato, ogni procedura di evidenza pubblica volta all’adozione comparativa di provvedimenti ampliativi dev’essere sorretta da idonei criteri predeterminati di selezione delle proposte che, nella specie, sono del tutto mancati. Giova rammentare, invero, che, conformemente ai principi del diritto unionale, come desumibili anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia UE, la concessione della gestione di arenili per finalità turistico-ricreative deve rispondere a criteri di imparzialità, trasparenza e par condicio: in particolare, l ’art. 12 della direttiva 2006/123/CE e il novellato art. 37 del cod. nav. subordinano il rilascio di concessioni demaniali marittime all’espletamento di procedure selettive ad evidenza pubblica (Cassazione civile, sez. II, 25/01/2021, n. 1435; si veda anche la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 9 novembre 2021, nr. 18, in particolare al punto 17 secondo cui “L’obbligo di evidenza pubblica discende, comunque, dall’applicazione dell’art. 12 della c.d. direttiva 2006/123, che prescinde dal requisito dell’interesse transfrontaliero certo, atteso che la Corte di giustizia si è espressamente pronunciata sul punto ritenendo che “l’interpretazione in base alla quale le disposizioni del capo III della direttiva 2006/123 si applicano non solo al prestatore che intende stabilirsi in un altro Stato membro, ma anche a quello che intende stabilirsi nel proprio Stato membro è conforme agli scopi perseguiti dalla suddetta direttiva” (Corte di giustizia, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, punto 103)”).
Concessione amministrativa
Processo amministrativo – Decreto ingiuntivo – Opposizione – Decreto emesso nei confronti della Asl e della Regione - Remunerazione di prestazioni sanitarie erogate da soggetto accreditato – Opposizione della sola Asl - Termine decennale di prescrizione - Sospeso fino al passaggio in giudicato della sentenza che decide sull’opposizione – Sospensione nei confronti della sola Asl – Conseguenza per la Regione.               Nell’ipotesi di decreto ingiuntivo emesso nei confronti della Asl e della Regione, avente ad oggetto la remunerazione di prestazioni sanitarie erogate da soggetto accreditato, ed opposto solo dalla prima, il termine decennale di prescrizione resta sospeso fino al passaggio in giudicato della sentenza che decide sull’opposizione, ai sensi dell’art. 2943, comma 2, c.c., nei soli confronti dell’Amministrazione opponente, mentre, nei confronti della Regione, la notifica del decreto ingiuntivo e la consumazione del termine per proporre opposizione, nelle more della richiesta di rilascio del decreto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c., fanno sì che decorra nuovamente il termine di prescrizione, con la conseguente inammissibilità del ricorso di ottemperanza del provvedimento monitorio proposto nei confronti della Regione laddove, alla data della sua proposizione, esso sia interamente decorso (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che sebbene ai sensi dell’art. 1306, comma 2, c.c. “gli altri debitori possono opporla (la sentenza pronunziata tra il creditore e uno dei debitori in solido) al creditore, salvo che sia fondata sopra ragioni personali al condebitore” (e tale non potrebbe essere considerata, per la sua inerenza al fatto costitutivo del credito, la riduzione del quantum operata dal giudice civile), la menzionata previsione deve essere coordinata, sul versante processuale, con il disposto dell’art. 645 c.p.c., che onera l’intimato di proporre opposizione al fine di evitare che il decreto ingiuntivo si consolidi nei suoi confronti ex art. 656 c.p.c..  Ne consegue che l’applicazione della menzionata disposizione del codice civile presuppone che il rapporto sostanziale non si sia cristallizzato nei confronti di taluno dei coobbligati: ciò che inevitabilmente avviene laddove, come nella specie, uno di essi (la Regione Abruzzo, per l’esattezza) non abbia proposto tempestiva opposizione avverso il decreto ingiuntivo, lasciando che sullo stesso scendesse l’autorità del giudicato.  La conclusione esposta trova ulteriore conferma nel disposto dell’art. 653, comma 2, c.p.c., ai sensi del quale “se l’opposizione è accolta solo in parte il titolo esecutivo è costituito esclusivamente dalla sentenza…”.  