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+ {"filename": "15828e1d-a1e8-4559-833c-d1232591e070.txt", "exact_year": 1901, "label": 0, "year_range": "1901-1905", "text": "Trento, 25 maggio Chi avrebbe detto che la festa delle società operaie cattoliche avrebbe fatta un’impressione così profonda da occupare la stampa trentina di ogni colore per una decina di giorni? Eppure ciò che non si aspettava, è avvenuto: segno evidente che quella festa ebbe l’importanza d’un vero avvenimento sociale, che attesta l’esistenza e la forza e la disciplinatezza della giovane democrazia cristiana del Trentino. Rileggendo un dopo l’altro i numeri del Popolo e dell’Alto Adige, si vede chiaro l’imbarazzo dei socialisti e dei liberali. Ora cercano di diminuire l’importanza della festa; ora chiamano a raccolta i loro fidi come se Annibale stesse alla porte; ora mostrano di ridere e di scherzare, ora sputano fiele e veleno; ora dichiarano – e questo è il caso dei liberali – che essi corte non ne fanno che di carnevale; ora si sforzano di far passare come una spettacolosa dimostrazione nazionale quale l’accoglienza fatta da una truppa non soverchio numerosa di gente raccogliticcia e di vario colore ai ginnastici reduci da Bologna . Ah, povero Alto Adige! Se lunedì sera fossero stati per le vie di Trento da 3500 a 4000 liberali, i capoccia del tuo partito non avrebbero dovuto mesi fa subire l’umiliazione di mendicare umilmente i voti dei clericali per impedire nei ballottaggi della V curia la vittoria dei socialisti. Ma la memoria di quei giorni sembra interamente spenta nella mente dei liberali di Trento che adesso vorrebbero andar uniti coi socialisti contro i cattolici; anzi, parlando con maggiore esattezza, sgambettano puerilmente dietro i socialisti, come il bimbo dietro la mamma al cui grembiale si tiene attaccato. Questa è infatti l’impressione che destano gli articoli scritti negli ultimi giorni dall’Alto Adige il quale non fa che sboccare e ripetere le frasi del Popolo. Osservate un po’. Il Popolo, alla vigilia del 16 maggio , rievoca la memoria del Taxil e della Vaughan e l’Alto Adige fedele scolaretto, ne ripete dopo la festa la meravigliosa trovata. Il Popolo non vede nel corteo delle società operaie che vecchiotti e ragazzetti, e poco dopo l’Alto Adige pappagallamente gli fa eco. Il Popolo, non curando menomamente il fatto che alla sfilata del primo maggio le vie erano quasi deserte e a quelle del 16 zeppe di spettatori, dice che la cittadinanza sopportò la dimostrazione clericale; e l’Alto Adige, incapace di dire qualche cosa di proprio, fuorché quelli spropositi di cronaca, riporta anche questa circostanza, vista attraverso gli occhiali del Popolo. Ma ciò che merita speciale attenzione è il disprezzo con cui il Popolo prima e poi, fedele alla consegna, l’Alto Adige parlarono delle persone che presero parte alla sfilata . Primo impegno del Popolo fu naturalmente di diminuire a tutta possa il numero dei cittadini che marciavano dietro il vessillo della Società operaia cattolica di Trento . Ma tutte le sue chiacchiere non distruggono il fatto che quel vessillo era seguito francamente da quasi trecento operai, quanti i socialisti non furono capaci di racimolare nella città per il loro corteo di quindici giorni prima. Sta bene notare, affinché non si creda che Trento sia proprio tutta liberale o socialista, e affinché certi scrittori da strapazzo non credano di poter far giorno della notte e notte del giorno e chiudere la bocca a tutti colla spudoratezza delle loro asserzioni. A Trento c’è un nucleo di operai che si vantano ancora di essere cattolici e v’è un nucleo di cittadini che vedono con simpatia ed appoggiano efficacemente questi buoni operai. Se finora su molti altri poterono più le iraconde diatribe, le dimostrazioni chiassose, lo spirito irreligioso e turbolento di rossi tribuni, v’è però a sperare che all’opera pacifica ma intelligente e costante dei cattolici saranno riserbati buoni successi e già fin d’ora chi mira con animo tranquillo ciò che hanno fatto i socialisti e ciò che hanno fatto i cattolici, riconosce a quelli il primato nelle monellate, a questi nel lavoro serio e proficuo. Ridotto ai minimi termini il nucleo cittadino, il Popolo trattò gli operai delle vallate da poco meno che cenciosi e ignorantissimi paria; e anche qui l’Alto Adige gli corse dietro. Sentite un po’ la sua prosa, e se sa troppo di lezzo, turatevi, leggendo, il naso. «Mentre infatti nella nostra città una incosciente schiera di poveri illusi – guidati dall’altrui malafede e da un’innata mania superstiziosa – girava quasi aspirando alla palma di una gloria a loro incompresa 1) – pochi ma coscienti e coscienziosi nostri giovani facevano nella turrita Bologna sventolare onorato il vessillo sul quale puro e terso stava il nome bello di Trento. E con quel vessillo, al quale avevano aggiunto l’alloro di altre vittorie, ritornarono ben meritando il plauso della terra natia. Ritornarono quasi a testimoniare che l’irrevocabile cammino anche il nostro paese deve assolutamente percorrerlo, e che la meta segnata dal progresso e dalla civiltà deve in epoca non troppo lontana essere e da tutti e da per tutto raggiunta». Così il «comporretto» del cronista dell’Alto Adige, che antepone i salti e le capriole di questi quattro ginnastici all’espressione solenne di duemila trentini, figli del lavoro, e offende questi nei loro sentimenti più sacri e si sforza di vomitare velenosa bava su coloro che hanno avviato il popolo trentino sulla via dell’educazione civile e del progresso economico e sociale. Povero diavolo! Crede forse lui di pascere il popolo con le trasparenti frase di un bolso irredentismo? È troppo poco; anzi è troppo per un popolo che è attaccato alle legittime autorità e che ha in uggia quel partito che al suono di «nazionalità» lo ha pelato e dissanguato e roso fino alle ossa. Del resto il Popolo e l’Alto Adige credono di avvantaggiare il loro partito col mostrare disprezzo per gli abitanti delle vallate, si sbagliano di grosso. Gli abitanti delle vallate, messi a cognizione del linguaggio usato verso di loro dai socialisti e, sull’esempio di questi, dai liberali, si metteranno sempre più in guardia contro gli uni e gli altri, e sapranno che conto fare di quei partiti che non li cercano e non apprezzano se non quando possono fare di essi strumento alle loro mire private. Sotto questo riguardo c’è da rallegrarsi del contegno del Popolo e dell’Alto Adige e da ringraziarli di cuore perché si sono mostrati nella loro vera faccia al popolo trentino. Se poi ci sia da rallegrarsene anche per la città e la sua buona armonia colla grande maggioranza del paese, è un’altra questione che, considerata a mente tranquilla e serena, potrebbe convincere le persone più assennate che non è cosa buona farsi pedissequi del Popolo e dei suoi ispiratori. Un cittadino. 1) Variante dilavata di un pensiero del Popolo. "}
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+ {"filename": "cd3bafa0-2b3d-489a-bb1a-41427c1ef581.txt", "exact_year": 1906, "label": 0, "year_range": "1906-1910", "text": "Verso la fine del 1905 quasi tutti i deputati liberali al Parlamento ed alla Dieta pubblicavano un appello ai consenzienti del Trentino per la riorganizzazione del partito liberale. V’era detto che la cessazione del vecchio compromesso e la disgregazione del partito liberale nazionale rendevano necessario un appello alla concordia di tutti gli elementi liberali del paese. Si dimenticassero «le passate dissensioni per inaugurare un’era migliore di armonica attività per il trionfo dell’ideale comune, e per salvaguardare i fini supremi della causa nazionale». «Singole questioni locali» e «singoli indirizzi personali» venissero sottomessi alla ragionevole volontà della grande maggioranza del partito. L’appello terminava eccitando i liberali di tutte le tinte ad entrare nella vecchia «associazione politica nazionale» ed era firmato dall’on. Malfatti e dall’on. Silli , dall’on. Bellat e dall’on. Stefenelli Giuseppe , dal dott. de Probizer e dal signor D’Anna e così via dicendo. Lo scoppio dello sciopero ed altri avvenimenti ci impedirono allora di commentare estesamente l’importante documento, ed ora i commenti sono in ritardo. Tuttavia di fronte al nuovo appello dell’associazione politica nazionale e all’imminente congresso liberale conviene rifarci un po’ alle origini. Constatiamo brevemente. L’antica ditta «liberale-nazionale» parve in un periodo recente cancellata per sempre e sostituita dall’altra più nuova «liberale-democratica». Sotto questa ditta passarono gli uomini nuovi più risoluti, più mitingai, più parolai e soprattutto più ambiziosi. Si proclamò «la rude campagna anticlericale», lo «schiacciamento dei rospi»; nelle vie di Trento si fecero più cortei, si udirono più fischi, venne sguinzagliata la teppa e poi, preparato così l’assalto, venne conquistato il potere del Municipio, alla Dieta e al Parlamento. E poi... gli ingenui aspettarono l’attuazione di quel programma che si diceva differenziasse uomini vecchi e uomini nuovi. Gli ingenui aspettano ancora. L’accorgimento di un uomo al potere vuole che si dimentichi e che ritorni la quiete, perché