Ha aggiunto la Sezione che l’art. 1306, comma 2, c.c. non potrebbe essere invocato al fine di sostenere che l’effetto “sostitutivo” (del titolo-sentenza di accoglimento parziale dell’opposizione al titolo-decreto ingiuntivo opposto) si è prodotto anche nei confronti della Regione appellante: mentre infatti il predetto art. 1306, comma 2, c.c. non contempla alcun effetto estensivo automatico del giudicato formatosi nei confronti di uno dei coobbligati a vantaggio dell’altro, rimettendo a quest’ultimo la decisione se “opporre” al creditore la sentenza pronunciata inter alios, l’art. 653, comma 2, c.p.c. si riferisce ad una fattispecie oggettivamente rilevante, presupponente la proposizione dell’opposizione al decreto ingiuntivo, con la sua conseguente limitazione della sua rilevanza nei (soli) confronti dell’opponente.  La Sezione ha aggiunto che dal combinato disposto dell’art. 2943, commi 1 e 2, c.c., ai sensi dei quali “la prescrizione è interrotta dalla notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio, sia questo di cognizione ovvero conservativo o esecutivo” ed “è pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio”, e dell’art. 2945, commi 1 e 2, c.c., secondo cui “per effetto dell’interruzione s’inizia un nuovo periodo di prescrizione” e “se l’interruzione è avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell’articolo 2943, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”, si evince il principio generale secondo cui il tempo occorrente allo svolgimento del processo, funzionale al conseguimento di un titolo giurisdizionale in forza del quale procedere all’esecuzione coattiva del diritto azionato, non può determinare la sua estinzione a causa della inerzia del titolare, il quale ha manifestato, con la proposizione della domanda, la sua volontà di ottenere - mediante l’intervento del Giudice - il soddisfacimento della pretesa: in tale ipotesi, invero, all’inerzia sul piano “sostanziale” del creditore fa da contraltare l’iniziativa (assunta e proseguita nelle forme di rito) sul versante processuale, atta a smentire qualunque presunzione legale di disinteresse verso il diritto soggettivo dedotto in giudizio.  E’ quindi evidente che una ratio siffatta, sottesa al duplice operare del meccanismo interruttivo-sospensivo del termine prescrizionale che si accompagna al fenomeno processuale, non ricorre laddove l’inerzia del creditore, sul piano “sostanziale”, non sia giustificata dal parallelo “affidamento” al Giudice del munus di tutelare il diritto di cui il medesimo è titolare: ciò che si verifica, con riferimento alla fattispecie in esame, laddove esso, avendo ottenuto un provvedimento ingiuntivo, non provveda a richiedere al Giudice la declaratoria della sua esecutività, nemmeno – come nella specie – entro il termine decennale di prescrizione, assumendo quale dies a quo la data di esaurimento del termine concesso all’intimato per presentare opposizione avverso il decreto monitorio.  Può del resto, in tale ottica, seriamente dubitarsi del fatto che l’attribuzione di efficacia interruttiva (del termine di prescrizione) alla proposizione (mediante notificazione alla controparte) del ricorso per decreto ingiuntivo trovi fondamento normativo nel comma 1 dell’art. 2943 del c.c., piuttosto che (non essendo il procedimento monitorio assimilabile tout court ad un giudizio di cognizione) nel comma 4 del medesimo articolo, laddove prevede che “la prescrizione è inoltre interrotta da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore”: sì che, aderendo a tale prospettiva, verrebbe meno anche il presupposto cui è subordinata la parentesi sospensiva del termine di prescrizione correlata alla pendenza del “giudizio”. ​​​​​​​
Processo amministrativo
Procedimento amministrativo – Dichiarazione sostitutiva atto di notorietà – Dichiarazione falsa – Conseguenza – Art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 – Conseguenza – Decadenza automatica del beneficio – Violazione art. 3 Cost. – Rilevante e non manifestamente infondata.  E’ rilevante e non manifestamente infondata, per violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, nella parte in cui introduce un automatismo legislativo tra la non veridicità della dichiarazione resa dall’interessato e la perdita dei benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera (1).   (1) Analoga rimessione è stata disposta dalla Sezione con ordinanze 24 ottobre 2018, n. 1544; 23 ottobre 2018, n. 1531; 25 ottobre 2018, n. 1552 e 17 settembre 2018, n. 1346.  Ha chiarito la Sezione che la granitica giurisprudenza formatasi in subiecta materia, con riferimento ai vizi “sostanziali” dell’autodichiarazione, ha osservato che il su riportato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 “si inserisce in un contesto in cui alla dichiarazione sullo status o sul possesso di determinati requisiti è attribuita funzione probatoria, da cui il dovere del dichiarante di affermare il vero.   