la reale od apparente continuità d’indirizzo serva a non risvegliare odii ed invidie. I liberali democratici di Trento amano di recente accentuare più il primo nome della ditta che il secondo. Nessuno tuttavia, per quanto avvezzo ad assistere alle capriole liberali, si credeva in diritto di sospettare un pateracchio simile qual’è quello annunziato dall’appello degli onorevoli. Ma questo non è il pateracchio semplicemente, è una vera ristaurazione! Il nome, che ha già sapore storico, significa o l’una o l’altra di queste due cose. O che i liberali democratici finora hanno rappresentato una vera commedia cianciando di programma e di democrazia di contro ai liberali conservatori e in fin dei conti tutto s’è ridotto a dire: «Esci di lì, ci vò star io», o che l’imminenza delle elezioni fa smentire agli uni ed agli altri le proprie idee per amore dei «supremi fini nazionali», i quali evidentemente non sono che i mandati in pericolo. E forse si verificano tutte e due le parti del dilemma. Nell’appello degli onorevoli è detto infatti che tutto il gran vociare che s’era fatto a Trento di programmi e di democrazia non era che effetto «d’indirizzi personali» e «di questioni locali». D’altro canto lAlto Adige , commentando il proclama della Associazione politica nazionale promette la democratizzazione dell’Associazione stessa, il che vuol dire l’infiltrazione dei silliani, ossia non più una ristaurazione ma una rinnovazione. Sarà quel che sarà. A che rompersi il capo? I vecchi e i nuovi si stringono le destre e con l’espressione più ingenua si dicono l’un l’altro: «Che è stato? Un piccolo equivoco!» Ed ecco la «fine di un equivoco», come suona il titolo che l’Alto Adige mette in testa all’appello dell’Associazione politica. Sicuro, tutto un equivoco, signor Brugnara e signor Scotoni , un equivoco, cav. Gerloni , anche le celie del Malfatti con l’on. Körber! E che cosa non sarà mai un «equivoco» di fronte al chiaro «essere o non essere» dei mandati politici? Intanto, aspettando che l’elezione di domani la quale rinnoverà la direzione dell’Associazione politica segni davvero la «fine di un equivoco», ancora un’osservazione all’indirizzo dei nostri amici. Il partito liberale, comunque sia, riprende la sua attività anche nelle vallate, e la sua attività è diretta anzitutto a preparare le imminenti elezioni politiche. A questo lavoro che cosa opponiamo noi? Sono questi i mesi di propaganda, ma invano abbiamo aspettato l’annuncio di frequenti adunanze politiche di organizzazione. Qualche cosa s’è fatto, ma è assolutamente troppo poco. L’organizzazione ideale, popolare, che controbilanci giustamente l’influenza delle valli e le direttive dei centri manca ancora, ed è una verità dura e cruda il dover confessare che l’inverno, la stagione della propaganda, si lasci passare senza colpo ferire. Aspettate che il partito liberale si riorganizzi, che le elezioni vengano proclamate, e poi il vostro lavoro sarà doppiamente gravoso. Il partito popolare trentino ha un programma fisso e discusso ed accolto dai fiduciari della maggioranza del paese. Ma questo programma conviene spiegarlo e propugnarlo ovunque perché noi non contiamo né su congreghe di avvocati, né su circoli di borghesi pasciuti, ma sulle masse di un popolo, che vuol essere illuminato e mosso. Amici, il partito liberale si agita, perché teme il responso delle urne. Noi siamo sempre al nostro posto, il partito della cristiana democrazia, del giovane Trentino, dell’avvenire di questa terra amata. Senza titubanze, senza transigere mettiamoci al lavoro. Se lavoriamo, «la fine dell’equivoco» verrà, e sarà la fine dell’equivoco, in cui s’è trovato un popolo menato a naso per qualche tempo in nome del liberalismo più o meno dottrinario, più o meno piazzaiuolo, a seconda degli «indirizzi personali» e dei «supremi fini» dell’ambito potere. "}
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+ {"filename": "afc18d99-c90c-4008-b9a5-c34e578ac339.txt", "exact_year": 1911, "label": 0, "year_range": "1911-1915", "text": "All’Alto Adige brucia maledettamente un voto nel primo corpo, ed è un voto che viene impresso come una bollatura di fuoco sullo sconcio carname del mostro elettorale, concepito negli amplessi di un liberalismo senza coscienza col socialismo ateo e corruttore. È il voto del rappresentante di Sua Altezza R.ma il P. Vescovo . Invero il fatto è nuovo e significantissimo. L’esito elettorale e i calcoli di prevedibilità che nel I corpo si possono fare con una certa esattezza dicono chiaro che questo voto non venne dato per scopi di parte e che la sua finalità non era ristretta al campo dell’amministrazione di Trento. Di fronte a questa e alle competizioni che vi si agitano attorno, il Vescovo ha dimenticato sempre di essere censito, per riservare ad un eventuale intervento suo quell’alto carattere morale che corrisponde alla dignità ed all’ufficio ch’egli ricopre nella gerarchia ecclesiastica ed alle gravi responsabilità che incombono al supremo Pastore della diocesi. E nessuno in tale riguardo potrà giustificatamente muovere rimproveri al vescovo, per quanto la stampa anticlericale ne volle un giorno fare l’avversario del movimento cristiano sociale ed oggi colle stessa coerenza e colla stessa fondatezza lo riduce a semplice partigiano di una data amministrazione comunale. Se ieri l’altro quindi il vescovo è uscito dalla sua riserva, lungamente mantenuta, converrà ammettere ch’egli avrà avuto ragioni superiori ai ricordi «dell’uomo di parte ed alle pressioni dei suoi», che l’Alto Adige inventa, per dissimulare ragioni più gravi e più profonde. E queste sono alla portata di mano. Quando si vedono elettori liberali di tutte le gradazioni e sfumature accorrere in massa, rinnegando un impiego pubblico a dare il proprio voto a chi propugna la scuola atea e l’abolizione della Messa, a chi proclamava la guerra al prete cattolico proprio nella stessa sala nella quale invitava un prete scomunicato a denigrare la chiesa cattolica come un istituto religioso degenerato, quando si vedono uomini che sono o vogliono passare per religiosi confondere il proprio voto, senza alcuna riserva, con una dimostrazione che dicono anticlericale, ma che in realtà porta alla ribalta uomini i quali minano le basi della religione; quando si vedono maestri ed educatori, ai quali è affidato l’avvenire dei nostri figli accanirsi ripetutamente e senza alcun riguardo per un simile voto ed atto di fiducia, allora c’è da temere che nella nostra vita pubblica vada diffondendosi e guadagnando terreno se non presso tutti lo spirito antireligioso, certo presso moltissimi il cieco indifferentismo di fronte ai problemi morali ed il perturbamento e la confusione delle coscienze. In tali casi l’interessamento deve apparire giustificato e necessario. «L’Alto Adige» non sarà d’accordo. Nessuna meraviglia. Un giornale che fa la reclame alla conferenza Murri ed irride alla protesta dei curatori d’anime sghignazzando sui decreti e sulle sentenze della Chiesa, deve credersi ben tanto da poter giudicare di simili questioni meglio del Vescovo, né si può pretendere che l’Alto Adige il quale ripetutamente ed anche di recente correggeva il latino in bocca al Papa, si astenga dal dar lezioni al vescovo sulla diocesi. Ma fuori di lui e della cerchia dei suoi interessati adepti l’intervento del rappresentante vescovile ha avuto l’effetto di un lampo che attraversa e scinde il cielo buio e nebbioso delle mezze coscienze e rischiara certi ricettacoli degli equivoci e delle transazioni morali colpevoli; fu un atto di protesta, perché la cittadinanza ed il Trentino non fossero indotti a ritenere che gli assenti approvassero o tollerassero in silenzio. Il foglio dell’ex democrazia anticlericale vorrebbe invero richiamarsi ad una neutralità imposta dalla posizione. Ora noi affermiamo che vi sono certi momenti della vita pubblica, in cui l’assenza può avere un significato altrettanto pieno dell’intervento e nei quali il silenzio può risuonare più eloquente della parola fortemente pronunciata. In tali momenti la posizione non fa che rendere più grave di responsabilità e più significativa la decisione nell’uno e nell’altro senso, rendendo impossibile una neutralità qualsiasi, nel senso sostanziale della parola. Ma del resto è forse antecedentemente avvenuto qualche fatto che agli elettori del I corpo potesse consigliare astensioni e riserve che non ebbero? Forse che il futuro podestà di Trento, in vista della sua posizione superiore ai partiti, esitò un momento a portare il suo voto in ballottaggio per contendere alla minoranza del II corpo i suoi rappresentanti, nonostante l’impegno pubblicamente preso, in odio a gran parte dei cittadini e in favore di un programma spiccatamente antireligioso? Forse che il presidente della Lega Nazionale si è astenuto dal votare, non diciamo al primo scrutinio, ma perfino nel ballottaggio, quando si trattava di votare i candidati dell’internazionale Urbani e Battisti contro tre altri cittadini di Trento? Voi chiedete se nelle elezioni di Trento c’entrassero questioni religiose; noi vi domandiamo se il presidente della Lega Nazionale è accorso alle urne per difendere l’italianità del Trentino. Conveniva forse dare un mandato di fiducia al Battisti, perché in Fassa confuse le sue turbe con quelle del Volksbund in una lotta d’odio contro il clero fassano? Era forse necessario dare il voto a quel partito che sull’altipiano, a Sover, a Canezza costruisce il centro di cristallizzazione per il movimento volksbundista? Voi soli dunque pretendereste riguardi da queste persone, verso le quali nessuno dei vostri ne dimostrò antecedentemente, anche se ebbe spesso a toccare con mano il valore che esse rappresentano per la buona causa? Meglio di fronte alla cittadinanza ed al paese, meglio avreste agito, se aveste taciuto e nel silenzio dell’oblio aveste tentato di dimenticare codeste giornate di vergogna nella storia del vostro partito. Non lo avete voluto? Ve ne siamo grati, perché ci aiutate nel nostro proposito di tenerne sempre viva la memoria. I vostri metodi, i vostri connubi, non verranno dimenticati mai! Mai, mai più! "}
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+ {"filename": "7411ccf5-6b8b-4853-b75a-1a9d89a525ee.txt", "exact_year": 1916, "label": 0, "year_range": "1916-1920", "text": "Molti dei sui discepoli, leggendo in patria, al campo o nella diaspora, la notizia della sua morte, penseranno a quel don Segata aitante e sorridente che compariva nella scuola, nelle aule, nel teatrino, nei giardini, nella cappella del collegio vescovile, portando ovunque un’impressione di vitalità ed un’espressione d’ottimismo modesto e laborioso . Ma non è qui il luogo di parlare della sua opera in patria e della sua attività come docente né di raffigurarlo nel nostro Duomo a presiedere a cerimonie solenni della basilica. Ho chiesto invece al «Bollettino» un po’ di ospitalità per interpretare il pensiero dei profughi, i quali m’hanno pregato di attestare su questo loro foglietto il bene che fece loro il professore come «curato degli emigrati» e l��amore e la riconoscenza che sentono e sanno d’essergli debitori. Ma quale testimonianza migliore potrei io rendere di quella che rendeva questa povera gente durante la sua lunga malattia? Tutti i giorni venivano, singolarmente o a gruppi, sotto la finestra della stanza a pianoterra, ove giaceva l’infermo, e domandavano a chi lo assisteva se migliorasse, se non ci fosse un filo di speranza e, quando la risposta data a voce sommessa era necessariamente triste, alzavano gli occhi al cielo e dicevano: «oh, poveretti noi! Cosa faremo senza di lui? Era proprio nostro padre!» Alcuni entravano anche nella stanza e portavano fiori e palme di piante resinose che l’ammalato voleva si collocassero sul letto, quasi pegno consolatore degli affetti che lo circondavano. Nelle ultime settimane egli dovette limitarsi a contraccambiare i loro saluti così disadorni ma così pieni d’affetto, accennando semplicemente colla stanca mano o abbozzando ancora sul volto orribilmente dimagrito, il dolce sorriso di simpatia che gli era naturale; ma dianzi, fino ch’ebbe fiato, chiamava i visitatori al capezzale, voleva che cessassero di chiedere di lui, per rispondere attorno agl’interessi propri: come stessero in famiglia di salute, se avessero ricevuto regolarmente il sussidio, se il figliuolo avesse scritto dal fronte, se trovassero da comperare patate o polenta, se avessero ricevuta la biancheria o le scarpe di cui abbisognavano, se la supplica, scritta da lui un mese fa, fosse stata accolta o se avesse lontana notizia dei parenti, rimasti laggiù nella patria lontana. Soprattutto insisteva nel chiedere se abbisognassero delle consolazioni spirituali che poteva dare il sacerdote e, già moribondo, col corpo così debole da non poterlo sostenere, seduto nemmeno con un grande sforzo di volontà, ascoltò la confessione di qualche povera donna o di qualche ragazzo, a cui impartì l’assoluzione e diede ammonimenti, che parevano venire oramai da una visione ultraterrena. Ma quale ammonimento migliore della sua stessa preparazione alla morte? Quando i medici gli dissero che non potrebbe prolungare la sua vita se non coll’operazione la quale gli avrebbe impedito di leggere la S. Messa e di ricevere l’Eucarestia, egli non esitò un minuto. Disse subito e ripeté a chi scrive: «A che vivere più a lungo, quando non posso vivere come prete? » E si preparò a morire colla calma, colla rassegnazione eroica che dà la filosofia cristiana. Vide così dall’alto del santuario il Svtay Kopecek, che domina la vastissima pianura di Olmütz, staccarsi dal lontano orizzonte la morte e muoversi lentissimamente verso di lui. Ogni sera, per quattro mesi, quando il globo rossastro del sole in tramonto provocava laggiù nelle ultime nebbie un fantastico incendio, egli la vedeva comparire come più vicina, ma i suoi passi erano lenti. Per tre mesi si nutrì di liquidi soltanto, ma più il corpo veniva meno, e più aumentava lo zelo dell’anima. Finch’ebbe un filo di voce comparve sull’altare a predicare il vangelo ai suoi profughi e a dare comunicazioni e istruzioni intorno ai loro interessi; quando non poté più uscire di casa, lesse la Messa nella cappella delle Norbertine (le monache bianche che lo circondarono di tante cure), finché un giorno se non lo si sosteneva, sarebbe caduto per esaurimento. Messosi a letto, lesse il breviario, fino a che gli occhi e la mente si rifiutarono assolutamente il loro servizio. Allora attese con desiderio la morte liberatrice. Ma essa saliva su per il sacro monte (Svtay Kopecek, Heiligberg, Monte santo), lentissimamente. Un intiero mese giacque ancora senza lamento, e non amando che si parlasse a lui stesso che di cose dell’anima, ma compiacendosi che, se due trentini si fossero trovati ai piedi del letto, parlassero della città patria e del paese in cui non doveva più ritornare. Di laggiù non aveva ancora che due desideri: di rivedere alcuno dei suoi e di ricevere la benedizione del suo Vescovo a cui era tanto devoto. Quando s’era già rassegnato a rinunziare al soddisfacimento di questi desideri, Dio prolungò la sua vita per concederli entrambe le consolazioni. Ci apprestammo così all’ultimo giorno, in cui la morte comparve finalmente sulla soglia di casa. L’infermo, che la mattina aveva ricevuto come tutti gli altri giorni, la Comunione, sentendo ormai che anche l’ultimo rimasuglio di vita se n’andava, chiese della carta e vi scrisse per il prevosto: «Prego, il colore violetto!» all’amico che gli era accanto poi consegnò il piccolo rituale dei moribondi, aperto alla pagina delle ultime preghiere dell’agonia e, quando l’agonia era imminente, fece segno che leggesse. Era il sacerdote che celebrava il proprio sacrificio, il cerimoniere di sé stesso e dei funebri suoi... Dietro la bara si raccolsero quasi tutti i «curati dei profughi» dispersi nella Moravia e piansero tutti i nostri emigrati, sparsi nell’altopiano di Hannak. Anche gli slavi dimostrarono la loro ammirazione, accompagnando alla tomba quel «Pane Professore» che ultimamente, per poter soccorrere ancora meglio i suoi, s’affaticava ad apprendere la lingua del paese, ed una signora volle accordargli ospitalità anche oltre la morte, dando asilo provvisorio alla salma nella tomba di famiglia, finché la voce della patria, non lo richiami di là – nella sua pace. Altri parlerà forse allora del professore, del maestro, dell’uomo colto; io qui non v’ho detto che del «Flüchtlingsseelensorger», nome ufficiale livellatore, nella cui veste modesta e povera girano tra i profughi, resi quasi tutti eguali in dignità e giurisdizione, coloro che in patria erano monsignori, arcipreti o cappellani, uomini di lettere o curati di campagna. Onde è che ponendo questo fiore sulla sua tomba, vengo a dare al mio atto di omaggio un senso estensivo diretto a codesto clero della diocesi tridentina, che disperso in tante province suscita per lo spirito apostolico che lo anima e la carità di Cristo che lo spinge, l’ammirazione delle genti d’altra lingua o d’altra fede. Amico. "}