Ne consegue che la dichiarazione “non veritiera” al di là dei profili penali, ove ricorrano i presupposti del reato di falso, nell’ambito della disciplina dettata dalla l. n. 445 del 2000, preclude al dichiarante il raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione o comporta la decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio (ex plurimis, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 9 aprile 2013, n. 1933).   Pertanto, <<In tale contesto normativo, in cui la “dichiarazione falsa o non veritiera” opera come fatto, perde rilevanza l’elemento soggettivo ovvero il dolo o la colpa del dichiarante>> (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013), “poiché, se così fosse, verrebbe meno la ratio della disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 27 aprile 2012, n. 2447): sicchè ogni eventuale ulteriore circostanza, “senz’altro rilevante in sede penale, in quanto ostativa alla configurazione del falso ideologico, attesa la mancanza dell’elemento soggettivo, ovvero della volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e della consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, non assume rilievo nell’ambito della L. n. 445 del 2000, in cui il mendacio rileva quale inidoneità della dichiarazione allo scopo cui è diretto” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013). Ai sensi della normativa statale generale di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 445 del 2000, quindi, “la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l’autodichiarazione non veritiera”; così la sent. 13 settembre 2016, n. 9699)” (T.A.R. Lazio, Roma, Sezione Terza ter, 24 maggio 2017, n. 6207), “senza che tale disposizione lasci margine di discrezionalità alle Amministrazioni (cfr. ad es. CdS 1172\2017)” (T.A.R. Liguria, Genova, Sezione Prima, 14 giugno 2017, n. 534; in termini, Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 20 agosto 2019, n. 5761; Consiglio di Giustizia Amministrativa Sicilia, 9 dicembre 2019, n. 1039; Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 3 febbraio 2016, n. 404; Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 15 marzo 2017, n. 1172). In definitiva, per effetto della suddetta esegesi consolidata (tale da assurgere al rango di “diritto vivente”, sicchè neppure è possibile per il Tribunale operare una c.d. “interpretazione costituzionalmente conforme”): - l’applicazione dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 comporta l’automatica decadenza dal beneficio eventualmente già conseguito, non residuando, nell’applicazione della predetta norma, alcun margine di discrezionalità alle Pubbliche Amministrazioni che, in sede di controllo (d’ufficio) ex art. 71 del medesimo Testo Unico, si avvedano della (oggettiva) non veridicità delle autodichiarazioni, posto che tale norma prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi (unicamente) sul dato oggettivo della non veridicità, rispetto al quale risulta, peraltro, del tutto irrilevante il complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante medesimo; - parimenti, tale disposizione, nel contemplare la decadenza dai benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base delle dichiarazioni non veritiere, impedisce (ovviamente e “a fortiori”, come nel caso di specie) anche l’emanazione del provvedimento (ampliativo) di accoglimento dell’istanza tendente ad ottenere i benefici dalla P.A.. Non risulta pertinente in proposito, al fine dell’espletamento del tentativo di “interpretazione conforme”, il riferimento (si vedano le argomentazioni opposte dall’Avvocatura Generale dello Stato nel precedente giudizio di legittimità costituzionale - cfr. la menzionata sentenza della Corte Costituzionale n. 199/2019, paragrafo 4.1) a taluna giurisprudenza formatasi con riferimento ai vizi meramente formali dell’autodichiarazione (quali, ad esempio, l’omessa produzione di copia del documento di identità sottoscritto e del “curriculum” formativo/professionale con dichiarazione sostitutiva - cfr. Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 17 gennaio 2018, n. 257, che ha sancito l’ammissibilità del soccorso istruttorio, peraltro, nel caso ivi in esame, in applicazione di apposita e specifica disposizione del bando): ciò in quanto, nella fattispecie di che trattasi, la menzionata omissione, sanzionata ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, concreta un vizio - con ogni evidenza - sostanziale e non già meramente formale dell’autodichiarazione, non veritiera al riguardo. Orbene, la predetta norma (art. 75 del D.P.R. n. 445/2000), intesa alla stregua dell’illustrato “diritto vivente”, nel suo meccanico automatismo legale (del tutto decontestualizzato dal caso specifico) e nella sua assoluta rigidità applicativa (che non conosce eccezioni), sembra al Collegio incostituzionale, per violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza sostanziale, sanciti dall’art. 3 della Costituzione. Ed invero, “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti. Sicché, … l’impossibilità di fissare in astratto un punto oltre il quale scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente arbitrarie e, come tali, costituzionalmente illegittime, non può essere validamente assunta come elemento connotativo di un giudizio di merito, essendo un tratto che si riscontra … anche nei giudizi di ragionevolezza.    Del resto,……, le censure di merito non comportano valutazioni strutturalmente diverse, sotto il profilo logico, dal procedimento argomentativo proprio dei giudizi valutativi implicati dal sindacato di legittimità, differenziandosene, piuttosto, per il fatto che in quest’ultimo le regole o gli interessi che debbono essere assunti come parametro del giudizio sono formalmente sanciti in norme di legge o della Costituzione” (Corte Costituzionale, 22 dicembre 1988, n. 1130).   In conclusione: - per un verso, il giudizio di ragionevolezza della norma di legge deve essere necessariamente ancorato al criterio di proporzionalità, rappresentando quest’ultimo “diretta espressione del generale canone di ragionevolezza (ex art. 3 Cost.)” (Corte Costituzionale, 1° giugno 1995, n. 220); - per altro verso, la ragionevolezza va intesa come forma di razionalità pratica (tenuto conto, appunto, “delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti” - Corte Costituzionale, cit., n. 1130/1988), non riducibili alla mera (e sola) astratta razionalità sillogistico - deduttiva e logico - formale, laddove (invece) la ragione (pratica e concreta) deve essere aperta all’impatto che su di essa esplica il caso, il fatto, il dato di realtà (che diventa esperienza giuridica), solo così potendo (doverosamente) valutarsi l’adeguatezza del mezzo al fine, la ragionevolezza “intrinseca”, in uno agli (eventuali) esiti ed effetti sproporzionati e/o paradossali che possono concretamente derivare da una regola generale apparentemente ed astrattamente logica. In tal senso, il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola) valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si appalesa idoneo (traendo spunto da quest’ultima) a vagliare gli effetti della Legge sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamata a regolare, anche in funzione dell’<<“esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità” ... ed a criteri di coerenza logica, teleologica …. , che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa» (sentenza n. 87 del 2012)>> (Corte Costituzionale, sentenza 10 giugno 2014, n. 162). E tanto anche confrontando i benefici che derivano dall’adozione, per dir così, “neutra” del provvedimento con i suoi “costi”, e valutando l’eventuale inadeguata penalizzazione degli altri diritti e interessi di rango costituzionale contestualmente in gioco (bilanciamento).   Orbene, l’illustrata fattispecie di “automatismo legislativo” di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, intesa alla stregua del “diritto vivente”, non sfugge, ad avviso meditato del Collegio, a forti dubbi di incostituzionalità per violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3 della Costituzione. Ed invero, le conseguenze decadenziali/impeditive (definitive e in alcun modo “rimediabili”) dal beneficio (peraltro, “lato sensu” sanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione, e, “a fortiori”, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo, ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, appaiono al Tribunale irragionevoli e incostituzionali, contrastando con il principio di proporzione, che è alla base della razionalità che, a sua volta, informa il principio di uguaglianza sostanziale, ex art. 3, comma 2 della Costituzione. E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente) il meccanico automatismo legale (del tutto “slegato” dalla fattispecie concreta) e l’assoluta rigidità applicativa della norma in questione, che (da un lato) impone “tout court” (senza alcun distinguo, né gradazione) la decadenza dal beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a prescindere dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia per le fattispecie in cui la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del tutto marginale rispetto all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia per quelle nelle quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto con tale interesse, riservando, quindi, il medesimo trattamento a situazioni di oggettiva diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere nemmeno le ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima rilevanza concreta (come, appunto, nel caso di cui al presente giudizio), con ogni possibile (e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.   