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+ {"filename": "45503b1d-97bf-4864-8c14-c40d1096ea93.txt", "exact_year": 1921, "label": 1, "year_range": "1921-1925", "text": "Più che 2000 congressisti – Un ministro e quaranta deputati – I rappresentanti della cooperazione trentina. Impressioni Treviso, 3 notte. Questo primo Congresso è stata una rivelazione, imponente, magnifica, una affermazione di forza e di volontà, una manifestazione spontanea di una coscienza altamente cristiana erompente con l’azione ricostruttrice e vivificatrice nell’odierna crisi sociale, una rivendicazione solenne di un principio di giustizia fin a poco tempo fa conteso ai cooperatori bianchi che dovettero attraverso una lotta paziente di questi due anni strappare al governo il riconoscimento di quell’equo trattamento mediante il quale tutti gli organismi cooperativi fossero parificati di fronte agli istituti pubblici. Esso ha segnata la sintesi di tutto un lavoro costruttivo sviluppatosi mediante l’opera di uomini infaticabili e il concorso di sane energie regionali fra mille difficoltà di mezzi tecnici e finanziari, lavoro che però ha portata oggi la cooperazione cristiana d’Italia a una vera fioritura in tutti i suoi singoli rami e nel contempo ha dischiuso le vie a un più sicuro cammino ascensionale di ampliamento e rafforzamento. Una fede viva e profonda, un entusiasmo sincero pervadeva l’anima dei congressisti. Le discussioni procedevano vivaci e stringenti; si sentivano in esse echi delle lotte, le gioie delle vittorie, i dubbi, i timori, le ansie per una prospettiva di un domani migliore, i consigli dell’esperienza, gli incoraggiamenti, gli auguri. Il Congresso era dedicato alla memoria del venerando maestro prof. Toniolo, all’apostolo infaticabile, all’eroe della democrazia cristiana, al sociologo insigne sulle cui direttive tutta l’azione sociale cristiana oggi si svolge e dalle quali trarrà ora e sempre fede di propositi, luce di ammaestramenti. Crediamo che atto migliore per onorare il maestro non si potesse compiere, perché l’omaggio di opere feconde di bene, inspiratrici di giustizia e pace cristiana, era la prova più efficace per dimostrare che i discepoli avevano amato il maestro e che il maestro aveva additata la via diritta. E chi c’era al congresso? Tutta l’Italia cristiana rappresentatavi dal più umile cooperatore fino all’uomo di governo. Tutte le più spiccate personalità del nostro campo cooperativo, sindacale politico erano intervenute. Non abbiamo sentiti discorsi retorici, né abbiamo assistito a parate accademiche. I problemi sono stati lumeggiati, discussi, analizzati al lume di una sorprendente praticità e questa è stata per noi la prova del vivo interesse e del grande convincimento che appassionava gli animi e affaticava le menti, perché i risultati dovessero segnare una tappa e perché l’azione iniziata avesse a perfezionarsi e intensificarsi. E noi trentini che alla cooperazione abbiamo data tutta la nostra attività e che l’abbiamo sviluppata fin già da 25 anni, abbiamo guardato ai nostri fratelli delle vecchie provincie con tutta la simpatia e ad essi abbiamo invidiato l’entusiasmo e la fede. Comprendiamo che gran parte dei problemi che oggi affaticano i nostri fratelli, che gran parte delle difficoltà che l’inceppano furono da noi felicemente superate, ma non per questo possiamo tacere questa impressione e questo confronto. Quando si pensa che nelle vecchie provincie fin a due anni fa si negava il riconoscimento alla cooperazione cristiana e che il Governo ciecamente o meglio astutamente appoggiava la rossa lega nazionale delle cooperative che sotto la parvenza della neutralità nascondeva un programma di carattere prettamente socialista, quando si pensa che la cooperazione cristiana è sorta con pochissimi mezzi e tecnici e finanziari e ha dovuto di propria iniziativa imporsi attraverso tutte le contrarietà dei socialisti detentori di un monopolio che li faceva i veri mantenuti dello Stato e che lo sviluppo della stessa si è svolto in una lotta continua contro gli avversari e contro i pescicani su di un terreno scottante ancora per gli echi della guerra che gli avversari sfruttavano a scopo rivoluzionario contro un governo debole; non si può fare a meno di ammirare e di imitare questi uomini e di trarre da loro quell’entusiasmo che è la molla potente che infrange tutti i dubbi e tutte le incertezze. Abbiamo sentite parole di vera ammirazione per la nostra cooperazione trentina specialmente nel campo del credito e del consumo perché di quello che noi abbiamo raggiunto in molte delle vecchie provincie non è stata ancora possibile l’attuazione, ma pensavamo che a sorreggere questa nostra organizzazione regionale, a perfezionarla ancor più, occorre una fede viva che faccia dei cooperatori dei veri apostoli disinteressati che, combattendo tutte le forme della speculazione adempiano al loro dovere di giustizia e di pacificazione sociale. Le organizzazioni cooperative hanno un carattere profondamente morale che se non si rileva nella tecnica deve però manifestarsi nella pratica e deve informare lo spirito e la coscienza dei cooperatori. Con tale pensiero l’Avv. Ercole Chiri il segretario generale della Confederazione cooperativa italiana, chiudeva la sua lucida e completa relazione e questo pensiero noi portiamo a tutti i nostri cooperatori, perché rinsaldino la loro fede e si confortino nel ricordare che anche nelle vecchie provincie nuovi fratelli battono la strada che essi percorrevano venticinque anni fa, e che la strada della cooperazione cristiana è quella che ci porterà tutti nel porto sicuro della pacificazione. E sappiano ancora i nostri buoni cooperatori che quando in seno al congresso fu portata la voce del nostro Trentino invocante giustizia contro l’Istituto nazionale di credito per la Cooperazione il quale fin’ora ha ignorato o voluto ignorare tutto il movimento nostro cooperativo specie nel campo della produzione e del lavoro, da parte di tutti fu levata fiera protesta e a nome del congresso la protesta stessa fu telegrafata al Ministero delle Terre liberate perché autorevolmente intervenisse a favore delle nostre cooperative. Questo nobile atto di solidarietà dei nostri fratelli sia esso un segno della loro viva simpatia per noi e ci sia di sprone a proseguire «tutti per uno e uno per tutti». "}
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+ {"filename": "7dda5324-5c65-41a4-ba4a-b55f88e7d287.txt", "exact_year": 1929, "label": 2, "year_range": "1926-1930", "text": "Un romanziere tedesco, ormai celebre, Enrico Mann , scriveva ancora nel dicembre del 1925 in un grande foglio liberale di Berlino: «In Berlino i teatri stanno vuoti, mentre un oratore ecclesiastico riempie sempre, pur che lo voglia, le sue sale. L’oratore in talare domina il suo pubblico più di qualsiasi attore drammatico. Egli rappresenta delle idee. Le sue mani costruiscono le idee sotto gli occhi del pubblico e le sue pupille sembrano proiettarle nello spazio. Il suo corpo sotto l’impulso del pensiero che lo domina, è come si movesse attorno agli uditori e li circuisse e li spingesse d’ogni parte verso l’uscita, che è la fede. Non l’hanno ancora raggiunta. Ma essi trattengono il respiro, e può essere che in questo raccoglimento che li soggioga, arrivino fino a lei». Si potrebbero citare a centinaia i giornali, per lo più protestanti o acattolici che prima o dopo il ’25 scrissero in un senso altrettanto ammirativo intorno a questo prete cattolico . E siccome la sua fama non è spenta, ma ingrandisce ogni giorno e il conferenziere s’avvia colle sue ultime pubblicazioni a diventare uno scrittore di un genere assai diverso dal tipo usuale dell’erudito tedesco, non sarà fuor di luogo di farlo conosce anche in Italia. Il «cappellano» – egli ama adornarsi di quest’epiteto modesto insieme e battagliero – Helmut Fahsel nacque a Kiel nel 1891 da genitori protestanti. Suo padre, pubblicista di grande talento e di chiara fama, gli venne a mancare già nel sesto anno di età, cosicché il piccolo Helmut venne allevato a Berlino – in casa di uno zio – assai ricco. Helmut non fu quello che si dice uno scolaro diligente; preso anzi dalla mania dei libri e dello sport, troncò a mezzo il ginnasio per entrare come volontario in una grande libreria. Fu qui che nacque e si sviluppò in lui una vera passione per le letterature antiche, per la greca soprattutto, tanto da indurlo ad apprendere il greco a perfezione. Accanto ad Epiteto e Marc’Aurelio incominciò a interessarsi anche del buddismo e, attraverso questo, di Schopenhauer. Un giorno gli capita in mano «la via più breve della perfezione» del gesuita spagnolo P. Nieremberg e d’allora in poi incomincia ad interessarsi della mistica cattolica, specie dei mistici tedeschi, come il Taulero e il Susone . In queste letture rimane colpito dal contrasto fra il pessimismo schopenhaueriano e l’attivismo ascetico dei mistici cattolici, contrasto che descriverà poi in un ciclo delle sue conferenze. È attraverso le citazioni dello stesso Nieremberg che impara a conoscere Tommaso d’Aquino, del quale lo attrae sovrattutto la fusione dell’ellenismo aristotelico colla mistica e coll’ascetica cristiana. Ed eccolo a studiare e far transeunti dalla Somma. A questo punto la sua conversione intellettuale è compiuta, ma la conversione del cuore s’era già iniziata colla sua prima conoscenza delle suore cattoliche, avuta durante un’operazione alla clinica. Quando scoppia la guerra europea, Helmut Fahsel ha già ripreso e compiuto il liceo e prima di partire per il campo, ha attuata anche formalmente la sua conversione al cattolicismo. Ma al fronte non rimane a lungo; in Ypres cade ammalato e quindi rimpatria. Ora può soddisfare a quello che frattanto è divenuto il suo voto: farsi prete cattolico. Ed eccolo inscritto alla Facoltà teologica d’Innsbruck e poi a quella di Breslavia, donde nel 1920 esce ordinato sacerdote. Dal 1920 al 1924 è cappellano in Neukölln, sobborgo di Berlino. È qui che comincia la sua carriera di conferenziere. Sono dapprima conferenze di carattere religioso e filosofico in piccoli ambienti cattolici, poi un ben riuscito contraddittorio con un comunista lo spinge sul proscenio dei grandi saloni. Il cappellano Fahsel parla nella «Filarmonica» di Berlino , e in ambienti consimili, ove spesso gli uditori sono in maggioranza acattolici. Una volta, per iniziativa di una società semita affronta il tema «religione e tolleranza»; un’altra volta fa una celebre discussione con un dotto