Sotto altro profilo, inoltre, l’assoluta rigidità applicativa dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 appare eccessiva, in quanto non consente (parimenti irragionevolmente e inadeguatamente) di valutare l’elemento soggettivo (dolo - la c.d. coscienza e volontà di immutare il vero - ovvero colpa, grave o meno - nell’ipotesi di fatto dovuto a mera leggerezza o negligenza dell’agente) della dichiarazione (oggettivamente) non veritiera, nella naturale (e contestuale) sede del procedimento amministrativo (o anche, laddove la P.A. lo ritenga, nell’ambito del pertinente giudizio penale). Né può ritenersi che i suddetti dubbi di costituzionalità possano essere superati facendo leva sulla “ratio” sottesa alla disposizione di che trattasi, rinvenibile, secondo il diritto “vivente” (cfr., “ex plurimis”, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 2447/2012), nel principio generale di semplificazione amministrativa (cui si accompagna l’affermazione dell’autoresponsabilità - “oggettiva” - del dichiarante, in uno - anche - all’interruzione “ex lege” del rapporto di fiducia tra P.A. e cittadino). E’ ben vero, infatti, che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 debba qualificarsi quale norma generale di semplificazione amministrativa. Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da un lato, è sicuramente volta a rendere più efficiente ed efficace l’azione dell’Amministrazione pubblica (buon andamento, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione), dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato (e nell’ambito del quale sono state rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio, al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art. 32), al diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto all’assistenza sociale (art. 38), al diritto di iniziativa economica privata (art. 41, come nel caso di specie). Sicchè, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento degli interessi costituzionali coinvolti (nonché della massima espansione possibile delle relative tutele), il rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali, non emendabili) si rivela, in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse esigenze in gioco, e persino tale da pregiudicare definitivamente proprio quei diritti costituzionali del singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la norma di semplificazione “de qua” è, in definitiva, finalizzata. E tanto vieppiù allorchè si consideri che l’art. 40 (“Certificati”) del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”), come modificato dall’art. 15, comma 1, lett. a), L. 12 novembre 2011, n. 183, ha disposto che “01. Le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47” e che <<02. Sulle certificazioni da produrre ai soggetti privati è apposta, a pena di nullità, la dicitura: “Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”>>: sicchè, in definitiva, essendo il privato obbligato, e non più (meramente) facultato, a presentare alle PP.AA. le “dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”, la semplificazione “de qua” si risolve, in ultima analisi, per un verso, nella (sicura) diminuzione degli adempimenti a carico dell’Amministrazione Pubblica (a fronte dei controlli d’ufficio, “anche a campione”, ai sensi dell’art. 71 del D.P.R. n. 445/2000), e, per altro verso, nell’eccessiva (considerate le conseguenze automatiche derivanti dall’eventuale dichiarazione non veritiera, ex art. 75 del D.P.R. n. 445/2000) autoresponsabilità (“oggettiva”) del privato medesimo. Pertanto, rispetto ad una disposizione - l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 -, nel significato in cui essa “vive” nella (costante) applicazione giudiziale, il Collegio non può che sollevare la questione di legittimità costituzionale, tenuto conto, per quanto innanzi esposto, che la stessa appare non superabile in via interpretativa (in ragione, appunto, del “diritto vivente”) e non manifestamente infondata.    
Procedimento amministrativo
Rifiuti – Smaltimento - Emilia Romagna - Tariffa a carico dell’utente finale – A rt. 16, comma 1, l. reg. Emilia Romagna n. 23 del 2011 - Costi effettivi e introiti – Violazione artt. 23, 117 comma 2, lett. e) e lett. s), e 119, comma 2 – Rilevanza e non manifesta infondatezza.          ​​​​​​​       E’ rilevante ed non manifestamente infondata, in relaizone agli artt. 23, 117 comma 2, lett. e) e lett. s), e 119, comma 2, Cost. la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, l. reg. Emilia Romagna n. 23 del 23 dicembre 2011, nella parte in cui - nell’individuare il costo complessivo del servizio di smaltimento dei rifiuti da imputare alla tariffa a carico dell’utente finale - affianca ai “costi effettivi” anche gli “introiti” (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 16, comma 1, l. reg. Emilia Romagna n. 23 del 23 dicembre 2011 dispone: “In presenza di un soggetto privato proprietario dell'impiantistica relativa alla gestione delle operazioni di smaltimento dei rifiuti urbani di cui all'articolo 183, comma 1, lettera z), del decreto legislativo n. 152 del 2006, compresi gli impianti di trattamento di rifiuti urbani classificati R1 ai sensi dell'Allegato C, Parte IV, del decreto legislativo n. 152 del 2006, l'affidamento della gestione del servizio dei rifiuti urbani non ricomprende detta impiantistica che resta inclusa nella regolazione pubblica del servizio. A tal fine l'Agenzia [il riferimento è all’Atersir - Agenzia territoriale dell’Emilia-Romagna per i servizi idrici e rifiuti] individua dette specificità, regola i flussi verso tali impianti, stipula il relativo contratto di servizio e, sulla base dei criteri regionali, definisce il costo dello smaltimento da imputare a tariffa tenendo conto dei costi effettivi e considerando anche gli introiti”. Orbene, la disposizione, nella parte finale, stabilisce che, ai fini de quibus, si tenga conto anche degli “introiti”: opera, dunque, un richiamo generico ad ogni posta attiva dell’impresa. L’ampiezza e l’atecnicità (evidentemente voluta) della dizione impongono, nel rispetto della lettera e della ratio della disposizione, di ritenervi ricompresi anche gli incentivi per l’energia prodotta da fonte rinnovabile, i quali, del resto, nella contabilità dell’impresa configurano materialmente un incremento economico, ovvero, in altra prospettiva, una posta reddituale positiva, ossia appunto un “introito”. 15. Tali incentivi, tuttavia, sono erogati per rendere economicamente sostenibili forme di produzione di energia ambientalmente compatibile derivante, nella specie, dallo smaltimento dei rifiuti: la relativa disciplina, dunque, persegue, direttamente e sotto un duplice aspetto (gestione del ciclo dei rifiuti e produzione di energia da fonte rinnovabile) finalità di “tutela dell’ambiente”, materia di legislazione esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s), Costituzione (cfr., ex multis, Corte cost. n. 180 del 2015, n. 149 del 2015, n. 58 del 2015, n. 314 del 2009, n. 378 del 2007). Si tratta, pertanto, di stabilire se una Regione possa intervenire, sia pure indirettamente, nella vicenda incentivata, computando tali incentivi quale posta algebrica negativa nella complessa operazione di quantificazione del rimborso spettante ad un operatore economico attivo in un servizio (lo smaltimento dei RSU) sottoposto a “regolazione pubblica” e da svolgersi ex lege in condizioni di “pareggio”. In altre parole, proprio l’ascrizione della macro-materia “tutela dell’ambiente” all’esclusiva legislazione statale può ex se ostare a che una Regione introduca una normativa che, de facto, si frappone fra il destinatario formale dell’incentivo e l’incentivo medesimo, deviando ex post quest’ultimo (rectius, i suoi effetti economici) a favore di altro soggetto, nella specie la collettività utente del servizio, sub specie di riduzione della tariffa. Stante il carattere accentrato che, nel nostro ordinamento, ha il controllo di costituzionalità delle leggi, il Collegio non può che arrestarsi e rimettere la questione alla Corte costituzionale, competente ad individuare il perimetro dell’esclusività della competenza legislativa statale in subiecta materia, in particolare chiarendo se l’ascrizione alla regolazione statale della materia de qua copra anche le vicende estranee e successive alla materiale erogazione dell’incentivo e, in particolare, osti a discipline regionali che tale incentivo comunque computino, mutandone de facto il fruitore sostanziale, nella più ampia operazione di quantificazione degli oneri dovuti a soggetti privati operanti nell’ambito di servizi pubblici e tenuti a prestare la propria attività sulla base del