miscredente: dalla quale nasce il suo libro «colloqui con un ateo». Oggetto delle conferenze alla Filarmonica sono la verità, la bellezza e la bontà del mondo delle idee. Ecco, per esempio, il ciclo dell’inverno 1926-27: «L’influsso dell’idea sugli uomini», «Platone e l’origine delle idee», «Kant e la critica della conoscenza», «Goethe e l’uomo faustico», «Matrimonio e amore», «Idea di Stato e concezione della vita», «Budda e Nirwana», «Legge naturale e moralità», «Arte e morale», «Genio e carattere». Il Fahsel parla liberamente su appunti in una forma scelta e con grande chiarezza ed eleganza di termini. Del suo metodo e dei suoi successi possiamo darci ragione leggendo le sue pubblicazioni, edite dall’Herder. Ai «colloqui con un ateo» abbiamo accennato più sopra. Un altro ciclo di conferenze è sintetizzato nel «superamento del pessimismo» (Herder 1925) , libro con evidenti riflessi autobiografici, che contrappone al sistema di Schopenhauer il pensiero della mistica e dell’ascetica cristiana, l’affermazione cioè della speranza e della vita attraverso la sofferenza e l’abnegazione. In modo mirabile, delicato e tuttavia esauriente, si occupa il Fahsel dell’amore e del problema sessuale in «Ehe, Liebe und Sexualproblem», pubblicato dall’Herder nel 1928 e giunto oramai a 14 mila copie . Nella prima parte si parla dell’eros dal punto di vista platonico, lumeggiando il famoso «Convito» del filosofo greco e passando da questo alla filosofia cristiana; la seconda tratta dell’eros nel matrimonio, nella generazione nella famiglia; la terza s’occupa del problema sessuale in genere, com’esso si presenta nella vita moderna, risalendo infine all’eros che aspira nell’unione mistica a Dio stesso. Negli ultimi tempi il Fahsel, alleggerito per consenso dei superiori obblighi fissi e giurisdizionali della cura d’anime, ha costituito a Berlino un «ufficio tomistico» col proposito di dedicare tutto al suo talento di conferenziere e di scrittore alla volgarizzazione del pensiero dell’Aquinate. Di questa serie di lavori è già uscita per cura del Fahsel la traduzione del commento di S. Tommaso alla lettera paolina ai Romani, ed altri volgarizzamenti sono in preparazione. "}
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+ {"filename": "c3beafb4-04a5-4d23-8ab5-70f78c2402f8.txt", "exact_year": 1931, "label": 2, "year_range": "1931-1935", "text": "Già nel 1871 sotto gli auspici di Pio IX, era sorta a Roma la «Primaria Associazione Artistica ed Operaia di Carità reciproca» . Il quale aggiungendo al mutuo soccorso, alla cassa di risparmio, all’istituto per case economiche (I) le sue magnifiche scuole di arti e mestieri ancor oggi fiorenti, organizzando i soci secondo le professioni costituiva e costituisce tuttora il primo esempio delle rinate corporazioni cristiane. Nel 1901, celebrandosi il trentennio della fondazione, il relatore magnificava l’opera di quei primi pionieri, i quali «vollero e seppero organizzare numerose falangi di lavoratori, raggruppandoli in quelle divisioni di arti e mestieri, le quali rispecchiando e rinnovando le antiche corporazioni prepararono la via a quel regime corporativo, che è uno dei capisaldi del programma popolare cattolico». Ricordava egli ancora che nelle scuole di mestieri dell’associazione erano stati istruiti 6000 allievi, che si erano distribuite 484.899 lire a sollievo di 21.184 infermi; soccorsi 479 vedove e orfanelli, affigliate e raccolte sotto l’egida della «Primaria» altre 66 associazioni consimili dell’Italia e degl’italiani all’estero. Queste società portavano generalmente l’epiteto di «carità reciproca», per distinguerle cristianamente da quelle di «mutuo soccorso» promosse queste per la maggior parte dai mazziniani e dai liberali. Su questa particolare distinzione del titolo s’insistette anzi anche molto più tardi, e c’è in argomento una conferenza tenuta nella seconda metà del decennio dal Toniolo innanzi ai suoi concittadini di Treviso. Poco dopo il ’70 si menava in Francia gran vanto della corporazione cristiana fondata da Leone Harmel a Val-du-Bois presso Beins ; nella qual città nell’anno 1875 venne convenuto anche un congresso dei circoli cattolici, per deliberare intorno alle corporazioni da diffondersi in tutta la Francia. Quale non fu la meraviglia dei Francesi, quando sentirono raccontare dal conte Ivert venuto allora fresco fresco dalla città eterna che la corporazione cristiana a Roma già esisteva e che la «artistica operaia» era la primaria d’una serie d’altre società similari. Questo fu il primo dei numerosi contatti ch’ebbe poi la società romana col movimento operaio cattolico francese, capitanato dal conte De Mun e Leone Harmel. Quando quest’ultimo venne in pellegrinaggio a Roma nel 1885 con un centinaio d’industriali, l’Artistica operaia fece gli onori di casa e gli ospiti si partirono ammirati specialmente della scuola d’arte. Grandi accoglienze vennero fatte ai Francesi anche durante i famosi pellegrinaggi del lavoro del 1887 e 1880 e le sale della società romana echeggiarono della calda ed eloquente parola di Alberto de Mun . Ma i tempi non correvano prosperi per le società cattoliche. Lo si vede in occasione dell’esposizione nazionale di Torino del 1884. L’artistica operaia vi aveva partecipato con un complesso notevole comprendente le scuole d’arti e le varie provvidenze per l’operaio. Il successo fu così evidente che la società romana venne proposta per un premio, ma la giuria composta in maggioranza di anticlericali, scongiurò il pericolo, facendo votare una pregiudiziale ch’escludeva da ogni premio qualsiasi società di carattere confessionale. Il settario verdetto provocò un’esplosione di proteste, alle quali aderirono anche molti fogli liberali. La direzione della società presentò una vibrata rimostranza al principe Amedeo duca d’Aosta , protettore dell’Esposizione e molte altre società cattoliche d’Italia vi apposero la loro adesione. Si distinse in tale occasione la società consorella di Torino, la quale mandò a quella romana un’artistica pergamena commemorativa. Assistente ecclesiastico della società era mons. Domenico Jacobini, segretario della Propaganda e morto nel 1901 come cardinale; uomo che godeva la particolare estimazione di Leone XIII. Egli tenne nell’adunanza di protesta contro l’ingiustizia di Torino nel dicembre 1884 un vibrato discorso nel quale fra l’altro diceva: «Discacciandoci dal partecipare ai benefici dell’epoca presente come fautori del passato delle nostre artistiche associazioni, essi sono ingiusti verso la patria… essi che ci condannano perché suscitiamo in Italia le società antiche, perché evochiamo la memoria del loro spirito… E non sono state quelle antiche maestranze le glorie dell’Italia?… Chi non ricorda l’altezza a cui giunsero i corpi d’arte in Roma stessa, quando, elevati i tribunali delle stesse arti, i loro consoli giudicavano in Campidoglio? Essi esaminavano le questioni che le riguardavano vicino alla torre del Mercato e per moltissimo tempo ebbero potenza nel Comune…» L’Artistica operaia, che nei primi tempi ebbe la sede in via Testa Spaccata nel palazzo Grazioli, demolito poi per far largo al monumento di Piazza Venezia, acquistò importanza anche come centro di ritrovo per i cattolici sociali stranieri. Fu nei suoi locali che nel 1882 si radunò attorno a Mon. Iacobini un primo gruppo di studiosi, composto di mons. Mermillod vescovo esiliato di Ginevra e poi cardinale, del conte Francesco Kuefstein, senatore austriaco, che passava la stagione invernale a Roma ove aveva sposato una Odescalchi, del conte Blome senatore ed ex diplomatico austriaco e del P. Denifle , il celebre storico domenicano. Questo primo cenacolo andò allargandosi negli anni seguenti e assorbì in parte le forze di un altro circolo di studiosi e di gentiluomini che si trovavano in casa del principe Paolo Borghese . Sopravvivono ancora di questi primi cattolici-sociali, l’avv. Burri, che pubblicò nel 1888 un libro sul «lavoro» , il sen. Soderini che assieme al Burri pubblicava nel Bollettino dell’Artistica operaia – dal 1876 veniva stampato un bollettino mensile – delle note di sociologia cristiana e più tardi compilò un’opera a suo tempo assai letta, sul Cattolicismo e Socialismo , il senatore Santucci e, il più autorevole di tutti, mons. Talamo, uomo di grande intelligenza, conosciutissimo come filosofo tomista e che, dopo la comparsa della Rerum novarum, fondò e diresse fino al dopoguerra la Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliari, trasferita ora a Milano, presso l’Università cattolica . Fra i frequentatori di queste riunioni va ricordato anche il P. Liberatore, gesuita della Civiltà cattolica, che nel 1889 pubblicò gli Elementi di economia politica . Di questo primo periodo di cattolicismo sociale l’anima fu il cardinal Domenico Iacobini e il centro di collegamento l’Artistica operaia, albero questo che ha oramai profonde radici nel mondo cattolico romano e allarga ancor oggi le sue fronde benefiche. La festa per la Rerum novarum è anche un po’ la sua festa, perché la «Primaria» romana merita d’essere inscritta fra quelle forze che la prepararono. I A proposito di case economiche trovo nella tariffa per le pigioni stabilita dalla società nel 1890 che una casetta con 5 vani, 2 cucine e 3 ingressi costava L. 50, 3 vani da L. 22 a 25, 1 vano con cucina L. 12 al mese. Che tempi! "}