principio del mero rimborso dei costi. Sotto un diverso profilo, la disposizione regionale in parola consente che al gestore di impianti di smaltimento di RSU non siano rifusi tutti i costi vivi fisicamente sostenuti nello svolgimento dell’attività, bensì una mera percentuale degli stessi, dovendo altresì essere algebricamente considerati, nel complessivo computo del rimborso spettante, anche “gli introiti”. Siffatta limitazione dei costi concretamente rimborsabili, da cui viene, nella specie, sottratta la quota degli incentivi proporzionalmente percepiti in relazione alle operazioni di smaltimento de quibus, potrebbe integrare un tributo o, comunque, una surrettizia “prestazione patrimoniale imposta” (cfr. art. 23 Cost.): ​​​​​​​- in assenza di una disposizione statale che stabilisca, in proposito, una corrispondente potestà tributaria regionale (artt. 117 comma 2, lett. e) e 119, comma 2, Cost. - arg. da Corte cost., n. 33 del 2012, § 5 e ss.);  - in carenza, comunque, di criteri oggettivi tali da integrare la riserva di legge relativa stabilita dall’art. 23 Cost. in relazione agli elementi essenziali della fattispecie impositiva (arg. da Corte cost. n. 83 del 2015, § 5 e ss.; n. 33 del 2012, § 5 e ss.).  Invero, premesso che una limitazione del rimborso dei costi vivi sopportati dal privato nell’esecuzione di attività di interesse pubblicistico ha, sul piano economico, il medesimo effetto di impoverimento patrimoniale conseguente all’imposizione di un versamento, il Collegio evidenzia che:  - le Regioni a statuto ordinario possono istituire tributi solo nelle ipotesi previste dalla legislazione statale (artt. 117, comma 2, lett. e) e 119, comma 2, Cost.);  - più in generale ed a prescindere dalla qualificazione tributaria della vicenda de qua, le prestazioni patrimoniali possono essere imposte solo sulla base di una previsione di legge (art. 23 Cost.), che sia rispettosa del più ampio tessuto valoriale stabilito in Costituzione e che, in particolare, rechi una sufficiente individuazione sia dei caratteri della prestazione imposta, sia dei criteri direttivi cui l’Amministrazione debba uniformarsi nella concreta enucleazione della prestazione stessa, al fine di evitare che il potere amministrativo trasmodi in sostanziale arbitrio 
Rifiuti
Processo amministrativo - Giudizio di ottemperanza – recupero delle somme indebitamente corrisposte – Sentenza che ha respinto il ricorso – Esclusione.      Sono le statuizioni preordinate ad una pronuncia di accoglimento a far nascere per l'amministrazione destinataria un obbligo di ottemperanza, che può dirsi adempiuto solo se vengono posti in essere atti completamente sattisfattivi rispetto a quelle statuizioni; viceversa, le pronunce di rigetto lasciano invariato l'assetto giuridico dei rapporti precedente alla radicazione del giudizio, rimanendo indifferente che la sentenza di rigetto sia stata pronunciata in primo grado ovvero in appello, con una sentenza di riforma della pronuncia di accoglimento emessa dal primo giudice; ne consegue che il recupero delle somme indebitamente corrisposte, si deve, tuttavia, osservare che ciò non può avvenire con la richiesta di ottemperanza alla sentenza che si è limitata a respingere il ricorso della parte privata  (1).    (1) Nella specie, il G.s.e. s.p.a. ha chiesto la riforma della sentenza del Tar che ha dichiarato inammissibile il ricorso per l’ottemperanza alla sentenza della medesima sezione, che aveva respinto il ricorso proposto per l’annullamento del provvedimento di decadenza dagli incentivi di cui al d.m. 28 luglio 2005. La sentenza di cui si chiede l’ottemperanza aveva respinto il ricorso per l’annullamento del provvedimento di decadenza dalle tariffe incentivanti, senza alcuna statuizione sull’obbligo di restituzione degli incentivi corrisposti. Il dispositivo della sentenza, infatti, disponeva la mera reiezione del ricorso per l’annullamento, in coerenza con la motivazione che ha esaminato, alla luce del petitum e dei motivi di ricorso, la legittimità delle ragioni poste alla base del provvedimento. Né nel dispositivo né nella motivazione il giudice ha esaminato il diverso, anche se connesso, profilo dell’obbligo di restituzione delle tariffe, profilo che è, di conseguenza, estraneo al contenuto precettivo e di mera reiezione della sentenza della cui ottemperanza si discute Ha chiarito la Sezione che il principio secondo cui sono le statuizioni preordinate ad una pronuncia di accoglimento a far nascere per l'amministrazione destinataria un obbligo di ottemperanza e non quelle di rigetto, trova applicazione anche nel caso in cui la reiezione del ricorso di annullamento non ha mutato il quadro giuridico preesistente, contrassegnato dalla validità e dall’efficacia dei provvedimenti di decadenza.  Se è vero che dall’accertata legittimità del provvedimento discende, in capo al G.s.e., l’obbligo di recupero delle somme indebitamente corrisposte, si deve, tuttavia, osservare che ciò non può avvenire con la richiesta di ottemperanza alla sentenza che si è limitata a respingere il ricorso della parte privata, non essendo possibile, in questa sede, una modifica o estensione del comando giudiziale (Cons. Stato, sez. VI, 15 febbraio 2021, n.1345). ​​​​​​​La fonte costitutiva dell’obbligo per le società di restituire le somme ricevute non è la sentenza, ma il provvedimento di decadenza che, peraltro, non reca la determinazione del quantum da restituire, limitandosi a dichiarare la decadenza dal diritto e a rinviare ulteriori atti per le modalità di esecuzione. Le richieste di restituzione con l’indicazione degli importi dovuti sono state comunicate solo successivamente, in parte prima e in parte dopo la pubblicazione della sentenza della cui ottemperanza si discute.  Quanto sopra conferma che il credito (e il correlativo debito) restitutorio, pur trovando fondamento nel provvedimento impugnato, è rimasto estraneo al perimetro del giudizio di cognizione. 
Processo amministrativo
Straniero – Permesso di soggiorno – Rinnovo – Diniego – per condanna per violenza sessuale – legittimità – Mancata valutazione presenza di famiglia in Italia - Irrilevanza           E’ legittimo il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, opposto allo straniero condannato per il reato di violenza sessuale ex art. 609-bis, comma 3, c.p., ostativo al soggiorno nel territorio dello Stato ex art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, anche in carenza della valutazione – indefettibilmente richiesta dalla legislazione di recepimento della disciplina comunitaria - circa la natura e l’effettività dei vincoli familiari dello straniero, padre di un figlio minore residente in Italia, valutazione implicitamente ma univocamente riferita alla condanna definitiva per fatti, riconosciuti dallo stesso interessato, incompatibili con i principi costituzionali (1). (1) Ha ricordato la Sezione che la valutazione di pericolosità sociale in concreto è implicitamente ma univocamente riferita alla condanna definitiva per fatti, riconosciuti dallo stesso interessato, incompatibili con i principi costituzionali che impongono alla Repubblica di garantire la libertà, la dignità e l’integrità fisica di ogni persona e, in particolare, di contrastare ogni forma di violenza e discriminazione di genere garantendo la piena libertà di scelta della donna, e neppure può essere ritenuto d’ostacolo il mero obbligo alimentare nei confronti di un figlio non convivente, fermo restando che in fattispecie quali quella considerata occorre attentamente valutare se lo stesso interesse del nucleo familiare non conduce a favorire, anziché ostacolare, il rimpatrio dell’autore del reato. Ha aggiunto che ai sensi degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dall'art. 2, comma 1, lett. b, n. 1 del d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5 (di attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare), nell'adottare il provvedimento di rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, si deve tenere anche conto anche “della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato”. Con sentenza 18 luglio 2013, n. 202, la Corte costituzionale ha poi dichiarato l'illegittimità dell’art. 5, comma 5, d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita si applichi solo allo straniero che «ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare» o al «familiare ricongiunto», e non anche allo straniero «che abbia legami familiari nel territorio dello Stato».   Tuttavia, nella specifica fattispecie considerata la tipologia e la gravità del reato commesso (violenza sessuale) risultano incompatibili non solo con i valori fondanti della nostra Comunità nazionale, ma anche con l’interesse alla stabilità del nucleo familiare interessato, in quanto in questo caso la valutazione di pericolosità sociale dell’appellato risulta essere stata adeguatamente riferita alla condanna per fatti che risultano gravemente contrastanti con il principio fondamentale sancito dall’art. 2 della Costituzione, che impone alla Repubblica di garantire i diritti inviolabili della persona sia come singolo, sia nelle formazioni sociali –come il nucleo familiare in esame- in cui svolge la propria personalità, con particolare riguardo, nella fattispecie considerata, ai precetti costituzionali che impongono la tutela della vita, dell’integrità fisica, della parità e della libertà della donna.
Straniero