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+ {"filename": "760df0a3-01b5-4e89-a961-3aa03ce50f06.txt", "exact_year": 1938, "label": 2, "year_range": "1936-1940", "text": "La sera del 13 marzo 1545, al tuonare delle artiglierie, entravano in Trento, accolti dal Cardinale Madruzzo i Legati Pontifici Cardinal Del Monte, poi Papa Giulio III e Marcello Cervini, poi Marcello II ; e aveva inizio così una delle maggiori e più feconde manifestazioni della storia ecclesiastica. Avvenimenti più clamorosi, manifestazioni più spettacolari sono scomparse nell’ombra remota della storia civile, ma il Concilio di Trento costituisce ancor sempre il fondamento della vita ecclesiastica e religiosa, ogni parroco prima del possesso, ogni laureando prima della promozione, ogni vescovo prima della consacrazione, ogni clerico ricevendo gli Ordini, tutti riconfermano solennemente la loro fedeltà ai dogmi, come vennero formulati nel Tridentino, e alle norme giuridiche e disciplinari, dettate o rinnovate dal famoso Concilio . Alla vigilia del Congresso di Budapest si può anzi ricordare particolarmente che il Concilio di Trento sta come all’origine del moderno movimento eucaristico, poi che tutte le disposizione venute dopo per la Comunione frequente e per un più intenso culto dell’Eucarestia sono sviluppi, interpretazioni, applicazione dei celebri decreti tridentini sul Sacramento dell’Altare. Quando nella chiesa di S. Maria Maggiore in Trento si volle dipingere un quadro commemorativo che della celebre assemblea rappresentasse una delle scene più impressionanti e decisive, si scelse appunto il momento, in cui i Padri ascoltano commossi la parola infocata di Padre Diego Laynez durante il suo famoso discorso sull’Eucarestia. Il generale dei Gesuiti parla come sotto l’impulso di una irresistibile ispirazione, cinque ambasciatori siedono ai piedi del pulpito e tutt’attorno nell’emiciclo cardinali, vescovi, teologi appaiono come soggiogati da un profondo e confortante pensiero. Ma il Concilio oltre che organizzare a avviare l’interna riforma della Chiesa, salvando la purezza del dogma e inculcando quella dei costumi, ebbe una palese efficacia nella stessa vita sociale del mondo, poiché a Trento trionfò il principio dell’attivismo ottimista contro Lutero che negava l’efficacia delle opere e proclamava l’irrimediabile corruzione dell’umana natura. Il cammino delle civiltà, i progressi umani – fu di nuovo dichiarato a Trento – sono frutto di una collaborazione fra Dio e l’uomo. L’uomo, collaborando con Dio, si fa artefice del proprio destino. Chi visita la mirabile cattedrale di Trento, può venerare ancora, in una cappella di destra, il «S. Crocifisso del Concilio», innanzi al quale furono prelette e promulgate le decisioni conciliari. Il Crocifisso, in grandezza più che naturale, veniva allora sollevato in alto nel centro del Duomo e chiamato quasi a testimonio dell’eterne verità che venivano difese e proclamate. La fiamma che vi arde perpetuamente dinanzi appare ancora oggidì come il simbolo di una continuità di vita e di grazia: le energie vitali del cattolicismo che a Trento vennero energicamente rievocate, continuano a rinnovarsi nella Chiesa di ieri, di oggi e di domani. Commemorare dunque il Concilio di Trento non è fare opera accademica, ma è e deve essere un rivivere nel tempo presente le ragioni della nostra vita religiosa e sociale, alimentandoci della fede illuminata e robusta che a Trento celebrò una delle sue maggiori vittorie. Per questo nessuno troverà fuor di luogo la notizia che l’Arcivescovo di Trento Mons. Celestino Endrici abbia già costituito fin d’ora, col concorso della autorità politiche e municipali, un Comitato per preparare la ricorrenza quattro volte centenaria del Concilio . Il comitato si propone di pubblicare un periodico per illustrare i monumenti e i personaggi conciliari, di organizzare una mostra iconografica e di promuovere l’erezione di una chiesa a Cristo Re in un rione della città . In una lettera nella quale il zelante Arcivescovo dà notizia di tale iniziativa al Santo Padre, Mons. Endrici esprime la speranza che «la rievocazione di quanto ha legiferato il celebre Concilio nel campo dottrinale e disciplinare costituisca un baluardo contro la diffusione di errori e di dottrine che vorrebbero ferire il corpo mistico di Cristo» e che le preghiere elevate in quest’occasione dal popolo cristiano «affrettino in mezzo alle nazioni la pax Christi, necessaria per la fruttuosa e universale partecipazione a questo centenario». Sua Eccellenza chiude la sua lettera implorando la benedizione di Sua Santità sull’opera del comitato «perché la sua attività porti frutti abbondanti non solo di gloria e decoro per la Chiesa, ma ancora di grande vantaggio per il benedelle anime». A tale lettera il Santo Padre faceva rispondere dal Suo Segretario di Stato, Sua Eminenza Rev.ma il Signor Cardinale Eugenio Pacelli col seguente venerato documento: «L’iniziativa presa da Vostra Eccellenza Rev.ma per una degna commemorazione del IV Centenario del Concilio di Trento, ben risponde all’importanza di un fatto che negli annali della Chiesa ha il vero e proprio carattere di un avvenimento capitale, destinato a segnare l’inizio di nuovi tempi nella combattuta vita di lei. Gli ardui lavori che per tanto spazio di anni e in mezzo a così delicate e complicate vicende fecero di codesta illustre città la privilegiata sede di cos’importanti assise, sono ben meritevoli di essere rievocati in questa occasione alle luce della storia, mentre la loro vitalità non è punto diminuita e dei loro frutti gode tuttora in pieno la Chiesa docente e tutto il popolo cristiano. Condotta nella forma austera a cui Vostra Eccellenza accenna nella sua lettera al Santo Padre, questa celebrazione apparisce fin d’ora feconda essa stessa di beni spirituali ed in particolar modo adatta a ridestare negli animi la fede intiepidita e l’attaccamento filiale alla Madre comune, la Chiesa, custode gelosa della Verità rivelata e sempre vigile sui nuovi bisogni della grande famiglia di Gesù Cristo. Vivamente augurando che l’opportuna commemorazione abbia per ogni verso il successo che è lecito sperarne, Sua Santità si compiace intanto con lo zelo pastorale da cui emana l’idea, e lodando volentieri le manifestazioni prescelte invoca sul ben ordinato lavoro i lumi e i favori del Cielo, ed in auspicio di questi doni invia di cuore all’Eccellenza Vostra ed alle egregie persone da Lei chiamate a tradurre l’idea in atto, la confortatrice Apostolica Benedizione». Assicurato così all’iniziativa l’augusto incoraggiamento del Santo Padre, Monsignor Endrici, come ci scrivono da Trento, intende ora rivolgersi all’Ecc. mo Episcopato, ai generali degli Ordini religiosi, agli Istituti cattolici d’alta coltura, e alla numerosa schiera degli studiosi che scrissero sul Concilio di Trento, perché la commemorazione assuma quel carattere di universalità che le è dovuta, sia in appoggio delle iniziative già annunciate, sia per prenderne delle di maggior respiro e più vasta risonanza, a cui provvedano organi o istituti di carattere mondiale. La stampa cattolica sarà ben lieta di prestare tutto il suo appoggio e il suo doveroso concorso. "}
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+ {"filename": "8037bef4-c82e-46a1-884e-eac7eb6f3ddc.txt", "exact_year": 1941, "label": 2, "year_range": "1941-1945", "text": "Non si è parlato ancora in queste colonne dell’ultimo volume della storia dei Papi di J. Schmidlin (I) , che è tutto una monografia su Pio XI; o meglio vi si è fatto cenno, discorrendo del penultimo volume di tale storia (Pio X e Benedetto XV), perché nella prefazione di questo l’A. narra d’aver allora, cioè nel 1935, elaborata anche la storia di Pio XI e di aver espresso personalmente al Papa il proposito di pubblicarla, lui ancora vivente; al che Pio XI avrebbe esclamato: «Post mortem lauda…vel non lauda. Mi lasci morire, mi lasci morire!». Per corrispondere a tale desiderio, lo Schmidlin pubblicò nel 1935-36 un mezzo volume sui due pontefici antecedenti e il Pio XI è comparso lo scorso anno; cosicché oggidì la «Papstgeschichte der neuesten Zeit» comprende un primo volume di 708 pagine che va dal 1800 al 1846, un secondo di 610 pagine che narra la storia di Pio XI e Leone XIII, un terzo di 350 pagine quest’ultimo su Pio XI, con un epilogo intorno all’elevazione del Papa presente . L’editoriale Kösel-Pustet di Monaco ha rivestito questi quattro volumi di forme solide ed eleganti che così anche per le loro qualità esteriori costituiscono un gradito ornamento di libreria. Quando si ricordi che l’opera venne iniziata appena nel 1933 e che le vicende personali dell’A. le fecero subire delle soste imprevedibili , non si potrà non lodare tanta somma di lavoro, tanta diligenza nello spogliare cronache, libri e documenti, nell’annotare e classificare fatti e uno sforzo così costante nel condensare e contenere tutta l’immensa materia entro gli schemi ereditati dal Pastor, del quale appunto lo Schmidlin si presenta come il continuatore. Se su qualche apprezzamento dell’A. abbiamo fatto, parlando degli altri volumi, qui e là, qualche riserva non essenziale, pur riconoscendo in via di massima che la tendenza dello storico cattolico a liberarsi per amore della verità da abitudini panegiristiche debba venire approvata, anzi incoraggiata, non ci sembra aver osservazioni da fare a tale riguardo su questo volume, per quanto le difficoltà del compito dell’A. siano andate crescendo, a mano a mano che si sono raccorciate le distanze di tempo fra il soggetto e l’oggetto e hanno toccato naturalmente il culmine nella storia del Pontefice contemporaneo. L’A. ben se ne rende conto, quando, nella prefazione del Pio XI parla del suo «compito difficile e delicato» che consiste «nell’osare il tentativo» di ricostruire «secondo le leggi della verità e critica storica e pur nelle forme di rispetto che è doveroso quanto per i non cattolici» la figura e il governo dell’ultimo Pontefice. È riuscito il tentativo? Rispondere a tale domanda in senso assoluto equivarrebbe ad «osare un tentativo» ancora più temerario. Gli archivi sono chiusi, come sono chiuse le labbra dei personaggi che furono protagonisti o collaboratori: sarà solo a mano a mano che si pubblicheranno documenti, diari, testimonianze e memorie che sarà possibile far rivivere con tutti i suoi contorni e in tutta la sua intima verità la figura di Pio XI . Già da quando lo Schmidlin diede alle stampe il suo lavoro, altri studi e discorsi sono giunti a portare nuovi elementi; basti ricordare i contributi dei cardinali Pellegrinetti , Pizzardo e Tisserant e di Mons. Gonfalonieri , senza dire che anche il necrologio pronunziato da Sua Santità Pio XII nell’annuale della morte costituisce un’alta e storica testimonianza di un collaboratore immediato e insigne. Inoltre come dare un giudizio definitivo sui criteri di governo e specie sulla via seguita nelle relazioni politico-ecclesiastiche, quando sistemi e fatti vanno ancor oggi evolvendo, maturando o dissolvendosi e quando la difficoltà della sintesi già di per se stessa assai grande, è resa più grave dalle restrizioni ambientali imposte alla storiografia? Chi potrà dire ad esempio, che i capitoli dello Schmidlin riguardanti la situazione della Chiesa Cattolica in Germania rappresentino il dramma in tutte le sue fasi, in tutti i suoi attori, in tutto il suo svolgimento storico, di modo che i posteri ne siano completamente istruiti? Più disinvolto, più drammaticamente efficace ci pare riuscire lo Schmidlin quando fa la storia della Conciliazione in Italia, nel quale capitolo è evidente il proposito di prospettare la grandezza dell’avvenimento, e di dare ogni rilievo alle luci, senza trascurare le ombre. Forse la descrizione di Luigi Salvatorelli uscita dopo il nostro , si potrà definire più plastica, ma lo Schmidlin vuole essere anche completo ed analitico nel riprodurre contenuto e termini dei testi e particolari dei negoziati e dei discorsi. Certo è che anche gli storici, scrivendo di storia contemporanea, non sono limitati soltanto dalla soggettività delle loro impressioni; ma si sentono anche contenuti dai medesimi riguardi che s’imposero nella parola e nell’opera gli stessi uomini d’azione, dei quali scrivono; onde si usa concludere che la storia vera non possa venir scritta che a distanza d’una generazione. Ma comunque sia di tal criterio storiografico idealmente severo, rimane il fatto che volumi come quelli dello Schmidlin esercitano nel campo degli studi una funzione di pubblica utilità e dalla cerchia più vasta agli uomini colti, che cercano informazioni, meritano ogni riconoscimento. I cultori di storia ecclesiastica dell’indomani dovranno essere grati allo Schmidlin per l’ampiezza e (tolte poche sviste) l’esattezza del suo apparato bibliografico, a proposito del quale troverei solo da deplorare che l’avere talvolta citato, forse per amore di completezza, accanto a scrittori di polso, nomi di effimero valore, può indurre in chi legge un qualche errore di prospettiva. Quanti poi vorranno studiare la storia pontificale moderna non potranno rinunziare a questa narrazione panoramica, paese per paese, materia per materia, fatta col vigile sforzo di non trascurare niente di essenziale, dal contenuto di un discorso al riassunto di un’enciclica – e sono queste sole una trentina! – dalla descrizione di una cerimonia alla valutazione di un passo diplomatico, dal rilievo di un gesto di mecenatismo ai termini di un concordato, dall’apprezzamento su di un fatto periferico all’analisi più attenta della vita intima religiosa. Converrà quindi essere lieti che in tempi così agitati e ferrigni vi siano degli uomini, i quali, cercando di sottrarsi ai perturbamenti dell’ora, si consacrino ad una fatica tanto meritoria e servano la causa della Chiesa, mirando a servire sopra ogni cosa quale essa si presenta loro nella luce crepuscolare della giornata non ancora compiuta: e, oltre che all’autore, converrà essere grati anche all’editore per aver osato un’impresa di tanta mole. I JOSEPH SCHMIDLIN, Papstgeschichte der neuesten Zeit. Papstum und Päpste im XX. Jahrhundert. Pius XI (1922-1939). Pp. 230 in 8° grande. München, Verlag Kösel-Pustet, 1940. 1942 "}
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+ {"filename": "d1014574-f7ad-4976-8bab-c84b0136a0f6.txt", "exact_year": 1946, "label": 3, "year_range": "1946-1950", "text": "Il Presidente avverte che la riunione ha lo scopo di informare il Consiglio della situazione determinatasi dalle dimissioni del ministro del Tesoro on. Corbino. Nelle consultazioni e conversazioni, che ha limitate al settore finanziario, si è fatta la convinzione che prima della questione della sostituzione personale si imponga la necessità di riesaminare il programma economico-finanziario già posto a base del Ministero, aggiornandolo col rivedere la parte caduca e rendendolo aderente alla situazione finanziaria del momento, la quale gli pare molto seria. Per riguardo a questa situazione finanziaria oltre che a quella internazionale (Parigi) ha ritenuto opportuno non estendere la crisi. È da preferirsi un accordo su provvedimenti concreti da attuarsi dal Governo e col concorso delle varie categorie. Anche senza risolvere la questione personale della sostituzione del dimissionario riusciremmo in tal modo a presentarci al paese dando un senso di nuova fiducia. Sul programma così aggiornato l’accordo politico-finanziario è stato raggiunto anche col concorso della Confederazione del Lavoro attraverso l’opera di vari ministri da lui all’uopo incaricati . […] Replica osservando a Nenni che egli non sarebbe certo andato alla Assemblea unicamente a esporre il programma esposto da Campilli . Sostiene e sosterrà eventualmente anche dai banchi dell’opposizione che non si può parlare del 25% di aumento ai salari ed agli stipendi, come accennato da Nenni, senza affrontare prima altri e fondamentali problemi. Se il Governo non affronta il problema della stabilizzazione del valore della lira andremo fatalmente allo slittamento. Le agitazioni e le continue richieste di aumento di salari hanno creato uno stato di allarme fra i produttori. Noi così andremo al fallimento, se noi non salviamo la moneta, metteremo in pericolo lo stesso regime repubblicano. Questo problema è essenziale. Per questo dichiaro e dichiarerò – prosegue il Presidente – che era necessario arrivare all’accordo economico-finanziario preparato da Campilli e dalla Commissione ministeriale, assieme al Direttore della Banca d’Italia, Menichella. Aveva ragioni di ritenere che, raggiunto l’accordo sui provvedimenti da prendersi, il Menichella avrebbe accettato il portafoglio del Tesoro. Ma Menichella ha rifiutato, probabilmente pel timore che la tregua delle agitazioni sindacali non si possa ottenere. Ci sono state critiche che dal Tesoro si sono estese al ministro delle Finanze. Ci sono preoccupazioni di partiti e di tecnici. Si è affacciata la tesi della unificazione dei due Dicasteri. Ciò avrebbe potuto apparire un’estensione a Scoccimarro della crisi di Corbino. II ministro Scoccimarro gli ha espresso, inoltre, la convinzione che il cumulo della duplice responsabilità di due dicasteri su un uomo solo – egli Scoccimarro – non lo riteneva opportuno. Fra i candidati, il Menichella non ha insistito sulla unificazione dicasteri. Altri invece hanno messo tale pregiudiziale come condizione indispensabile. Quanto ai democratici cristiani non si può far loro colpa se dopo tante responsabilità non ritengano opportuno assumerne altre, mentre, del resto il gruppo democristiano è d’opinione che occorra realizzare la unificazione di due dicasteri. Tutto ciò ha portato a ritardi. Non è sua colpa. Se Nenni ha un candidato da proporre quale ministro, lo dica. Non comprende l’opposizione di Nenni a che la questione sia sottoposta alla decisione della Costituente. Egli – De Gasperi – sente di essere responsabile verso la Costituente e non già nei confronti delle direzioni dei partiti. Intenderebbe, nel caso, portare alla Costituente tutte le questioni urgenti e pendenti, non comprese nell’esposizione Campilli-Scoccimarro. Quanto alle finanze comunali ha interrogato Scoccimarro che si è dichiarato contrario ad una autonomia fiscale comunale. Ha chiesto e disposto il rinvio dei provvedimenti sugli impiegati ex fascisti che Nenni vorrebbe eliminare dalla possibilità del ritorno ai loro posti per studiare e concludere provvedimenti particolari che risparmino la necessità di una nuova legge la quale verrebbe sicuramente criticata. Ciò soprattutto perché i casi non sembrano molti: ed egli non ritiene si tratti di casi gravissimi, alla cui liquidazione, per la partita indennità di licenziamento, potrebbe provvedersi col concorso dello Stato. Per ciò che riguarda la difesa della Repubblica riferisce che lo stesso ministro della Guerra on. Facchinetti gli ha detto che dovendosi eliminare ben quattromila ufficiali riteneva dovere agire con prudenza. Dubita che sia consigliabile agire con precipitazione, perché si potrebbero provocare reazioni pericolose. Per quanto concerne il disarmo fa notare che lo Stato non arriverà ad una pacificazione se non saprà imporlo. Così dicasi per l’occupazione delle terre. Tutto si è fatto per favorire una evoluzione legale con le leggi e le disposizioni del ministro Segni. Ma si è voluto da taluni organizzare la violazione della legge! Fa presente che a Pantano Borghese essendo l’Autorità intervenuta si sono trovati tredici arrestati armati anche di bombe a mano. Insomma, se non si riesce a imporre il rispetto alla legge e allo Stato, noi non potremo imporlo agli avversari del regime. Vi è poi un problema di disciplina fra i ministri. I partiti non osservano nessuna disciplina di stampa. Siamo arrivati al caso di un Sottosegretario di Stato che ha impartito disposizioni contrarie a quelle date dal suo ministro. E di qualche alto funzionario che critica il proprio ministro. Oltre a ciò vi sono questioni che hanno riflessi pure in politica estera. E se anche il Paese non le avesse presenti egli intende richiamare l’attenzione su di esse. Se ha tentato evitare la crisi è soprattutto per questa situazione. Tranne sulla questione del calmiere, che potrà essere esaminata, credeva che ci si potesse trovare tutti d’accordo. Circa il simbolo della Repubblica, fa presente che nella legge stessa è stato disposto che il sigillo resti quello antico fino a che la Costituente abbia provveduto differentemente . Anche la vecchia carta viene tuttora utilizzata per ragioni di economia. Per quanto riguarda i lavori pubblici ricorda che si sta elaborando un apposito piano. Il ministro dei Lavori Pubblici dovrebbe e potrebbe esporlo alla Costituente. Così pure il ministro per l’Agricoltura potrà illustrare la questione agraria. […] Replica che egli, invece, pensa che un dibattito alla Assemblea sia per riuscire utile; potrà svelenire la richiesta dell’unificazione dei due Ministeri. Ritiene opportuno rinviare la ricerca del ministro in quanto essa può dipendere dall’andamento stesso della discussione. Se il Consiglio crede opportuna la nomina di un interim, si potrà, invece, provvedere senz’altro. "}
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+ {"filename": "eb0f577f-a9d0-427d-b4d1-c989d486bd27.txt", "exact_year": 1951, "label": 4, "year_range": "1951-1955", "text": "Le accuse che mi fanno questi signori del Msi di essere filocomunista sono oltre tutto ridicole, come lo sono altrettanto quelle dei comunisti che mi accusano di avere spalleggiato il fascismo. Agli uni e agli altri posso rispondere che sempre ho agito da italiano e da democratico e quando nel 1922 io e i miei amici ci siamo accorti che la libertà era in pericolo, abbiamo preso la strada della libertà e della democrazia e ne abbiamo pagato le conseguenze. Questo è stato il mio fascismo. Falsa è dunque l’accusa dei comunisti ma falsa ancora più l’accusa del Msi. È proprio ridicolo pensare come dalle due parti si falsifichi la storia, come si pensi in ogni modo di colpirmi. No, io fui e sono un democristiano (e sono cinquant’anni che sono in politica), mai sono venuto meno a questa linea di azione. Ma la mia parola ben poco conta, quello che conta sono le opere che il mio governo ha fatto, la ricostruzione dell’Italia che ha riportato il paese ai livelli prebellici. Quello che il fascismo fece contro di me nel 1924 è stato oggi riesumato da gente di cui non posso credere alla buona fede. Devo dire ai signori del Msi: ove eravate voi negli anni dal 1946 ad oggi, quando si è trattato di organizzare un governo democratico? Dove eravate voi, salvatori d’Italia, quando la parte comunista minacciava la conquista del potere? Noi democristiani abbiamo affrontato il popolo nelle piazze a sostegno di una politica di giustizia, di una politica costruttiva. Dopo avere ricordato quanto il governo ha fatto per Grosseto ed essersi soffermato sulla prossima realizzazione dell’acquedotto di Fiora che darà l’acqua a tutta la Maremma – e per cui è prevista una spesa di 9 miliardi – l’oratore ha messo in rilievo quanto il governo si appresta a fare in Maremma in tema di riforma agraria. Noi abbiamo sentito il «problema della terra» e vi dico che in provincia di Grosseto saranno espropriati ben centomila ettari. Per ventisettemila l’esproprio è già attuato. Se a questo aggiungete tutti gli altri lavori che la riforma agraria comporta, potrete render conto della mole dei lavori che per una più equa giustizia sociale il governo attua ed attuerà in questa regione. Questi sono fatti. Il governo giudicatelo dai fatti e non dalle chiacchiere della propaganda socialcomunista. Non è facile contrastare il progresso delle masse socialcomuniste, che dispongono di grandi mezzi e che hanno sulle folle una grande attrattiva. Noi però faremo ogni sforzo per contendere il passo ai socialcomunisti, non per ragioni sociali – che è nostro precipuo intendimento applicare una maggiore giustizia sociale –, ma perché nel partito comunista vediamo un partito che serve una causa che vede solo le cose da un punto di vista sovietico. Quelli del Msi ci dicono che non siamo adatti per combattere il comunismo. Io mi domando se essi vogliono ricorrere ancora alla violenza, oppure arrivare ad un rivolgimento che avvenga attraverso le libere consultazioni popolari. Io mi domando se essi non si sentono di rendersi ridicoli con l’affermare che siamo un partito di vecchiette e di beghine. No, signori del Msi, vi sbagliate se pensate di avere il monopolio della gioventù. Penso che non sia troppo tardi, però, per invitare questi signori a fare un atto di coscienza. Se veramente essi sono guidati da un entusiasmo nazionale, come possono pensare di risollevare l’Italia da soli, proprio soli, senza l’aiuto di nessuno? Noi abbiamo perdonato, abbiamo dimenticato e dobbiamo vedere oggi questa gioventù che si aggrappa ancora al passato, che fu violenza e servilismo, accusare noi di servilismo. Essi ci accusano di non essere italiani, di mancare di sentimento nazionale. Questa è una accusa che noi respingiamo nella maniera più categorica. Noi siamo pronti ancora ad una collaborazione, ma a una condizione: che non si parli più del passato e che si operi solo ed esclusivamente nell’interesse del paese, il quale deve seguire una politica come la nostra, una politica di dignità, di alleanze con popoli liberi, una politica di pace. Ai comunisti che ci accusano di preparare la guerra e di preparare al popolo un nuovo servaggio io rispondo: quale imperialismo abbiamo noi da difendere, quali mire possiamo noi avere con il piccolo esercito a nostra disposizione? Noi non riusciremo mai a provocare un conflitto, e perché non vogliamo e perché non possiamo. Ecco perché tutta l’impostazione della propaganda comunista è falsa e ampiamente lo hanno dimostrato gli avvenimenti coreani, i quali dai comunisti sono stati prospettati esattamente al contrario solo perché così volevano i loro interessi, gli interessi della Russia. La propaganda comunista è una continua calunnia contro il governo. Noi siamo circondati da una falsa propaganda, che proviene dagli Stati satelliti della Russia. Finché sono parole, niente è da temere (benché facciano tanto male). Ma è da temersi che questo lancio di parole possa trasformarsi in un lancio di colpi di offesa e allora io dico: noi non siamo soli. È inutile il gioco di Togliatti, il quale dice: mettiamoci l’uno accanto all’altro. Io l’ho provato. Finché si tratta di problemi di politica interna, benché l’accordo sia spesso faticoso, a qualche risultato si giunge, ma quando si toccano problemi di politica estera, allora si vede subito la politica sleale del Pci, perché non è un Partito comunista nel vero senso della parola, ma un Partito comunista bolscevico, che segue ciecamente la parola di Mosca. Fu per questo che trovai necessario eliminarli dal governo. Io mi auguro che dal voto che voi esprimerete domenica prossima possano uscire amministrazioni democratiche, feconde per lavoro e per opere. Mi auguro che la Maremma, con la riforma agraria e lo sviluppo industriale, possa avviarsi ad essere una grande regione. La nostra meta è creare una nuova Italia, che abbia profonda la legge della giustizia, un’Italia che sia rispettata all’estero e che riprenda la sua funzione nel mondo, cui le dà diritto la gloria del suo passato e l’operosità del suo presente. "}